Prima di diventare
l'attuale personaggio televisivo, Mughini fu per molti anni un
intellettuale impegnato, persino maoista. Fondatore di Giovane
Critica, rivista prima di cinema e poi di politica,lavorò poi a
lungo al settimanale di Parri L'Astrolabio. Su questa rivista
pubblicò l'articolo che proponiamo oggi, frutto di una lunga
intervista a Umberto Terracini che, nonostante l'ostracismo del PCI,
con Bordiga mantenne per tutta la vita rapporti fraterni.
Terracini parla di
Bordiga
Quel «gauchiste» di
50 anni fa
Amadeo Bordiga merita
oggi certamente attenzione politica. Non però quella retorica e di
comodo riservata ai «vinti». Dinanzi a siffatti protagonisti,
comunque, non c'è da chiedersi che cosa di essi resiste al nostro
confronto, ma che cosa di noi resiste di fronte a loro.
Ignazio Silone, il quale
per un lungo tempo della sua vita si chiamò Secondino Tranquilli,
racconta in quella che è forse la più bella fra le testimonianze
raccolte nel volume Il Dio che ha tradito, come durante una seduta
cui partecipavano alcuni fra i massimi dirigenti dei Partiti
Comunisti della III Internazionale, Trotckij finisse un suo
intervento usando un'espressione italiana aggiungendo, rivolto a
Bordiga, "per parlare nella lingua di Dante e di Bordiga".
Era un omaggio dell'organizzatore dell'Armata Rossa, certo non usueto
in bocca sua, a una delle figure che nell'Internazionale del tempo
irradiava maggior prestigio.
Amadeo Bordiga è morto.
Il compagno Amadeo Bordiga. Perchè lui, a differenza di altri "esuli
risentiti", non venne mai a patti con l'avversario, non ammiccò
a un qualche Petain. Sapeva troppo della lotta politica e delle sue
leggi per credere che un "dio" avesse tradito, finendo
magari con il lasciarsi abbindolare dai "diavoli" partoriti
dalla dinamica della società capitalistica. Se c'erano delle ragioni
alla sua sconfitta, sconfitta con la quale ha convissuto in ostinata
e stoica solitudine per 45 anni, esse andavano ricercate,
coerentemente con la sua metodologia generale, nell' "economia"
e nel gioco delle classi.
"Da tempo infinito
lontano da lui, eppure lo sentivo più vicino di molti che accosto
ogni giorno", così ci dice Umberto Terracini, iscrittosi al PSI
nel 1911, membro della direzione del PSI nel 1920, nell' Ordine Nuovo
con Gramsci e Togliatti, nel PCI con Gramsci e Bordiga, "quale
massimo organizzatore del partito" condannato dal Tribunale
speciale fascista a ventidue anni nove mesi e cinque giorni di
reclusione (largamente scontati), oggi senatore comunista. Un uomo
cioè che appartiene a uno scorcio di storia del movimento
operaio organizzato tale da indurre - quale che sia il giudizio di
merito su certi esiti e sviluppi - a chiedersi, secondo quanto Adorno
diceva di Hegel, non che cosa resiste di lui davanti a noi, bensì
che cosa resiste di noi davanti a lui (la frase di Adorno è citata
da Cesare Cases, significativamente, in un suo articolo su Gramsci).
Amadeo Bordiga era stato
"espulso" dal PCI sul finire degli anni trenta E' stata una
delle espulsioni tipiche di quel tempo, dice Terracini, quando con
esse non si intendeva "ratificare" una situazione "reale"
ma piuttosto "crearla". Quando gli chiedo le ragioni del
fascino di Bordiga, del suo prestigio anche internazionale, Terracini
risponde che Bordiga sotto una scorza "autoritaria"
rivelava una "comunicatività straordinaria, una "bontà
incommensurabile". Rispetto ad altri "estremisti"
combattuti da Lenin, i quali, a dire di Terracini, furono spesso
delle "meteore", Amadeo Bordiga spiccava per la sua
"serietà", per la sua "singolarità".
Resta però il fatto che,
secondo Terracini, una "grave lacuna" inficiava alla base
l'attività dell' "uomo politico" Bordiga, attività pur
immane (ce ne vogliono tre per fare il lavoro di un Bordiga, diceva
Gramsci). Tale lacuna era "l'astrattezza", il partire non
dalla realtà, in tutta la sua originale concretezza e ricchezza di
mediazioni interne, ma dai "principi".
Bordiga credeva che i
"fatti" non avrebbero potuto non incontrarsi con alcune
linee di sviluppo concettuale. La sua stessa concezione del
"Partito", che poi era la sua forza (tant'è
vero,aggiungiamo noi, che da essa sono partiti alcuni riesumatori
odierni del suo "pensiero"), risentiva di questo limite di
partenza.
Amadeo Bordiga, dice
Terracini, era innanzitutto "uomo di partito". Più che i
problemi della società egli viveva i problemi del "Partito",
della coerenza strutturale e "ideologica" di un nucleo di
rivoluzionari (sperimentati però, si badi bene, sul terreno concreto
della lotta e dell'iniziativa di classe). Egli era, continua
Terracini, molto più "uomo di partito" di Gramsci.
A Livorno Bordiga arriva
forte di una prolungata e ben caratterizzata lotta politica
all'interno del PSI napoletano e nazionale; laddove Gramsci si era
limitato al lavoro politico che comportava una sezione torinese del
PSI. Proprio per questo il nucleo bordighiano (la frazione
"astensionista"), dice Terracini, costituirà lo "scheletro
portante" del PCI appena nato; del quale il gruppo ordinovista
sarà piuttosto il "tessuto nervoso" ma - ed è questa una
"confessione" particolarmente interessante - senza che per
i primi due anni di vita del partito sia davvero "stimolato"
ad esserlo.
Perchè il Gramsci dell'
Ordine Nuovo pensava, agli antipodi com'era di Bordiga, alla
"società" prima che al "Partito", ai movimenti
di massa prima che alle cristallizzazioni organizzative, intese
queste ultime piuttosto come "prodotto della storia"
(l'espressione è di Mao Tze-Toung) anziché come suo fattore
costitutivo e propulsivo: quest'ultima difatti è l'accezione
leninista, o presunta tale, prevalente nel contesto
terzinternazionalista nel quale operano Gramsci e Bordiga.
Ancora dopo il II
Congresso del Partito, quello di Como, Bordiga ha saldamente in mano
l'intelaiatura del partito. La segreteria che ne scaturisce vanta
quattro bordighiani su cinque: Grieco (che poi si convertirà alla
linea gramsciana), Repossi, Fortichiari, Bordiga. Il quinto è
Umberto Terracini; stando alla sua stessa autodefinizione, il più
"uomo di partito" dei torinesi dell' Ordine Nuovo (qualcuno
ha parlato di una persistente influenza di Bordiga su Terracini).
La successiva pesante
sconfitta bordighiana a Lione non avviene nell'ambito di una
dialettica puramente interna all' "istituzione", bensì,
per usare l'espressione di Terracini, su "un terreno
puramente lavorato". Terracini si riferisce al "periodo
matteottiano", l'Aventino, che costituisce il "grande campo
sperimentale della strategia gramsciana". Bordiga si oppone
all'abbandono del Parlamento (ciò che gli sembrava un valorizzarlo)
e si oppone poi a ritornarvi, o comunque non dà peso alcuno
all'iniziativa di Gramsci e alla strategia che la sottende.
Ad Amendola il quale dice
a Gramsci, voi volete tornare in Parlamento e parlare al popolo
coerentemente con il vostro assunto fondamentale che è quello di
fare la rivoluzione, assunto che non è il nostro, Gramsci e i suoi
replicano ritornando in aula (a costo di un grave rischio anche
personale). Bordiga segue distrattamente quella vicenda. Oltretutto,
commenta Terracini, lui riteneva in un certo senso "ineluttabile"
il fascismo, da lui interpretato come uno stadio capitalistico più
avanzato di quello "liberale" (cosa che,in sé, aggiungiamo
noi, alcuni studi recenti tendono a convalidare). Marcisse dunque per
intima putrefazione, ché la rivoluzione socialista ne sarebbe
conseguita ipso facto.
Bordiga non ha mai
scritto queste cose, dice Terracini, ma tale era al fondo la sua
ipotesi. Poco si curava perciò della flessibilità (sia pur
relativa) di certi strumenti (come lo stesso Parlamento, in una
situazione data); né aveva preoccupazioni tattiche, come se la
tattica fosse altra cosa dalla strategia e non ne creasse invece le
condizioni preliminari, le occasioni e le possibilità concrete. In
questo, secondo Terracini, malgrado il perdurante richiamo formale a
Lenin, Bordiga non fu mai "leninista", non afferrò tutta
la complessa lezione politica del rivoluzionario russo. Se Bordiga
non avesse subita la sconfitta del '26, dice Terracini, il PCI non
sarebbe stato dissimile dal "Partito" di cui Bordiga
costituirà il massimo punto di riferimento nel dopoguerra: un
migliaio di iscritti, soprattutto all'estero, che si riuniscono una
volta all'anno in "assemblea" e depositano le loro
"testimonianze" in un volume: "materiali" fra i
tanti, tronchi fra i tanti nel fiume della storia.
Tutto sommato, Terracini
trova che Bordiga mancava di autentica "passionalità politica".
Altrimenti, egli dice, non avrebbe potuto restare così a lungo e
così pervicacemente fuori dalla mischia, fuori dalla concreta
fenomenologia della lotta di classe, come se tutto quanto è nel
"reale" fosse poca e inessenziale cosa rispetto
all'unilineare coerenza del "razionale", e sia pure di
quella forma altissima del "razionale" che è l'ideologia
rivoluzionaria, il patrimonio ideale e politico del movimento operaio
in lotta.
A una mia esplicita
domanda, e cioè se Bordiga avesse intravisto prima degli altri i
pericoli impliciti in un rapporto troppo stretto e vincolante con il
gruppo dirigente bolscevico postleninista e con l'orientamento
strategico che da esso promanava, Terracini dice di no. Bordiga aveva
creduto anzi, omologamente alla sua concezione del "Partito",
alla necessità di una "Internazionale di ferro". No,
conclude Terracini: Amadeo aveva troppi "meriti" perchè
gli si debba concedere anche questo.
"Merito" invece
che, oggi sappiamo, ebbe Gramsci, sia pure in modo tormentato e
politicamente contraddittorio. Anche in questo, "capo" più
ricco e più duttile di Bordiga, più onnicomprensivo. Contrariamente
a quanto ne scrissero i seguaci di Bordiga su Prometeo commemorandone
il martirio "proletario". Gli stessi che a Gramsci, con
"materialismo" un po' greve, rimproveravano la sua origine
intellettuale e persino le sue "condizioni fisiche",
contrapponendogli Bordiga il quale "fu il capo del proletariato
italiano del dopo guerra unicamente perchè seppe, per primo,
affermare la necessità del partito di classe per condurre il
proletariato alla vittoria".
La testimonianza di
Terracini mostra quanto cammino abbia compiuto il Pci, per quanto
concerne la ricostruzione della sua "storia", dal tempo in
cui l'edizione delle Lettere dal carcere di Gramsci venne amputata
dei passi che contenevano giudizi benevoli su Bordiga. Persino il
favorevole giudizio di Bordiga su Gramsci giocatore di scopone venne
cassato, evidentemente perchè ritenuto compromettente. E ancora nel
1951 Giuseppe Berti scriveva di supporre che "Bordiga fosse, in
tutto o in parte al servizio delle classi dominanti anche nel periodo
in cui il bordighismo si presentava ancora come una corrente
opportunista del movimento operaio" (citato da Salvatore Sechi
in Spunti critici sulle "Lettere dal carcere" di Gramsci,
Quaderni Piacentini n. 29, 1967). Il Pci ha poi notevolmente innovato
l'ottica dell'interpretazione storiografica generale. Innanzitutto
con il famoso saggio di Palmiro Togliatti La fondazione del gruppo
dirigente del partito comunista. "Si trattò di una piccola
rivoluzione storiografica", ha scritto recentemente Massimo
Salvadori. E poi con i due volumi di Paolo Spriano; cui è da
aggiungere il contributo di Giuseppe Berti, oggi addirittura incline
a rivalutare la "linea" di Tasca.
Siccome i vivi cercano
sempre di assicurarsi il "voto" del passato, era
prevedibile che nel contesto degli anni '65-'68 quando più grave
sembrò la crisi "storica" e politica dell'intera
costruzione gramsciana e quando più dure e radicali erano le
critiche indirizzate da sinistra al "gruppo dirigente del PCI",
quale uscì vittorioso dalla lotta con Bordiga, quest'ultimo non
poteva non attirare l'attenzione di alcuni studiosi, sollecitati da
un impegno politico nel presente. In quel momento apparvero, e
suscitarono una certa eco, alcune rivalutazioni di Bordiga.
Se ne fece promotrice la
Rivista storica del socialismo, specie nel momento in cui la gestione
Cortesi prevalse sulla linea Merli. Si pensi ai due famosi e
lettissimi saggi rispettivamente di Luigi Cortesi, Alcuni problemi
della storia del PCI. Per una discussione. e di Andreina De Clementi,
La politica del Partito Comunista d'Italia nel 1921-22 e il rapporto
Bordiga-Gramsci. Andreina De Clementi è ritornata recentemente,
seppur di sbieco sull'argomento: sempre sulla Rivista storica del
socialismo, Il movimento operaio tra "ricordi" e ideologia.
A proposito di due libri recenti sui primi anni di storia del PCI.
Ultimamente la stessa studiosa ha consegnato all'editore Einaudi 200
cartelle, che fungeranno da "prefazione" a un'antologia di
scritti di Bordiga. Anche se sulla portata politica complessiva
dell'operazione "neobordighiana" tentata da Cortesi e dai
suoi collaboratori noi condividiamo le critiche che in più occasioni
espresse Stefano Merli.
Fatto è che Bordiga non
è mai apparso sui "cartelli" degli studenti. Addirittura
alcuni fra i "gruppi" più maturi hanno preso eguali
distanze dallo "spontaneismo" e dal "bordighismo"
associando quest'ultimo, seppur alla lontana, con la concezione del
"Partito" che sottostava alla costruzione di alcuni
partitini "marxisti-leninisti". Per non dire poi di certi
seguaci di Bordiga, i quali davvero pochino hanno fatto per rendere
attuale il pensiero del maestro. Basti pensare a un numero speciale
della rivista filobordighiana francese Le fil du temps consacrato a
un'analisi dei "fatti" di maggio. Vi si rieditavano
documenti pubblicati alcuni lustri prima, annunziando
contemporaneamente - perchè così voleva il "ciclo economico"
- la rivoluzione mondiale per il 1975. Dirlo così chiaro e tondo,
aggiungevano cautelativamente i redattori della rivista, potrebbe
mettere sul chi vive l'avversario di classe: ebbene no, concludevano,
perchè tanto non ci prende sul serio.
Paragonare un gigante
come Bordiga a dei pigmei suona blasfemo. Perchè Bordiga è stato un
gigante, e in tempi "di ferro e di fuoco" (un'espressione
prediletta del giovane Marx). Ma resta lontano dai giorni nostri e
dai nostri problemi. Per dirla con Mao, lui sì tanto vicino, Bordiga
coglie raramente i "due elementi" che sono impliciti in
ogni "particolare momento" della storia e della lotta
politica. Nel rivoluzionario napoletano l' "elemento"
dottrinario prevale sempre sull' "elemento" del reale
accidentato e multiforme. Per lui, tipicamente, la stessa storia
della Russia postleninista si riduceva a una "restaurazione del
capitalismo", il che era uno sfuggire ai problemi reali,
politici e teorici, che l'involuzione del processo rivoluzionario in
Russia drammaticamente poneva. Come tutti i momenti "classici"
del passato, e di quale passato, egli merita studio e attenzione
politica: non però quella retorica e di comodo che si presta
usualmente ai "vinti": perchè non sempre i "vinti"
avevano ragione.
L'Astrolabio, 2 agosto
1970
(In ricordo di Sandro
Saggioro e di “Avanti Barbari!)