Concludiamo la pubblicazione di questo studio, apparso una decina di anni fa su "L'Internazionale" di Livorno. Nonostante il taglio risenta ancora di una sopravvalutazione dell'esperienza leniniana, pensiamo possa ancora avere un qualche interesse nell'ottica di un ripensamento globale dell'esperienza della sinistra in Italia.
Giorgio Amico
Alle origini del socialismo italiano
5. Filippo Turati, la “Critica
Sociale” e Antonio Labriola
Nella seconda metà degli anni Ottanta
la teoria marxista, fino ad allora pressocchè quasi sconosciuta,
conosce una rapidissima diffusione in Italia sia nell’ambito del
movimento operaio che dello stesso mondo accademico ufficiale. Nel
1886, sette anni dopo la pubblicazione del “Compendio” del Primo
Libro redatto da Carlo Cafiero, esce la prima traduzione integrale
del “Capitale”. Due anni più tardi viene pubblicato “Il
Manifesto del partito comunista”, mentre nel 1890 Antonio Labriola,
ormai in piena rottura col radicalismo, inizia a tenere presso
l’università di Roma le sue lezioni sul materialismo storico. Tra
il 1888 e il 1890 appaiono traduzioni di scritti di Marx, Engels,
Kautsky, Lafargue e Plechanov e larga diffusione hanno articoli e
opuscoli che riprendono le posizioni del Partito operaio francese e
del Partito socialdemocratico tedesco. Tutto questo fervore di
iniziative non manca di avere benefici effetti sul movimento operaio
italiano, costretto dalla necessità di confrontarsi con le nuove
idee provenienti d’oltralpe a rompere con il municipalismo e
l’operaismo che tanto pesantemente ne avevano segnato i primi
tentativi di organizzazione politico-sindacale.
Filippo Turati è
l’uomo che incarna questo passaggio. Di formazione culturale
positivistica, proveniente come buona parte dei militanti della sua
generazione dal radicalismo post-risorgimentale, assieme ad Anna
Kuliscioff, esperta conoscitrice dei testi marxiani e del dibattito
internazionale, egli fonda la Lega socialista milanese con il preciso
intento di favorire la sprovincializzazione del movimento operaio
italiano. Centrale in questo progetto è la rivista la “Critica
sociale” che in brevissimo tempo diventa un fondamentale punto di
riferimento per quanti, consapevoli della necessità che anche in
Italia si proceda speditamente sulla via della costruzione del
partito sul modello tedesco, cercano un’ispirazione per l’azione
politica quotidiana in grado di andare al di là delle ormai annose
dispute che travagliano il campo socialista. In questa battaglia la
“Critica sociale” funge da luogo di incontro, stanza di
compensazione, fra lo spontaneo movimento di lotta e di
organizzazione della classe operaia e la coscienza socialista degli
intellettuali più avanzati, sede di dibattito privilegiata e, come
affermerà lo stesso Turati, “scuola collettiva” per i quadri
della futura organizzazione politica.
Certo, Turati non è un
marxista ortodosso e la sua visione del socialismo risente, anche nei
suoi interventi migliori, di un gradualismo di fondo che sotto la
copertura di una “intransigenza” formale di fatto segnerà
profondamente in senso riformistico il nascente partito socialista.
Così come profonde sono le differenze con l’altro grande esponente
del socialismo italiano di quell’epoca, quell’Antonio Labriola
che mai ne accetterà la direzione politica sul movimento, tanto da
scrivere ad Engels all’indomani del Congresso di Genova, a cui
rifiuta di partecipare, per denunciarne il carattere “ambiguo,
equivoco, elastico”. Labriola, che pure acutamente coglieva
l’eclettismo del socialismo milanese, restava tuttavia prigioniero
di una visione rigorosa, ma astratta, del partito, mancandogli
l’esperienza viva a contatto quotidiano con la classe operaia che
invece rappresenta il retroterra dell’azione turatiana. Per questo,
pur raggiungendo livelli di assoluta eccellenza nell’elaborazione
teorica, tanto da rappresentare un punto di riferimento fondamentale
per un’intera generazione di quadri marxisti e non solo in Italia,
basti pensare a Trotsky che ne “La mia vita” riconoscerà
l’influsso determinante del filosofo italiano nella sua formazione,
egli non riuscirà mai a giocare un ruolo politico di un qualche
rilievo nel movimento socialista.
Espressione dell’area socialmente
ed economicamente più moderna del paese, Turati è il primo fra gli
esponenti socialisti italiani a cogliere a fondo la necessaria
dimensione internazionale del nuovo movimento operaio in gestazione
in tutta Europa. Lo troviamo così, agli inizi del 1891, a
rappresentare il proletariato italiano al Congresso di Bruxelles
della neocostituita Seconda Internazionale. Esperienza fondamentale
che lo convince della necessità e dell’inevitabilità, pena
l’emarginazione del socialismo italiano dal contesto del movimento
operaio internazionale, della rottura con gli anarchici, superando in
tal modo definitivamente le esitazioni che per oltre un decennio
avevano reso incerta l’azione politica di Costa.
Il giornale nazionale come
organizzatore collettivo
Preparato da almeno un anno di intenso
lavoro di ricucitura fra i vari gruppi da parte della Lega socialista
di Filippo Turati, il 2-3 agosto 1891 nella sede del Consolato
operaio di Milano si tiene il “congresso operaio italiano” con
rappresentanze di tutte le principali correnti del movimento
socialista e radicale, comprese quella anarchica e quella
repubblicano-collettivista. La gestione dei lavori congressuali
risultò fin da subito difficile per l’eterogeneità dei
partecipanti e per la violenta opposizione degli anarchici e di parte
degli operaisti alla definizione di un chiaro piano di azione
politica del proletariato e alla costituzione di un partito dei
lavoratori che fosse qualcosa di più di una semplice federazione di
società operaie. Nonostante questo, grazie al paziente e tenace
lavoro di mediazione svolto da Turati e dagli altri esponenti della
“Critica sociale” il congresso si concluse con l’approvazione
di uno Statuto e di un Programma comune e con la convocazione di lì
a un anno di un nuovo e questa volta definitivo momento di dibattito
per verificare l’esistenza delle condizioni minime per la
costituzione di un’organizzazione politica nazionale della classe
operaia.
Uscire dal ristretto ambito delle lotte corporative,
unificare la classe su scala italiana, costruire un giornale
nazionale capace di fungere da organizzatore collettivo, fondare il
partito di classe: questi i problemi fondamentali che si pongono in
quel momento i militanti d’avanguardia e non solo in Italia, basti
pensare al “Progetto di programma del Partito Operaio
Socialdemocratico Russo” scritto in carcere da Lenin a cavallo fra
il 1895 e il 1896. Quello che distingue il movimento operaio italiano
è semmai la confusione teorica e il pressapochismo organizzativo
contro cui, come si è visto, tentano da angolazioni diverse e con
differenti strumenti di battersi sia la “Critica sociale” che
Antonio Labriola.
In preparazione del congresso il 31
luglio a Milano esce il primo numero del settimanale “Lotta di
classe, Giornale dei lavoratori italiani”, con a grandi lettere
sulla testata riportato il motto di Marx “Proletari di tutti i
paesi unitevi!” Diretto nominalmente da Camillo Prampolini, ma di
fatto redatto principalmente da Turati e dalla Kuliscioff, il
giornale mostra fin dai primi numeri un respiro assai più largo dei
fogli socialisti dell’epoca, una capacità nuova di abbracciare
interessi e temi non soltanto locali e di parlare un linguaggio
comprensibile a tutti i proletari qualunque fosse il loro ambito di
lavoro o il luogo di residenza. Con grande chiarezza il settimanale
riassumeva i caratteri specifici del movimento socialista nella lotta
per la socializzazione dei mezzi di produzione da ottenersi mediante
la conquista del potere politico. A questo proposito l’editoriale
del primo numero, dopo aver tributato il giusto riconoscimento al
valore dell’attività svolta dal vecchio Partito Operaio, scriveva:
“Gli scioperi, le organizzazioni di resistenza, le cooperative , ecc., sono eccellenti mezzi di agitazione, eccellenti mezzi di reclutamento per formare l’armata proletaria, ma guai al movimento operaio, guai all’avvenire della classe operaia se essa pone in questi mezzi tutta la sua speranza, i suoi scopi finali (…) La radice di tutte le vessazioni, di tutti gli abusi, per i quali il salariato è una nuova forma dell’antica schiavitù, deve trovarsi nel monopolio dei mezzi di produzione e nella direzione della società nelle mani di privilegiati. La socializzazione di questi mezzi è la soluzione del problema. Trascurando questo scopo, la questione operaia resta una semplice questione borghese, una piccola questione di accomodamento fra i servitori e i padroni. Questo è il metodo con cui i padroni hanno interesse a considerarla”.
Nonostante il linguaggio usato non abbia l’incisività e il rigore scientifico delle pagine leniniane, la messa in guardia contro una visione meramente tradeunionistica della lotta di classe è chiarissima, come in modo nettissimo è espressa l’esigenza che il giornale nazionale funga da organizzatore collettivo della classe.
“La questione operaia, come questione
soltanto a sè, nel suo piccolo significato, nel suo significato
borghese, è stata abbandonata per sempre: si è capito che la
questione separata e allontanata dall’ideale socialista è un
controsenso; si è capito che il movimento operaio e il socialismo
sono due aspetti di un medesimo fenomeno: il primo è il fatto, il
secondo la coscienza, l’anima del fatto: separarli vuol dire
distruggerli (…) Quest’opera di fusione, di elaborazione
coscienziosa, questa opera di educazione e di vivificazione del
partito, non può essere completa se al lavoro particolare, anche nei
giornali secondari, non si aggiunge per completarlo e coordinarlo il
lavoro di un organo centrale che non sia il giornale di una o di
un’altra città, di uno o di un altro mestiere, ma sia il giornale
del partito stesso.”
Il congresso di Genova
In esecuzione del mandato del congresso
milanese dell’anno precedente il 14 agosto 1892 si riuniscono a
Genova, alla Sala Sivori, oltre 400 rappresentanti di società
operaie, leghe di resistenza, cooperative, comitati elettorali,
circoli socialisti, repubblicani e anarchici. Sono presenti, con
l’eccezione clamorosa di Antonio Labriola che snobba il congresso
non considerandolo sufficientemente rappresentativo, i nomi più noti
di oltre un decennio di lotte operaie e democratiche: Giuseppe Croce,
Costantino Lazzari, Antonio Maffi, Camillo Prampolini, Andrea Costa,
Leonida Bissolati e naturalmente Filippo Turati e Anna Kuliscioff.
Fin dai primi interventi fu evidente che il fragile compromesso con
gli anarchici raggiunto un anno prima a Milano non poteva reggere.
Nonostante un ultimo, disperato tentativo unitario di Andrea Costa,
che deluso e stanco abbandonerà immediatamente dopo il congresso,
gran parte dei delegati concorda sulla necessità di rompere
definitivamente con gli anarchici che strenuamente si oppongono
all’ipotesi di costituire un vero partito politico che finalmente
sappia andare oltre l’ormai asfittica formula dei “circoli operai
affratellati”. Il giorno dopo 197 delegati guidati da Turati si
riuniscono a parte e deliberano la costituzione del Partito dei
Lavoratori Italiani che l’anno successivo a Reggio Emilia assumerà
il nome di Partito socialista.
Il programma, opera soprattutto di
Turati che con una serie di emendamenti aveva profondamente
trasformato l’originario testo di Maffi infarcito di ovvietà
democraticistiche, nei fatti riprende le linee portanti del programma
della Lega socialista milanese e rappresenta una prima definizione
dei principi basilari del socialismo sancendo la nascita di un
partito autonomo della classe operaia che accoglie, almeno sul piano
dei principi, la dottrina marxista. Certo, il programma uscito dal
congresso di Genova soffre ancora notevolmente dell’estrema povertà
teorica che caratterizzava – e , detto per inciso, caratterizzerà
sempre, fatta salva la parentesi felice del primo periodo di vita del
PCd’I - il movimento operaio italiano. Di più, il partito che
nasce alla Sala dei Carabinieri genovesi presenta già in modo
avvertibile quegli elementi di opportunismo che dovevano negli anni
successivi ed in particolare nel periodo giolittiano segnare
indelebilmente l’intero suo percorso politico. Ne è prova la
discussione sfociata poi nella risoluzione sulla questione dello
stato dove fortissimo è l’eco del programma adottato al congresso
di Erfurt della socialdemocrazia tedesca (1891) profondamente segnato
dall’illusione di un utilizzo dello stato borghese, conquistato e
diretto dal partito operaio, in funzione della costruzione del
socialismo.Resta comunque il fatto che, come in sostanza noterà
Engels in risposta alle note polemiche di Labriola, anche la classe
operaia italiana aveva ora il suo partito e questa era la cosa
importante.