TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 29 aprile 2010

Marino Magliani, Il volo del colibrì




Marino Magliani racconta la genesi del suo romanzo "Quattro giorni per non morire" e la sua trasformazione in graphic novel.


Marino Magliani

Il volo del colibrì



Quattro giorni per non morire è un romanzo uscito per Sironi nel 2006. E’ l’unico romanzo di cui posso dire: ecco, ricordo con precisione la genesi. Ero in Liguria, inverno, verso il tramonto, un momento che da quelle parti si usa chiamare verso merenda. Mi trovavo in campagna, alto quasi sullo spartiacque, per uno sterrato che risaliva dal fondovalle a un paese esposto di nome Valloria, esattamente sopra la fascia di terreni ulivati, in un punto di piccole vigne, non ancora abbandonate, ma sulla via buona.

La storia a cui pensavo si svolgeva in quel silenzio. A febbraio passano i migratori, la caccia è chiusa e i tordi zirlano senza spavento, in cielo e nei roveti gelati. Poi tornai in Olanda e scrissi. Avevo anche un paio di titoli. Allora quello che mi piaceva di più era Il volo del Colibrì. Colibrì era il protagonista, ligure, di una vallata del ponente. Da giovane, con un amico erano stati in Perù e in Bolivia alla ricerca di un disegno, e quasi senza accorgersene s’erano trovati in mezzo a profanatori di tombe e inseguiti dall’esercito peruviano.


Nell’estate del 2008, a Diano Marina, nella libreria del mio amico Andrea Costa, seppi che il disegnatore Marco D’Aponte, torinese, stava leggendo i 4 giorni.

La storia a Marco D’Aponte interessò, e decise di realizzarci una graphic novel. La proponemmo a Transeuropa. La sceneggiatura venne affidata allo scrittore Andrea B. Nardi, ma mentre Andrea B. Nardi aveva visitato i posti del Colibrì, Marco D’Aponte, pur conoscendo bene la Liguria, aveva guardato il mondo del Colibrì solo attraverso le pagine del romanzo e in seguito quelle della sceneggiatura. In realtà per il Colibrì non esisteva un vero paesaggio ben definito, una valle facilmente riconoscibile, così come non esisteva un paese, Fontanelle, precisamente identificabile in uno dei 300 paesi di fondovalle tra Porto Maurizio e la frontiera, ma ciò che esisteva era un mosaico di pezzi di valle, una collezione di costoni di vallate e paesi. Un’antologia di immagini.

Il risultato di Marco D’Aponte dunque è doppio: egli ha finito per costruire una mappa, la cartografia di tante cose di cui per lungo tempo avevo visto immagini solamente attraverso il filo spinato delle parole. E a volte mi domando se egli non abbia inventato ciò che avevo visto.




Marco d'Aponte, Andrea N. Nardi, Marino Magliani
Quattro giorni per non morire (graphic novel)
Transeuropa 2009
€ 12.90



http://www.nazioneindiana.com/


Marino Magliani (Dolcedo, Imperia, 1960), scrittore e traduttore, ha soggiornato a lungo in Spagna e in America Latina prima di stabilirsi in Olanda, dove attualmente vive e lavora. Ha pubblicato: L'estate dopo Marengo (Philobiblon 2003), Quattro giorni per non morire (Sironi 2006), Il collezionista di tempo (Sironi 2007), Quella notte a Dolcedo (Longanesi 2008), La tana degli alberibelli (Longanesi 2009) e, con Vincenzo Pardini, Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo (Transeuropa 2010). Con La tana degli alberibelli ha vinto la prima edizione del Premio Frontiere-Biamonti "Pagine di Liguria".

mercoledì 28 aprile 2010

Ipazia. Quando la filosofia è l'unica via per la libertà



In un mondo lacerato da conflitti politici e religiosi c'è spazio per la filosofia? E' la domanda che pone il film Agorà da pochi giorni nelle sale italiane.


Armida Lavagna

Ipazia. Quando la filosofia è l'unica via per la libertà



“L’idea di non avere un centro mi spezza il cuore”.

Vediamo Ipazia la prima volta davanti ai suoi discepoli. Insegnante brillante, attenta ascoltatrice, scalza. Sotto i suoi piedi la terra, sotto la terra quel centro che sembra costituire per lei l’unica certezza, il punto di partenza, l’assioma irrinunciabile. L’unica altra certezza che rivendica è che lei e i suoi discepoli – a prescindere dai loro diversi orientamenti religiosi o di pensiero – sono tutti fratelli. Perché guardandosi tra di loro tutti dovrebbero arrivare alla conclusione che è molto di più ciò che hanno in comune che ciò che li divide. Entrambe le certezze finiranno per sgretolarsi.
La seconda nel dolore, nel tradimento, nell’impossibilità di cambiare il corso di un processo che nemmeno l’amore basta ad arrestare; in una condanna a morte feroce e insensata, eseguita con la stessa furia zelante e cieca con la quale mani altrettanto sacrileghe e impietose si erano avventate sull’unica cosa che era più pericolosa di quella donna astronoma e filosofa: i suoi libri e il luogo dei libri, la biblioteca di Alessandria, rifugio di un pensiero libero dagli opposti dogmatismi, dalle opposte fedi sbandierate con la bava alla bocca e la spada in pugno, dal fanatismo governato e organizzato da abili uomini di potere o da predicatori che parlano convinti di parlare nel nome di un Dio o degli dei, convinti “di raccogliere in bocca il punto di vista di Dio”, direbbe De André.
La prima invece è demolita da Ipazia stessa, attraverso il suo coraggio implacabile, che le ruba il sonno e gli affetti, che la consacra ad una vita unidimensionale perché quella è l’unica via per mantenere ciò che è più importante per lei: la libertà. La libertà di parlare, di insegnare, ma prima di tutto di praticare la filosofia e la scienza, come spiega con drammatica efficacia ai suoi ex-discepoli: “Voi non potete mettere in discussione ciò in cui credete. Io devo”. E mettendo in discussione quella sua unica certezza, mettendo in discussione il cerchio, cioè la perfezione, Ipazia ha un’intuizione che solo dopo milleduecento anni sarà verificata.
In fondo, Oreste, il discepolo apparentemente meno brillante, è quello che più le dà stimoli per la sua riflessione, quello meno lontano dalla verità (anche quando ritiene inconciliabili la perfezione del cielo e la condotta umana, tutt’altro che vicina alla perfezione...); ma Oreste non compie mai il passo successivo, si ferma, rinuncia a cogliere le possibili conseguenze di un’ipotesi, a vedere le cose da un nuovo punto di vista nel loro insieme. Cosa che comporterà tra l’altro la sua fine politica, in uno di quei frequenti momenti storici in cui si intrecciano religione e politica, fanatismo e tensioni sociali (queste ultime purtroppo solo alluse nella figura dello schiavo fedele e infedele), ricerca del capro espiatorio per la fine di un’epoca.



“Filosofia! Proprio quello di cui abbiamo bisogno, di questi tempi!”. Gli uomini potenti di Alessandria trattano con disprezzo quello che appare loro come un inutile orpello in tempi in cui l’impero lotta per la sua sopravvivenza, loro stessi lottano per la propria sopravvivenza, una cultura millenaria e i gli esiti migliori del suo pensiero lottano per la sopravvivenza.
Questa è la frase che dovrebbe accompagnarci fuori dalle sale cinematografiche. Abbiamo bisogno, invece, di filosofia, in tutti i tempi. Abbiamo bisogno di non salire sulle barricate, di non progettare crociate, di non chiuderci in una fortezza che sentiamo minacciata da chi ci pare diverso da noi. Di non proclamarci detentori di verità assolute, nessuno, ma ricercatori di ciò che altri dopo di noi miglioreranno o confuteranno. Abbiamo bisogno di quello che alcune sapienti inquadrature ci suggeriscono, quando i papiri della biblioteca volano sulle nostre teste e il mondo per un istante si capovolge, o quando dai primissimi piani con il sangue che schizza sulla macchina il punto di vista si sposta fino all’universo, un universo vuoto di divinità o se non tale inorridito e sgomento di fronte all’insensatezza dell’uomo; o si sposta anche solo di qualche metro più in alto rispetto a quei piedi poggiati al suolo, quanto basta perché gli uomini affannati a scannarsi e a distruggere il sapere sembrino scarafaggi impazziti.
E’ il tema dello “sguardo dall’alto” – amato proprio dalla filosofia e dalla letteratura antiche - che disvela impietosamente l’assurdità di certe contese umane, che riduce ad insetti le minacciose folle trascinate alla strage dai loro capi, che denuncia l’arroganza di ogni essere umano o gruppo di esseri umani che ritenga di poter imporre ad altri la propria verità, qualunque essa sia.



Armida Lavagna, savonese, insegna Lettere in una Scuola Secondaria. Si occupa per Vento largo di letteratura e di cinema.


lunedì 26 aprile 2010

Concerto di Carlo Aonzo ad Atlanta


sabato 24 aprile 2010

La parte dei gesti perduti




Domani è il 25 Aprile. Abbiamo chiesto a Armida Lavagna di scrivere su Vento largo cosa significhi quella data per una giovane insegnante nata negli anni Settanta.

Armida Lavagna

La parte dei gesti perduti


“L'altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell'odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi”.

Per chi la Resistenza non l’ha vissuta, né la tragedia della guerra, né il ventennio da incubo che afflisse l’Italia, non c’è altro modo che farsela raccontare da chi ancora può farlo, o leggerla. Queste parole de Il sentiero dei nidi di ragno si finisce per rileggerle ogni volta. E per crederle, è sufficiente leggere dopo di quelle le perle pedagogiche contenute nel libro della seconda classe elementare di quegli anni:

“Fu domandato a un sapiente: ‘Quale dev’essere la prima virtù del bambino?’ Rispose: ‘L’obbedienza’. ‘E la seconda?’ ‘L’obbedienza’. ‘E la terza?’ ‘L’obbedienza’. Quale dev’essere il primo requisito del Balilla e della Piccola Italiana? L’obbedienza”.

Questi erano gli insegnamenti, questa era la scuola, questo era il “vangelo” fascista. Basta questo, anche senza tutto quello che venne dopo. E’ scomodo domandarsi che cosa avremmo fatto noi che non c’eravamo, quale parte avremmo scelto, quanto coraggio avremmo avuto, o dove ci saremmo nascosti e perché. Forse è domanda destinata a non trovare risposta. Ma serve almeno a darci la misura di quanto coraggio ebbe chi – nato cresciuto o maturato in un tale contesto - seppe farlo, fino alle estreme conseguenze, a volte poi affiancato da chi scelse quando scegliere diventò facile, quando scegliere significò per alcuni trasformare la propria paura in rabbia, o semplicemente sputare addosso o irridere chi fino al giorno prima si temeva, quando non fu più scelta ma convenienza, opportunismo, nei giorni in cui le parole giustizia e vendetta talvolta finirono per confondersi, fino a lasciar germogliare dubbi, fino a lasciar emergere domande che quei tempi non videro.



Certo, in quella fase particolarmente atroce di guerra – ma per quanti era già stato atroce tutto ciò che l’aveva preceduta? – vi fu violenza da un parte e dall’altra, fu versato il sangue dei vincitori e dei vinti, ridotti a cadaveri di fronte ai quali con Pavese probabilmente molti toccarono “con gli occhi che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”.

Ma a guerra finita, a guerra finita per i morti, a chi resta tocca scrivere e narrare la storia. E a chi viene dopo tocca ascoltarla, studiarla, narrarla ancora. E qui i morti non possono, non potranno mai essere tutti uguali.

“L’altra parte” non scelse solo la sconfitta o un malinteso senso dell’onore o una coerenza rivendicata sulla pelle dei propri connazionali decimati o deportati. Scelse un posto nella storia che non può essere modificato dal tempo che passa. Ogni pagina di quei deliranti manuali scolastici dove si studiava l’agiografia del Duce, ogni numero della Rivista della razza inviato alle scuole per “educare” le menti dei fanciulli, bastano a dimostrare – già solo quelli! – che tale scelta non può essere nemmeno per un istante equiparata all’altra.

Chi la fece, non può oggi rivendicarlo. Non può pretendere di aver avuto ragione quanto chi stava dall’altra parte. Può certamente motivare la propria scelta, adducendo le ragioni più diverse, ognuna delle quali potrà trovare diversa comprensione in chi oggi appunto non può sapere davvero cosa voleva dire trovarcisi in mezzo. Ma non può chiedere più di questo. Non può reclamare onorificenze e medaglie. Non può essere equiparato a chi per mille ragioni fece la scelta opposta. A chi, in un regime chiaramente e dichiaratamente autoritario, violento, repressivo, ebbe il coraggio di opporsi.

“Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere” (Il sentiero dei nidi di ragno, prefazione all’edizione del 1964).


Armida Lavagna, savonese, insegna Lettere in una Scuola Secondaria. Si occupa per Vento largo di letteratura e di cinema.



giovedì 22 aprile 2010

Asger Jorn, esploratore dell'animo





Più che un blog Vento largo è una piccola comunità di persone che condividono interessi e passioni. Con questo studio, già apparso su "La Civetta" , rivista del Circolo degli Inquieti, Gabriella Freccero ci raggiunge in questo percorso portandoci in dote il suo rigore analitico e la sua passione militante.


Gabriella Freccero

Asger Jorn, esploratore dell'animo


Negli anni cinquanta del secolo scorso avvenne in Liguria una manifestazione del peculiare spirito del luogo dei nostri posti, del quale ancora non si è parlato: farsi laboratorio di esperienze nuove, anticipando il futuro. Il paradosso della Liguria, regione di boschi e natura quasi allo stato selvaggio, protagonista in un centinaio di anni di una espansione tecnologica ed industriale senza precedenti, fra le più avanzate d'Italia, fece da luogo ideale per lo scoppio delle questioni poste dalle avanguardie artistiche del dopoguerra: il rapporto fra arte e politica e arte e tecnologia, lo status degli esseri umani nella società industriale di massa, il recupero dell'arte primitiva e di una umanità primitiva, che non ha ancora sganciato la bomba H o assaggiato il barattolo di zuppa Campbell immortalata da Andy Wahrol. Un angolo di mediterraneo che ha per vocazione - anche- di attrarre lo spirito nordico, dalle villeggiature inglesi nel ponente alle calate a Lerici di Shelley e Byron. Qui fu centrale il ruolo del distretto savonese, che vide ad Albisola concretizzarsi l'esperienza umana e professionale di Asger Jorn, figura di riferimento dell'avanguardia e padre del movimento situazionista. Dal 1954 il pittore sbarca ad Albisola; nel ricordo di Enrico Baj

"Il vichingo arrivò a Milano il 28 marzo 1954 a mezzogiorno... con armi e bagagli, con zaino, tenda da campo ed un violino. Il violino lo dimenticò in treno, per cui, accortosene, si dovette tornare all'Ufficio Oggetti Smarriti, ove fortunatamente fu ritrovato, il che lo dispose favorevolmente verso di me e l'Italia".

Danese di nascita, ventiduenne si trasferisce a Parigi .E' il 1936, frequenta l'atelier di Léger, da cui mutua l'esigenza di un coinvolgimento sociale delle arti ; è il momento delle grandi pitture murali, delle tematiche politiche (nel 1937 Picasso presenta Guernica all'Expo Internazionale delle Arti) in pittura, da contrapporre all'individualismo della “pittura da cavalletto”. Grazie a Léger, Jorn contribuisce a decorare il Padiglione dei tempi nuovi di Le Corbusier, dipingendo un disegno infantile ingigantito. Da Le Corbusier Jorn assorbe l'idea di un'architettura per i tempi nuovi, funzionale all'era della macchina e del nuovo capitalismo ; ne rifiuterà più tardi radicalmente l'impostazione, che vede nell' industrial design e nel funzionalismo il futuro della disciplina.



Jorn è invece interessato ad una esplorazione dell'interiorità umana che vada oltre la priorità dell'inconscio individuale prospettato dal surrealismo, in favore di una riscoperta del patrimonio dell'inconscio collettivo,del fantastico e dell'arcaico, da lui rivissuto nelle saghe popolari nordiche , negli animali fantastici, nelle figure mitologiche dell'arte scandinava (troll, fate,esseri sovrannaturali). Dall'esperienza del gruppo Host che fonda prima della guerra in Danimarca nascerà quella di CoBrA, dall'acronimo delle tre capitali dei membri fondatori Copenaghen, Bruxelles, Amsterdam , o l'Internazionale degli artisti sperimentali. La migliore realizzazione di CoBrA rimane la decorazione pittorica della casa di Bregnerod vicino Copenaghen, un'opera collettiva dove pittori professionisti e non , compresi i bambini figli dei membri del gruppo , dipingono le superfici della casa di campagna, in un clima di spontaneismo e libertà creativa assolute; l'architettura si fonde con l'arte in modo naturale, diventa creazione di un ambiente di vita e non più pratica specialistica; si realizza l'abbattimento della separazione dell'arte dalla vita quotidiana, vizio borghese per eccellenza.
La salute di Jorn va peggiorando. Dopo la permanenza in sanatorio in Svizzera finita nel '53 accoglie l'invito di Enrico Baj di soggiornare ad Albisola, che concilia la salubrità del posto con le esperienze ceramiche che lo interessano molto ; è ospitato prima da Lucio Fontana, poi passa l'estate accampato con la famiglia in un giardino di proprietà di Milena Milani; Dangelo e Sassu lo sistemano per l'inverno. In questo periodo Jorn fonda il MIBI o Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista in contrapposizione alla nuova Bauhaus di Max Bill, orientata in senso iperrazionalistico e pragmatico; incassa il sostegno del movimento per la Pittura nucleare di Baj e Dangelo, oltre quello degli ex-CoBrA. Nel '54 nasce l'Incontro internazionale di Ceramica di Albisola con la collaborazione di Tullio Mazzotti . Appel, Baj, Dangelo, Fontana, Scanavino, Matta, Corneille, e lo stesso Jorn decorano informalmente una serie di ceramiche poi esposte all'aperto. Il testo che accompagna l'incontro, Immagine e forma, diverrà una pietra miliare del pensiero dell'artista; in esso auspica un nuova sintesi fra pittura,architettura e scultura; l'avvento di un'”architettura irrazionale” che torni a difendere le ragioni della bellezza contro l'utilitarismo puro,ricordando che l'architettura è una tecnica “nettamente antiscientifica nella sua ispirazione, nei suoi mezzi, nel suo scopo”.



Tramite Baj che gli fornisce alcuni numeri della rivista Potlatch dell'Internazionale Lettrista, conosce l''avanguardia letteraria e poetica parigina, in cui ritrova temi e consonanza di pensiero. Sempre ad Albisola avviene l'incontro fondamentale con Pinot Gallizio e Piero Simondo. Nella figura di Gallizio trova motivi che lo affascinano da sempre: farmacista con una passione sciamanica per le erbe, amico di Beppe Fenoglio e interprete di un progressismo non ortodosso ma impegnato (è consigliere ad Alba come indipendente di sinistra), amante della cultura popolare e di quella degli zingari, archeologo e pittore autodidatta, incarna quella figura di amateur professionel ,il dilettante professionale che deve sostituirsi all'artista professionista. L'anno dopo, il 1955, Jorn, Gallizio e Simondo fondano ad Alba un Laboratorio sperimentale di supporto alle teorie del MIBI .L'anno successivo, il 1956, si tiene ad Alba il Primo Congresso Mondiale degli artisti liberi, con i contributi dell'architetto milanese Ettore Sottsass, di Costant, ex esponente di CoBrA; nell'intervento di Gil Wolman, esponente lettrista, compare per la prima volta il termine urbanesimo unitario, sintesi di arte e tecnica al servizio di un nuovo stile di vita di cui “si può dire genericamente che esso sarà determinato principalmente al contrario dello stile di vita attuale, dalla libertà e dall'agio”. Il nuovo stile di vita, sostanzialmente svincolato dai bisogni della produzione in un mondo in cui le macchine svolgeranno i compiti degli esseri umani da sole, sarà nomadico, fluente, alla ricerca di sempre nuove passioni e situazioni creative all'interno di nuove città dove praticare una psicogeografia, una ricerca dell'anima mutevole degli ambienti, una deriva suggerita dallo stato d'animo del soggetto . Si dovranno a Guy Debord le guide psicogeografiche di Parigi, mentre Costant si dedica a comporre quella di Alba.
Sarà Debord, nel corso della Conferenza di Cosio d'Arroscia del 1957 , a dare con il suo Rapporto sulla costruzione delle situazioni il nome al nuovo gruppo internazionale formatosi da tante esperienze e personalità, l'Internazionale Situazionista ; con questo movimento si arriva ad una critica globale della società contemporanea, al tempo libero colonizzato dal consumismo e dalla pervasività dello spettacolo come occupazione fuorviante e passiva del tempo non occupato dal lavoro. Le situazioni , “momenti di vita concretamente e deliberatamente costruiti mediante l'organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di avvenimenti” sono l'opposto dello “spettacolo”. Gli spettatori-consumatori devono essere riportati in condizioni di vitalità :” Si sono interpretate abbastanza le passioni: si tratta ora di trovarne delle altre”.



Sempre nel 1957 Jorn acquista una casa diroccata sulla collina albisolese dei Bruciati, un insieme di rovine vetuste e di roveti (si scoprirà poi aver dato i natali a papa Giulio II) e la trasforma nell'insieme di atelier casa e giardino , forse l'unica vera e propria realizzazione concreta di quella civiltà dell'abitare che sognava. Servendosi dell'aiuto dell'ex alpino e reduce di Russia Umberto Gambetta , che si arrangiava da muratore, Jorn ristruttura l'edificio secondo i principi dell'architettura accidentale di Feuerstein, lasciando a Gambetta la scelta del posizionamento di ceramiche e sculture; le piastrelle dei vialetti sono ricavate dal materiale di scarto gettato nel fiume dalle manifatture vicine, gli isolatori di scarto utilizzati come colonnine di supporto. La collaborazione tra l'homo faber Gambetta e l'artista porta un sorprendente risultato soprattutto nel giardino, un'insieme di flora mediterranea e forme piacevolmente labirintiche , di vialetti che seguono i corrugamenti del terreno,abitate da figure animali reinventate e personaggi mitologici dell'immaginario nordico , in piacevole spaesante disordine. A confronto delle non realizzate opere del situazionista Costant (New Babylon, la città sospesa sul terreno senza vincoli col suolo, priva di centro e di sobborghi ma ricca di quadranti di diversi colori) ,della Tenda per gli Zingari progettata per Galizio da Costant ad Alba che non vide la luce se non per una targhetta che fu posta sul terreno, le jardin d'Albisola rimane un'opera vissuta e reale. Lasciata da Jorn alla città di Albisola per realizzarvi un laboratorio per artisti, chiusa per molti anni, è riaperta dal 2004 ad opera di un'associazione culturale che vi realizza eventi; ospita, cosa che a Jorn farebbe immenso piacere, una prestigiosa raccolta di opere di arte africana (maschere ,reliquiari, strumenti rituali) e di arte moderna tra cui Baj, Carrà, Fontana, Matta , Picasso, Lam, appartenuta al collezionista milanese Alessandro Passarè ed oggi custodita dalla Fondazione omonima, fusione delle tendenze archetipe dell'arte primitiva e delle ricerche delle avanguardie moderne . *


Gabriella Freccero, laureata in Storia ad indirizzo antico, da sempre attivamente impegnata nel movimento femminista, vive e lavora a Savona. Collabora con numerose riviste fra cui Donne e conoscenza storica, Senecio, Dominae, Leggere donna, La Civetta.


* Attualmente Casa Jorn è chiusa, per permettere lo svolgimento di lavori di ristrutturazione.(NdR)

(Le immagini rappresentano scorci di Casa Jorn)

mercoledì 21 aprile 2010

La moralità della Resistenza

 

In questa Italia attraversata da pulsioni razziste e xenofobe che sembra aver dimenticato la sua storia, parlare della Resistenza e celebrare il 25 Aprile non è un omaggio rituale, ma una ferma dichiarazione di impegno. 

Giorgio Amico 

La moralità della Resistenza 

Il 23 aprile le unità partigiane della 2^ Zona Liguria ed in particolare la Divisione Garibaldi "Gin Bevilacqua" si attestano alla periferia di Savona. Alle ore 15 del giorno 24 dal comando di zona, sito in via Crosa lunga, parte l'ordine di attaccare con ogni mezzo a disposizione tedeschi e fascisti. Il 25 aprile la città è liberata dopo duri combattimenti. Non cessano però le morti, da una parte e dall’altra. Qualcuno anni fa ha sollevato il problema delle uccisioni «al di fuori della logica dello scontro armato» con argomentazioni largamente riprese poi in modo totalmente acritico da Giampaolo Pansa nel suo ultimo lavoro Il sangue dei vinti. (1) Non condividiamo il taglio di queste opere che ci paiono storicamente molto approssimative, ma non comprendiamo neppure il silenzio imbararazzato o i distinguo incerti di chi si è affannato a dichiarare che tutto questo con la Resistenza non c’entra e che al massimo si è trattato di deviazioni. Le cose non stanno proprio così: l’insurrezione non è stata per nulla una festa, ma giornate di aspra battaglia per le strade, di feroce caccia alle spie e ai cecchini che ancora due giorni dopo sparavano dai tetti, di vendette a lungo covate, di rabbia popolare contro chi incarnava fisicamente venti mesi di paura e di oppressione. Nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile a Savona come in tutto il Nord si continua a morire. È il destino di tutte le guerre civili. La resa dei conti inevitabile e sanguinosa, alimentata dalla rabbia popolare, dall’ebbrezza della vittoria, dal ricordo delle sofferenze patite, che si trasforma da atto di giustizia in vendetta sui vinti. L’attribuzione di tali azioni ai soli comunisti, proposta nell’immediato dopoguerra dai neofascisti e ripresa oggi da un revisionismo senza più pudori, non ha in realtà alcuna consistenza storica perché, come riconosce uno studioso non schierato, “le esecuzioni sono state fatte da tutte le componenti del movimento resistenziale”. (2)Certo a Savona, dove largamente predominano i partigiani comunisti, si fucila molto. La provincia con 311 morti è ai primi posti della lugubre statistica stilata nel novembre 1946 dal ministero dell’ Interno. Ma prima di Savona vengono città come Treviso (630), Cuneo (426), Udine (391) dove il movimento partigiano è egemonizzato dai cattolici, dagli azionisti, addirittura dai monarchici. (3) Volendo si può anche tentare una più precisa definizione dell’accaduto che vada al di là delle banalità o dei luoghi comuni sulla ferocia dei comunisti. Molto va ascritto alla confusione del momento, al fatto che quando il regime nazifascista collassa un gran numero di persone raggiunge il movimento partigiano. Elementi che si sono arruolati nelle formazioni all’ultimo momento, che non hanno appreso la dura disciplina della montagna o della lotta clandestina nelle città. Sono proprio questi neofiti della lotta armata i più spietati nella repressione dei fascisti. Molto deriva dall’accanita resistenza di fascisti irriducibili che non cedono le armi e continuano disperatamente a combattere. Dal verbale della seduta del 3 maggio del CLN ligure risulta come nell’entroterra ci siano ancora consistenti sacche di resistenza da parte di fascisti e tedeschi, concentrate soprattutto nel Sassellese , nella zona del Turchino, nella Val d’Aveto e nel Chiavarese, tanto consistenti da dover richiedere col consenso delle autorità militari alleate l’invio in queste zone di distaccamenti partigiani (1600 uomini) per condurre operazioni di rastrellamento e disarmo. (4) Una pagina di certo non esaltante, ma che comunque è parte della Resistenza, così come parte integrante della Resistenza sono gli scioperi «selvaggi» non sempre patriottici degli operai. Pagine di cui per troppo tempo non si è parlato da parte chi voleva far dimenticare la natura rivoluzionaria di quegli eventi e trasformare la storia di una guerra civile lunga e feroce, che è stata al contempo guerra di liberazione nazionale, ma anche aspra guerra di classe, nel mito fondante di una repubblica per molti aspetti in diretta continuità con quel passato che pure si dichiarava radicalmente e per sempre cancellato. Pagine di cui oggi si parla troppo e male da parte chi vorrebbe riscrivere la storia di quei venti mesi come una «stagione del sangue», combattuta da minoranze ideologizzate sulla pelle della grande maggioranza del popolo italiano. Proprio per questo in un momento di così grande confusione come l’attuale, dove tutto pare rimesso in discussione e nulla pare più sicuro, di una cosa sola dobbiamo essere serenamente certi: che nulla va mai veramente perduto. In questo sta la lezione di moralità che la Resistenza ancora ci offre, come ha scritto Italo Calvino, nel passo forse più bello di quel libro straordinario che è Il sentiero dei nidi di ragno dove con con estremo rigore è definitivamente chiarita la diversità fra «noi» e «loro», fra i partigiani e le brigate e nere. Diversità, sia chiaro, che non consiste nell’essere più o meno compiutamente uomini come pensava Vittorini, chè l’umanità di fondo di entrambe le parti è comune nelle atrocità come negli eroismi. No. Calvino rimanda ad una alterità di fondo, che trascende il singolo, per investire il piano grande e terribile della storia. Se la morte rende tutti uguali, la differenza allora consiste nel perché si muore, ma questo rimanda immediatamente al senso profondo che attribuiamo alla vita degli uomini. Scrive Calvino: "[…] Quindi , lo spirito dei nostri… e quello della brigata nera… la stessa cosa? - La stessa cosa, intendi cosa voglio dire, la stessa cosa… - Kim s’è fermato e indica con un dito come se tenesse il segno leggendo; - la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. Quel peso di male che grava sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finche dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni […] Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utlizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l‘uomo contro l’uomo". (5) 

Note:

1) Cfr. M. NUMA, La stagione del sangue, Edizioni La Ricerca, Savona 1994 e G. PANSA, Il sangue dei vinti, Sperling & Kupfer, Milano 2003. 
2) Cfr. G. Oliva, la resa dei conti, CDE, Milano 1999, p. 123. 
3) Ivi, p. 126. 
4) Cfr. P. RUGAFIORI (a cura), Resistenza e ricostruzione in Liguria, feltrinelli, Milano 1981, pp. 291-292. 
5) Cfr. I. CALVINO, Il sentiero dei nidi di ragno, Garzanti, Milano 1987, pp. 130-131.

(Tratto da: Giorgio Amico, Operai e comunisti, Milano 2004)

martedì 20 aprile 2010

La cultura, una poesia inedita di Guido Seborga



Tra poco sarà di nuovo il 25 Aprile in un Italia che pare scivolare all'indietro in un passato che speravamo definitivamente cancellato. Alla decadenza della politica si unisce il precipitare della crisi economica. Emarginazione, precariato, disoccupazione di masse crescenti di lavoratori, giovani e no, italiani e immigrati, si saldano con la più generale degradazione dei rapporti umani diventati spettacolo e merce. Occorre che il vento si alzi di nuovo e che ricominci a fischiare. E' questo il nostro augurio e lo facciamo con i versi inediti che Guido Seborga, già valoroso partigiano, poi scrittore affermato, scrisse in un analogo momento di crisi. Parole come pietre, la poesia diventata il grido degli innocenti, degli invisibili.


Guido Seborga

La cultura



Quando morivamo sulle montagne
E il nostro sangue
Si mescolava al sangue
Del compagno ucciso
Chiara per amore
Dal sangue del bracciante
Dal sangue dell'operaio
Nasceva la cultura.

Ora continuate in nome di leggi
Comode ai ricchi
Con tasse ai poveri
E uccidete l'emigrante senza pane.

Sempre ci ritroverete di fronte
Per ammonire e cantare a cuore aperto
La pace la fratellanza degli uomini.

Nati dal sacrificio di sangue
Dal sangue versato dal partigiano
Dall'operaio dal bracciante
Possediamo una voce sonora
D'acciaio duro che taglia.


(1949)


”originale conservato in Fondazione Basso, Fondo Basso, Serie 25"

Un grazie sincero a Laura Hess Seborga, che ci ha fornito questo testo, per la collaborazione preziosa che fin dal suo nascere non ha mai fatto mancare a Vento largo.

lunedì 19 aprile 2010

C'è da rimettere insieme la banda (I gatti persiani)



Sui giornali si parla tanto dell'atomica iraniana e del regime degli ayatollah, ma l'Iran resta per noi un pianeta sconosciuto. Chi sa veramente cosa pensano i giovani iraniani? Un film, arrivato da poco in Italia, ci offre uno spaccato di quella realtà che ci aiuta a comprendere cosa accade a Teheran più di mille articoli di giornale.

Armida Lavagna

C'é da rimettere insieme la banda (I gatti persiani)



C'è da rimettere insieme la banda.
Se non fosse che questa è una tragedia, sembrerebbe una nuova e aggiornata versione dei Blues Brothers (molto più fedele dell’indecoroso sequel di qualche anno fa).
Dove la musica è la lente attraverso la quale osservare il mondo che la circonda e la comprime o la trascura. Dove la musica è quello che resta quando non resta altro. E serve ad esprimere ogni stato d’animo, la disperazione più cupa, l’elegia, la speranza, l’amore, la rabbia verso un Cielo che era goccia d’acqua che univa Dio e uomini ora così lontani dal cielo e tra loro. In una Teheran dove ogni cosa che guardi ti colpirà, te gatto persiano che ci vivi e ci sprofondi, te uomo occidentale che credi di conoscerla e la scopri diversa, in un’altalena vertiginosa che ora l’avvicina ora l’allontana dal nostro mondo.
Rap, metal, indy rock. E grattacieli, strade intasate, suburbi degradati, vetrine, cantieri. Ritmi antichi, percussioni, voci modulate. E veli sulle donne, vicoli e tetti, campagne dove la musica si balla, in un paese dove qualcuno si sente in diritto di concederti di ascoltare canzoni ma vietandoti di ballarle, come se la musica si potesse ascoltare senza muoversi, senza che dietro il battito dei tamburi vadano i passi e le anime che la amano.
La contaminazione dei generi e delle culture nella musica si accompagna alla contaminazione visiva tra Oriente e Occidente, nella Persia che fu porta all’Est ed oggi è una creatura strana, di contraddizioni lancinanti, dove una ragazza può cantare solo se in coro con altre, dove un ragazzino che vuol giocare ai soldatini gioca con persone vere denunciandole alla polizia per immoralità, e dove però un giovane con la massima naturalezza stira e butta un’occhio alla padella sul fuoco come in qualunque delle nostre case.



Sono quei giovani la speranza, è quel cantante che dovrebbe aiutare i protagonisti a munirsi di documenti per volare via dall’Iran ma mentre lo fa cerca di trattenerli mostrando a loro e a noi che c’è chi la musica continua a suonarla nella sua terra, nella sua città, senza fuggire, sfidando il pericolo. Che pure pericolo non dovrebbe esserci, se si suona una musica che non lede la moralità né parla di politica, come si affanna a ripetere a chi deve concedere l’Autorizzazione.
Ma anche una canzone – o un film – che non ledono la morale e non parlano di politica possono essere opera di denuncia. Di una denuncia che ci strappa le lacrime, perché vietare la musica ai giovani è come voler togliere loro il respiro, il cuore, i sogni. La vita.
I ragazzi che suonano la musica la sognano (sognano solo quella: una stanza insonorizzata con una batteria, un concerto davanti a duemila persone...) e sognano un’improbabile fuga in paesi dove la musica possa non essere clandestina, ma intanto ancora continuano a suonarla, nei sottoscala e negli allevamenti, in un cantiere o in una casa, e mentre organizzano la partenza organizzano un concerto, come nei Blues Brothers appunto, dove a sala piena e pubblico caldo si aspettano i due cantanti che sembrano non arrivare mai e poi arrivano. Ma quella, appunto, è un’altra storia.



Armida Lavagna, savonese, insegna Lettere in una Scuola Secondaria. Si occupa per Vento largo di letteratura e di cinema.

sabato 17 aprile 2010

Marino Magliani, Vite di periferia



Ci sono luoghi quasi sospesi, reali eppure simili a non luoghi, a incubi notturni. Le periferie di Vincenzo Pardini, realtà ambigue e inquietanti, , nè città nè campagna, appartengono a questa categoria.

Marino Magliani

Vite di periferia

Quando ancora non avevo letto nulla di Vincenzo Pardini e ciò che sapevo di lui era soltanto cosa si diceva, trovavo inquietante che un autore fosse ritenuto un maestro assoluto del racconto. Cosa significava esserlo? Quanti scrittori in Italia sono autori di splendidi racconti e raccolte, mi dicevo. Poi l'ho letto e ho capito parecchie cose. Una di queste è che Vincenzo Pardini non è un maestro del racconto italiano, poiché un maestro dovrebbe dare un esempio - il suo narrare in questo caso-, diventare una scuola. Ma questo è impossibile, i racconti di Pardini sono pezzi unici, non si smontano. E il suo stile, il suo taglio, le sue inarcature e il suo passo sono inimitabili.
Anche stavolta, per non smentirsi, con Banda randagia Pardini ci dà prova della sua unicità. Forse ci concede meno ruralitá, penso ai prati e il fieno di La terza Scimmia (Quiritta 2001) e i tori paralizzati e le aquile di Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo (Transeuropa 2010), e ci regala di più le pitture nere della notte.
Parliamone con l'autore.

Pardini, forse solo nel coltellino, il racconto più breve di questa raccolta, ritroviamo gli oggetti della ruralitá pardiniana. Per il resto il lettore si ritrova gettato in una notte che non appartiene più al campo, ma alla periferia della città, quella che si è avvicinata ai paesi, con la sua maledizione, il crimine, e la durezza e il gelore delle rivoltelle che bruciano nelle mani.

«Lo scrittore ha il dovere di raccontare la verità. Uno scrittore non costruisce maschere, ma le distrugge. Dai boschi e dai monti, nei quali ritornerò anche per ossigenarmi, mi sono trasferito nella periferia e in città: luoghi che frequento da anni, quasi 35, per il mio mestiere di guardia giurata, preposta ai servizi notturni. In questi anni ho assistito al capovolgimento antropologico della società; all'uomo del passato se n'è sostituito uno nuovo e inaspettato: quello criminale. Una criminalità che non è solo di ladri e delinquenti abituali, professionali o per tendenza, ma anche nostra, di tutti. La criminalità è un virus, una tentazione che contamina. Il fatto che i cittadini debbano stare vigili di notte, per evitare le visite dei ladri, e il pensiero di doverci difendere se questi ci aggrediscono ci induce a diffidare del prossimo, a essere pronti a reagire. Uno stato di guerra, di all'erta, dove può accadere di tutto».

Eldo, l'assassino seriale di Banda randagia, che dà il titolo alla raccolta, è diventato tale perché un giorno ha trovato una rivoltella o forse perché aspettava soltanto l'occasione per esserlo?

«Eldo è un giovane dei nostri tempi. Un ragazzo frustrato, che non riesce a realizzarsi. Penso a quelli che lanciavano sassi dai ponti dell'autostrada o che aggrediscono gli extracomunitari. Debbono dimostrare a se stessi e al prossimo che esistono. Lui lo fa in maniera sua: con una pistola. Ma avrebbe potuto farlo anche con un coltello, o un sasso. Il criminale ha dentro impulsi irrefrenabili, una libido di morte di cui deve liberarsi. Alcuni lo fanno uccidendo donne. Eldo Culmine, il protagonista del racconto, è killer seriale che uccide per uccidere. Mimetizzato nelle istituzioni, come frequentatore di un poligono, esprime il malessere o i malesseri di questa nostra società e del suo doppio. La banda di cani randagi che lo sbrana, credo lo faccia perché ne ha fiutato la pericolosità. Gli animali, spesso, sono veggenti, per questo dovevano esserci anche in queste pagine. E non solo cani, ma anche cinghiali. Vittime sacrificali di una caccia che ci riporta all'era della pietra».


Scheda del libro

Donata è una donna misteriosa dalla vita apparentemente irreprensibile. Eppure in casa sua nasconde un grande serpente che un cinese le ha venduto come "animale d'affezione e compagnia". Donata coltiva nel suo privato una torbida sessualità che la porta a relazioni ambigue, con uomini e con donne, finché il giro delle sue conoscenze inizia a essere scosso da morti accidentali... tutte molto sospette. Inizia con "La moglie del serpente" questa raccolta di storie criminali firmata da Vincenzo Pardini. In "Ferrovia parallela" il protagonista è in servizio sui treni e rimane prigioniero di un vagone, da cui non scenderà forse più, per un viaggio mozzafiato nelle viscere della terra. L'avventura non si conclude, resta aperta nel mezzo di una campagna innevata, forse la Siberia. La novella "Banda randagia" è la vicenda di un operaio che rinviene per caso in una cartiera una pistola. L'apparente routine di tutti i giorni verrà quindi sconvolta e il tranquillo operaio si trasformerà in un serial killer sanguinario, una spirale che si fermerà quando irromperà una banda di cani randagi. Sin dal primo racconto di questo libro fuori dal comune, si entra nel mondo di Vincenzo Pardini. Emozioni, passione, sangue, sensualità, misfatto e giustizia.

Vincenzo Pardini
Banda randagia
Fandango Libri 2010
15 euro

Marino Magliani (Dolcedo, Imperia, 1960), scrittore e traduttore, ha soggiornato a lungo in Spagna e in America Latina prima di stabilirsi in Olanda, dove attualmente vive e lavora.
Ha pubblicato: L'estate dopo Marengo (Philobiblon 2003), Quattro giorni per non morire (Sironi 2006), Il collezionista di tempo (Sironi 2007), Quella notte a Dolcedo (Longanesi 2008), La tana degli alberibelli (Longanesi 2009) e, con Vincenzo Pardini, Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo (Transeuropa 2010). Con La tana degli alberibelli ha vinto la prima edizione del Premio Frontiere-Biamonti "Pagine di Liguria".

venerdì 16 aprile 2010

Vento largo sta con Emergency





Sabato 17 aprile dalle 17 alle 19:

“IO STO CON EMERGENCY”

Sabato pomeriggio i volontari del Gruppo Emergency Savona hanno organizzato un presidio in Corso Italia davanti alla libreria Ubik. Sarà possibile, per chi ancora non lo avesse fatto, firmare l’appello.
Vi aspettiamo!

LIBERATE I 3 VOLONTARI !!!





GINO STRADA: “non taceremo mai di fronte agli orrori della guerra”

“Si introducono - direttamente o con la complicità di qualcuno che vi lavora - alcune armi in un ospedale, poi si dà il via all'operazione... Truppe afgane e inglesi circondano il Centro chirurgico di Emergency a Lashkargah, poi vi entrano mitragliatori in pugno e si recano dove sanno di trovare le armi. A quanto ci risulta, nessun altro luogo viene perquisito. Si va diritti in un magazzino, non c'è neppure bisogno di controllare le centinaia di scatole sugli scaffali, le due con dentro le armi sono già pronte - ma che sorpresa! - sul pavimento in mezzo al locale. Una telecamera e il gioco è fatto.
Si arrestano tre italiani - un chirurgo, un infermiere e un logista, gli unici internazionali presenti in quel momento in ospedale - e sei afgani e li si sbatte nelle celle dei Servizi di Sicurezza, le cui violazioni dei diritti umani sono già state ben documentate da Amnesty International e Human Rights Watch.
Perché si aggredisce, perché si dichiara guerra a un ospedale? Emergency e il suo ospedale sono accusati di curare anche i talebani, il nemico. Ma non hanno per anni sbraitato, i politici di ogni colore, che l'Italia è in Afghanistan per una missione di pace? Si possono avere nemici in missione di pace?
In ogni caso l'accusa è vera. Anzi, noi tutti di Emergency rendiamo piena confessione. Una confessione vera, questa, non come la "confessione choc" del personale di Emergency che è finita nei titoli del giornalismo nostrano.
Noi curiamo anche i talebani. Certo, e nel farlo teniamo fede ai principi etici della professione medica, e rispettiamo i trattati e le convenzioni internazionali in materia di assistenza ai feriti. Li curiamo, innanzitutto, per la nostra coscienza morale di esseri umani che si rifiutano di uccidere o di lasciar morire altri esseri umani. Curiamo i talebani come abbiamo curato e curiamo i mujaheddin, i poliziotti e i soldati afgani, gli sciiti e i sunniti, i bianchi e i neri, i maschi e le femmine. Curiamo soprattutto i civili afgani, che sono la grande maggioranza delle vittime di quella guerra.Curiamo chi ha bisogno, e crediamo che chi ha bisogno abbia il diritto ad essere curato.
No, noi ci rifiutiamo di stare zitti e di nascondere quelle immagini. Da tempo la Nato sta compiendo quella che definisce "la più importante campagna militare da decenni": la prima vittima è stata l'informazione. Sono rarissimi i giornalisti che stanno informando i cittadini del mondo su che cosa succede nella regione di Helmand. I giornalisti veri sono scomodi, come l'ospedale di Emergency, che è stato a lungo l'unico "testimone" occidentale a poter vedere "gli orrori della guerra". Non staremo zitti.



Emergency ha una idea alta della politica, la pensa come il tentativo di trovare un modo di stare insieme, di essere comunità. Di trovare un modo per convivere, pur restando tutti diversi, evitando di ucciderci a vicenda. Emergency è dentro questo tentativo. Noi crediamo che l'uso della violenza generi di per sé altra violenza, crediamo che solo cervelli gravemente insufficienti possano amare, desiderare, inneggiare alla guerra. Non crediamo alla guerra come strumento, è orribile, e mostruosamente stupido il pensare che possa funzionare. Ricordiamo "la guerra per far finire tutte le guerre" del presidente americano Wilson? Era il 1916. E come si può pensare di far finire le guerre se si continua a farle? L'ultima guerra potrà essere, semmai, una già conclusa, non una ancora in corso.
La risposta di Emergency è semplice. Abbiamo imparato da Albert Einstein che la guerra non si può abbellire, renderla meno brutale: "La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire". Nella nostra idea di politica, e nella nostra coscienza di cittadini, non c'è spazio per la guerra. La abbiamo esclusa dal nostro orizzonte mentale. Ripudiamo la guerra e ne vorremmo la abolizione, come fu abolita la schiavitù.
Utopia? No, siamo convinti che la abolizione della guerra sia un progetto politico da realizzare, e con grande urgenza. Per questo non possiamo tacere di fronte alla guerra, a qualsiasi guerra. Di proporre quel progetto, siamo colpevoli.
Ecco, vi abbiamo fornito le risposte. E adesso? Un pistoiese definì il lavoro di Emergency "ramoscello d'ulivo in bocca e peperoncino nel culo". Adesso è ora che chi "di dovere" lavori in quel modo, e tiri fuori "i nostri ragazzi". Può farlo, bene e in fretta. Glielo ricorderemo sabato pomeriggio, dalle due e mezza, in piazza Navona a Roma…”


Libreria



Corso Italia, 116r Savona
019/8386659 ste.milano@alice.it

"Un altro ponte" alla Polveriera del Priamar




"UN ALTRO PONTE"

CONTINUA ALLA "POLVERIERA"
NELLA FORTEZZA DEL PRIAMAR,
FINO AL 23 APRILE 2010
CON ORARIO 16-18,TUTTI I GIORNI.


SABATO 17 APRILE 2010 -ORE 17,00
PRESENTAZIONE DEL PROGETTO"CLINICA WEIMAR"


DOMENICA 18 APRILE 2010-ORE 16,30
PRESENTAZIONE DEL PROGETTO "MUSICA E PAROLE"


PRESENTI IN POLVERIERA DAL 3 AL 23 APRILE GLI ARTISTI SICILIANI E GLI ARTISTI DI QUILIANOARTE.


Ingresso libero.

giovedì 15 aprile 2010

XXIV Collettiva d'Arte Ceramica


mercoledì 14 aprile 2010

Dolceacqua: presentazione di "Delta in rivolta"



Presentazione (a cura dell'autore) del libro
“Delta in rivolta. Pirateria e guerriglia contro le multinazionali del petrolio” Edizioni Porfido.

La Nigeria affondata dallo sfruttamento selvaggio di compagnie petrolifere quali Shell, Agip e Chevron, tra devastazione ambientale e resistenze alle politiche neocoloniali.
Da decenni, in Nigeria, la popolazione si batte contro lo sfruttamento selvaggio della propria terra da parte delle multinazionali del petrolio e del gas (tra le quali spicca la nostrana ENI-AGIP).
Un silenzio mediatico ai limiti della censura circonda l’insurrezione del Delta del Niger, per coprire le responsabilità dell’Occidente e cementare complicità e rassegnazione.

martedì 13 aprile 2010

Un tocco di zenzero... può cambiare la vita?



Nella città di Istanbul, magica e profumata, alla fine degli anni '50, la mente, il cuore e il gusto del piccolo Fanis vengono educati da suo nonno Vassilis, proprietario di un negozio di spezie. Un film in cui il cibo diventa metafora della vita e l'amore un ingrediente amaro ma indispensabile come lo zenzero.

Armida Lavagna

Un tocco di zenzero... può cambiare la vita?


Dall'infinitamente piccolo all'infinitamente grande. Dallo zucchero che rende più invitante a un neonato il seno della madre, con un primo piano tutto sul morbido primo sapore che ci offre la vita, alla polvere di stelle disseminata nell'universo, nell'armonioso movimento degli astri e dei destini che si intrecciano e si disfano.

Il film, nella sua prima parte, è un vero tripudio di forme colori e profumi che si annidano nelle cartoline illustrate come nei nostri occhi, davanti ai quali si alternano primi piani del regno della magia e della diplomazia, dell'antro delle spezie, e squarci di una città reale e immaginaria, quadri in movimento nei ricordi del protagonista, che ha perduto la città magica dal doppio nome e dalla indefinibile identità, Costantinopoli/Istanbul, e la ripercorre in una dimensione onirica affascinante, a tratti surreale, nella quale la accarezza con quella speciale forma di nostalgia che impone l'allontanamento forzato.



Chi parte non può tornare, chi resta non può partire, anche se vorrebbe. Anche se si parte e si resta legati da promesse impossibili da mantenere, alimentate solo dal ricordo di un piccolo movimento, di un voltarsi indietro che però costringe le persone - un po' come i corpi celesti... - a proseguire nella rotazione, e ad andare avanti sulla propria strada, o lungo un binario sorvegliato da carri armati. Chi parte non ha più radici, è greco per i turchi, turco per i greci, è destinato alla cifra del movimento, a voltarsi verso tutti i punti cardinali per indicare una strada che sa pensare solo immergendola in tutto il proprio viaggio, inserendola come nota in una musica di cui il pensiero della patria lasciata o perduta o sognata è il bordone.

Resta il piacevole inganno di un'arte che è memoria e patria e linguaggio, quando anche la lingua è negata o messa in discussione da altri. Un’arte sapiente che a volte si fa mania, a volte inganna se stessa, quando si rende necessario aggiungere una spezia impensata, quella messa volutamente a rendere stonato un piatto o quella aggiunta in segreto a renderlo unico e inimitabile. Il cibo si fa materia dei sogni, dei ricordi, persino dell’illusione fugace di un nuovo inizio, che riannodi un presente impolverato ad un passato scrigno di un amore infantile e carico di turbamenti, di una passione in erba abbandonata tra le polveri profumate e colorate di una soffitta. Ma quando in tavola arriva il dessert, il pranzo è inesorabilmente finito: le spezie sono lo spazio infinito, e lasciano spazio al dopo, alla fantasia, al sogno; il sale è la Terra e la vita che in essa cresce e muta e ride e soffre; della vita e dei sogni, invece, lo zucchero segna l’inizio e la fine.


Armida Lavagna, savonese, insegna Lettere in una Scuola Secondaria. Si occupa per Vento largo di letteratura e di cinema.



lunedì 12 aprile 2010

Se è mezzanotte nel secolo

 

Giornalista e saggista, storico e romanziere, Victor Serge rappresenta molto più di Trotsky (che non riuscì mai a fare fino in fondo i conti con l'esperienza bolscevica)la coscienza critica della rivoluzione russa. Emarginato nel partito e guardato con sospetto, Serge sarà alla fine degli anni Venti una delle prime vittime eccellenti del regime staliniano ormai in via di consolidamento. 

Giorgio Amico 

Se è mezzanotte nel secolo 

Nel 1927 la situazione precipita. Il fallimento della rivoluzione cinese a causa della politica opportunista di Stalin e l’acutizzarsi della crisi della NEP determinano un brusco acutizzarsi dello scontro nel partito. A dicembre il XV Congresso delibera l’espulsione degli oppositori, all’inizio del 1928 iniziano gli arresti di massa dei trotskisti che vengono deportati in appositi campi di concentramento, i cosiddetti "isolatori". Lo stesso Trotsky è espulso dal partito e deportato a Alma Ata nel cuore dell’Asia Centrale. Victor Serge, che non ha mai cessato di battersi scrivendo tra l’altro un acutissimo pamphlet su Le lotte di classe nella rivoluzione cinese in cui denuncia le gravissime responsabilità della direzione staliniana nel soffocamento dei moti operai di Canton e Shanghai, è arrestato in marzo. L’arresto fa scalpore, il suo è un nome troppo conosciuto. A Parigi molti intellettuali protestano e la cosa finisce sui giornali. Allarmato, il regime è costretto a liberarlo dopo un paio di mesi, accontentandosi di un suo impegno a non svolgere per il futuro "attività antisovietica".
Isolato, circondato da spie e provocatori, totalmente disilluso sulle possibilità reali dell’Opposizione di sinistra di svolgere un’efficace azione politica dalla clandestinità, Serge si impegna in una resistenza solitaria e tenace, cercando di non farsi abbattere dalle avversità, dalla miseria, dalla quotidiana lotta per la sopravvivenza sua e dei suoi familiari, essendogli come per gli altri oppositori preclusa ogni possibilità di impiego regolare. Ma più di tutto pesa l’incapacità di fare i conti con la realtà, di tirare un bilancio definitivo della tragica parabola della rivoluzione e del partito, un coraggio che farà difetto anche a un combattente come Trotsky che dall’isolamento di Alma Ata continua a mostrarsi fiducioso nelle possibilità di un recupero del partito e dell’internazionale:
"Nessuno consentiva a vedere il male così grande come era. Che la controrivoluzione burocratica fosse giunta al potere e che un nuovo Stato dispotico stesse uscendo dalle nostre mani per schiacciarci, riducendo il paese al silenzio assoluto, nessuno, nessuno tra noi voleva ammetterlo. Dal fondo del suo esilio di Alma Ata, Trotsky sosteneva che questo regime rimaneva il nostro, proletario, socialista, benché malato; il partito che ci scomunicava, ci imprigionava, cominciava ad assassinarci, restava il nostro e continuavamo a dovergli tutto; non bisognava vivere che per lui, non potendosi servire la rivoluzione che per mezzo suo. Eravamo vinti dal patriottismo di partito; questo suscitava la nostra ribellione e ci schierava contro noi stessi". [13]
Escluso dal partito, impedito nel suo lavoro di giornalista militante, strettamente sorvegliato dalla polizia politica, a partire dal 1928 Serge si dedica assiduamente alla letteratura a cui aveva rinunciato nel 1919 in quanto "cosa ben secondaria in una simile epoca". Ma ora le cose sono cambiate. La rivoluzione si è spenta a poco a poco, i margini di azione politica sono andati progressivamente riducendosi fino a scomparire. "Solo quando sono stato costretto a un’assoluta passività esterna", scriverà all’amico Marcel Martinet nel settembre del 1930, "sono tornato all’espressione letteraria, che ora comincia ad appassionarmi… Sempre di più penso che bisogna ricominciare tutto dalla base, quindi, sotto un certo profilo, dalla formazione dei caratteri. Da questo punto di vista, dei libri sinceri e veritieri possono essere utili". [14]
Serge vive dunque la creazione letteraria non come fuga da un presente ingrato, ma come diretta prosecuzione con altri mezzi e in un contesto radicalmente mutato di un impegno "improntato a rigorosi principi etici e politici, in primo luogo alla ricerca e alla difesa della verità, irriducibile a qualsivoglia ragione di Stato o di partito". [15] Vicino anche in questo campo alle posizioni di Trotsky, espresse nel 1924 in Letteratura e rivoluzione, egli impronta l’intera sua produzione al principio per cui "la letteratura, se vuole compiere nella nostra epoca tutta la sua missione, non può chiudere gli occhi sui problemi interni della rivoluzione". [16] Il romanzo, dunque, come strumento pedagogico, come forma privilegiata di conservazione di una memoria storica al di fuori della quale non esiste possibilità di riscatto. E’ in quest’ottica che Serge, che pure proprio in questo periodo sta portando a termine una delle sue opere più significative, quel L’anno I della Rivoluzione russa destinato a diventare con I dieci giorni… di John Reed e La storia della rivoluzione di Trotsky un classico della storiografia militante, abbandona di fatto la ricerca storica per la narrativa: "Il lavoro storico non mi soddisfaceva interamente…. non permette di mostrare sufficientemente gli uomini vivi, di smontare il loro meccanismo interno, di penetrare nella loro anima. Una certa luce sulla storia non può essere gettata, ne sono persuaso, altro che dalla creazione letteraria libera e disinteressata… Io concepivo…lo scritto… come un mezzo di esprimere per gli uomini ciò che i più vivono senza sapere esprimere, come un mezzo di comunione, come una testimonianza sulla vasta vita che fugge attraverso di noi e di cui dobbiamo tentare di fissar gli aspetti essenziali per coloro che verranno dopo di noi." [17]
Vedono così la luce uno dopo l’altro i romanzi del cosiddetto "ciclo della rivoluzione", tentativo di narrare attraverso le vicende di uomini e luoghi l’intero ciclo di lotte di classe che va dall’Affare Bonnot all’Ottobre, dalla dolente descrizione del mondo carcerario e delle relazioni fra gli uomini che lo abitano de Gli uomini nella prigione, all’affresco corale di Nascita della nostra forza, rievocazione dell’ascesa "dell’idealismo rivoluzionario attraverso l’Europa devastata del 1917-1918", [18] per concludere con il disincantato e splendido La città conquistata dove egli tira un amaro bilancio della rivoluzione come necessità che sovrasta l’individuo e che in qualche modo si nutre dei suoi sogni e delle sue speranze privandolo dell’innocenza: "Il mondo è da rifare. Per questo bisogna vincere, resistere, sopravvivere ad ogni costo. Più saremo duri e forti, meno verrà a costare. Duri e forti anzitutto verso noi stessi. La rivoluzione è un’impresa che va realizzata sino in fondo senza debolezze. Noi siamo soltanto gli strumenti di una necessità che ci trascina, ci travolge, ci esalta e sicuramente passerà sui nostri corpi. Noi non inseguiamo nessun sogno di giustizia, noi facciamo ciò che deve essere fatto, ciò che non può non essere fatto". [19]  

Nuovamente arrestato, Serge viene trasferito a Mosca e poi condannato a tre anni di deportazione in "quel modesto succedaneo dell’inferno" [20] che è tornata ad essere la Siberia sotto Stalin. Ridotto in estrema miseria, Serge resiste alla disperazione scrivendo due nuovi romanzi, Gli uomini perduti e La tormenta, e preparando la prima stesura de L’anno II della rivoluzione russa. Tutti materiali destinati ad andare persi al momento della sua liberazione. L’arresto e la deportazione dello scrittore non passano sotto silenzio. In Francia si sviluppa una forte campagna in suo favore, persino intellettuali vicini allo stalinismo come Romain Rolland o considerati "amici dell’URSS" come André Gide si mobilitano premendo sulle autorità sovietiche perché lo scrittore venga liberato. Ma è solo nel 1936, alla scadenza della pena, che Serge è liberato ed espulso dall’URSS assieme alla sua famiglia.
Il 18 aprile 1936 Serge arriva a Bruxelles e si dedica subito ad un’intensa attività pubblicistica. In pochi mesi apparvero un opuscolo sui processi di Mosca, un bilancio sulla rivoluzione russa a due decenni dall’Ottobre e numerosi articoli su pubblicazioni della sinistra rivoluzionaria e sul quotidiano socialista di Liegi, La Wallonie. Inizia anche una collaborazione con Trotsky, allora esule in Norvegia, che fin dall’inizio appare non facile. A differenza di molti sostenitori del "vecchio", in genere giovani intellettuali giunti da poco alla politica militante, Serge non si sente schiacciato dal carisma debordante del fondatore dell’Armata Rossa e non rinuncia a rimarcare le differenze di visione sulla Spagna e sul Poum o sul Fronte popolare francese, anche se con grande onestà intellettuale saprà riconoscere, una volta verificatasi la rottura definitiva, le ragioni del suo interlocutore: "Trotsky mi scriveva dalla Norvegia che tutto ciò avrebbe condotto a disastri e io avevo torto di dargli torto: vedeva giusto e lontano in quel momento". [21]
Nonostante queste differenze, Serge si mantiene vicino al movimento trotskista, tanto da essere invitato alla cosiddetta Conferenza di Ginevra che si tiene nel luglio 1936 in preparazione della costituzione formale della Quarta Internazionale. Ma la sua attività non esaurisce nell’ambito del trotskismo, assieme a intellettuali critici e a vecchi militanti operai del calibro di André Breton, Marcel Martinet, Magdeleine Paz, Pierre Monatte, Alfred Rosmer, Maurice Dommanget, Daniel Guérin e altri, costituisce un Comitato per l’inchiesta sui processi di Mosca e per la difesa della libertà d’opinione nella Rivoluzione che tenta di spezzare la cortina di silenzio sui crimini dello stalinismo e di controbattere in qualche modo la martellante campagna di menzogne sull’URSS patria del socialismo e principale baluardo antifascista frutto congiunto della propaganda dei PC staliniani e di un’intellettualità "progressista" asservita alla controrivoluzione. Fin dall’inizio Serge ha ben chiaro il filo conduttore che lega la politica staliniana e unisce fenomeni per molti versi sconcertanti come le grandi purghe in URSS o la politica controrivoluzionaria in Spagna. Può così prevedere con largo anticipo, dopo il primo grande processo dell’agosto, i processi che seguiranno e indicare persino i nomi dei futuri condannati a morte: "Comprendevo – nota nelle sue Memorie – che era il principio dello sterminio di tutta la vecchia generazione rivoluzionaria… Perché questo massacro, mi domandavo nella Révolution Prolétarienne, e non gli vedevo altra spiegazione che la volontà di sopprimere i gruppi di ricambio del potere alla vigilia di una guerra considerata imminente. Stalin, ne sono persuaso, non aveva strettamente premeditato il processo, ma egli vide nella guerra civile di Spagna il principio della guerra europea…Una orribile logica ha presieduto all’ecatombe…Assassinati i primi bolscevichi, bisognava evidentemente assassinare gli altri, diventati testimoni incapaci di perdonare. Bisognò pure, dopo i primi processi, sopprimere coloro che li avevano montati e ne conoscevano i retroscena, al fine che la leggenda creata diventasse credibile. Il meccanismo dello sterminio era così semplice che si poteva prevederne la marcia". [22] 

Liquidata la vecchia guardia bolscevica, la controrivoluzione non si ferma, ma investe direttamente l’opposizione marxista rivoluzionaria ovunque questa cerchi di organizzarsi. Nella primavera del 1937, soffocata nel sangue la Comune di Barcellona, gli staliniani procedono alla liquidazione sistematica dei poumisti e degli anarchici. Nel settembre a Losanna viene assassinato da sicari al soldo di Stalin l’ex dirigente della GPU Ignat Reiss da poco passato con l’opposizione trotskista. Nel febbraio dell’anno successivo muore a Parigi in circostanze mai chiarite il figlio di Trotsky, Lev Sedov, mentre in luglio viene rapito e assassinato Rudolf Klement, segretario organizzativo della Quarta Internazionale. E’ una vera e propria guerra di sterminio che non risparmia nessuno e a cui Serge cerca di opporsi come può, pubblicando su La Révolution prolétarienne una rubrica di denuncia dei crimini staliniani, "Cronaca del sangue versato", e dando alle stampe due nuove opere, Da Lenin a Stalin e Destino di una rivoluzione, in cui, riprendendo sostanzialmente le tesi sviluppate da Trotsky in La rivoluzione tradita, traccia un bilancio ancora "ortodosso" dell’esperienza sovietica. Nonostante la violenza rivoltante del Termidoro staliniano, per Serge l’URSS resta ancora uno Stato operaio grazie alla proprietà statale dei mezzi di produzione e alla pianificazione. Proprio per questo la controrivoluzione burocratica è spietata, come in E’ mezzanotte nel secolo, un altro grande romanzo apparso nel 1938, il deportato Ryzik chiarisce agli altri detenuti demarcando con triste orgoglio il confine fra i militanti bolscevichi perseguitati, ma non vinti e i nuovi padroni: "Sanno quello che siamo e cosa sono essi stessi… Nessuno è più pratico, più cinico e più lesto a risolvere tutto con l’omicidio, dei plebei privilegiati che sopravvivono alle rivoluzioni… Nasce una nuova piccola borghesia con i denti aguzzi, che ignora il significato della parola coscienza, si prende gioco di ciò che ignora, vive di energie e di slogan d’acciaio e sa molto bene di averci rubato le vecchie bandiere… E’ feroce e vile. Noi siamo stati implacabili per trasformare il mondo, loro lo saranno per conservare il bottino. Noi davamo tutto, anche quello che non avevamo, il sangue degli altri assieme al nostro, per un futuro sconosciuto. Loro sostengono che ogni cosa è compiuta purché non gli si chieda niente; e per loro ogni cosa è realmente compiuta visto che hanno tutto. Saranno inumani per vigliaccheria". [23]
E’ mezzanotte nel secolo, redatto fra il 1936 e il 1938, rappresenta la prima di una serie di opere dedicate da Serge a ricostruire gli esiti tragici di una generazione rivoluzionaria "logorata dalle lotte, spezzata dalla macchina totalitaria che – ed è una delle avventure più tragiche che la storia conosca – essa stessa, senza volerlo e senza rendersene conto, ha costruito con le proprie mani". [24] Il romanzo esce in Francia nel 1939, fra il crollo della repubblica spagnola e lo scoppio della seconda guerra mondiale e racconta la storia, trasposizione letteraria della drammatica esperienza di deportazione vissuta dall’autore, di un gruppo di trotskisti irriducibili confinati in un lager dell’estremo Nord. Il periodo che intercorre fra la stesura e la pubblicazione del romanzo segna un momento cruciale nell’evoluzione politica di Serge che proprio in quei mesi rompe definitivamente con Trotsky e con la Quarta Internazionale in cui non aveva mai riposto alcuna speranza: "Da quest’epoca data pure la mia rottura con Trotsky. Mi ero tenuto al di fuori del movimento trotskista, in cui non ritrovavo le aspirazioni dell’opposizione di sinistra in Russia a un rinnovamento delle idee, dei costumi e delle istituzioni del socialismo. Nei paesi che conoscevo, in Belgio, in Olanda, in Francia, in Spagna, gli infimi partiti della IV Internazionale, lacerati da frequenti scissioni e, a Parigi, da lamentevoli litigi, costituivano un movimento debole e settario, in cui, mi pareva, nessun pensiero nuovo poteva nascere… L’idea stessa di fondare un’Internazionale nel momento in cui tutte le organizzazioni internazionali socialiste soccombevano, in piena ondata di reazione e senza appoggi da nessuna parte, mi pareva insensata". [25]
Partito da una critica contingente ai limiti dell’Opposizione di sinistra, Serge progressivamente allarga il suo campo di indagine all’intero percorso politico del bolscevismo a partire dalla rivoluzione d’Ottobre con l’intento di individuare quei fattori che hanno in qualche modo favorito lo sviluppo del totalitarismo staliniano. Il punto di rottura viene concretamente individuato nel "terribile episodio" di Kronstadt e nella creazione della Ceka, per Serge gravissimi errori in quanto "incompatibili" con il socialismo. Fermamente convinto dell’assoluta necessità etica e politica di superare la discrasia fra fini e mezzi che gli pare sostanziare l’intera esperienza bolscevica, Serge chiede al movimento trotskista un pronunciamento aperto sul tema della democrazia. La risposta è raggelante. Trotsky rifiuta sprezzantemente di confrontarsi con posizioni che ritiene nulla più di una "manifestazione di demoralizzazione piccoloborghese". Per lui Serge, scambiando la sua crisi personale per quella del marxismo, cerca di unire marxismo anarchismo e poumismo in una sintesi priva di qualsiasi valenza politica. E’ una critica che non lascia spazio a mediazioni di sorta. La frattura non verrà ricomposta e un anno più tardi l’assassinio del "vecchio" chiuderà definitivamente la questione. Nelle sue Memorie, rievocando questo episodio, Serge si esprimerà nei riguardi di Trotsky con enorme rispetto e con un affetto quasi filiale che non nasconde, tuttavia, una radicale critica politica: "Sui problemi dell’attualità russa riconoscevo a Trotsky chiaroveggenza e intuizioni stupefacenti… Lo vedevo mescolare con i lampi di un’alta intelligenza, gli schematismi sistematici del bolscevismo d’altri tempi, di cui credeva la risurrezione inevitabile in ogni paese. Comprendevo quel suo irrigidirsi di ultimo superstite di una generazione di giganti, ma, convinto che le grandi tradizioni storiche non si continuano altrimenti che attraverso i rinnovamenti, pensavo che il socialismo debba pure rinnovarsi nel mondo moderno; e che ciò debba accadere mediante l’abbandono della tradizione autoritaria e intollerante del marxismo russo dell’inizio di questo secolo". [26]  Lo scoppio della guerra lo coglie a Parigi. Il 10 giugno 1940, poco prima dell’entrata dei tedeschi nella capitale, egli parte con i propri familiari per Marsiglia, da lì con grande fatica dopo infinite peripezie riesce ad ottenere un visto per il Messico dove giunge nel settembre dopo un viaggio avventuroso di cinque mesi che ha toccato la Martinica, San Domingo e Cuba. L’esperienza, prima della fuga dalla Francia occupata e poi dell’esilio messicano, è terribile e segna profondamente Serge accentuandone quella vena di amarezza che già aveva manifestato nei suoi ultimi scritti. Rivoluzionario senza partito, odiato dagli stalinisti, respinto dai trotskisti, egli è costretto a bere fino in fondo l’amaro calice di un isolamento quasi totale. "Noi viviamo – scrive dal Messico all’amico Antoine Borie – del tutto isolati… le persone vivendo per gruppi nazionali, ogni solidarietà essendosi dissolta". [27] "Ci si salva d’altronde per famiglie politiche, i gruppi non servono più ad altro che a questo. Tanto peggio per il fuori partito che si è permesso di pensare solo…". [28]

Nell’esilio messicano Serge si dedica totalmente ad una intensissima attività letteraria. Mentre redige le sue Memorie, collabora attivamente con riviste europee e nordamericane e scrive gli ultimi suoi romanzi, Il caso Tulaev, Gli ultimi tempi e Anni spietati. Dedicato al tema dei grandi processi staliniani degli anni Trenta e delle confessioni degli esponenti della vecchia guardia bolscevica che si erano autoaccusati di ogni sorta di crimine contro il potere sovietico, Il caso Tulaev ricostruisce dal di dentro con una precisione assoluta il clima di terrore e di menzogna sviluppatosi in URSS a partire dall’assassinio di Kirov e culminato nelle gigantesche purghe che spazzano via quello che resta del vecchio partito bolscevico. Pubblicato in Francia soltanto nel 1948, un anno dopo la morte di Serge, il romanzo, che egli considerava il suo libro migliore, và a confondersi con i primi segnali della guerra fredda e della propaganda antisovietica tanto da far attribuire al suo autore l’etichetta falsa di sostenitore del "mondo libero" e di anticomunista. In realtà, pur da posizioni estremamente critiche, Victor Serge si considererà sempre un marxista, anche se il suo marxismo assume col tempo una sempre più marcata connotazione umanistica a cui non è estraneo un crescente interesse verso la psicologia considerata "la scienza rivoluzionaria dei tempi totalitari". Seppur critico verso ogni forma di dogmatismo e assertore convinto, anche se confuso, della necessità di un radicale rinnovamento della teoria, Serge non rifluisce sulle giovanili convinzioni libertarie, né aderisce, nonostante qualche momentanea debolezza, ad un’illusoria terza via tra capitalismo e comunismo, ma fino all’ultimo si dichiara apertamente a favore della validità del metodo marxiano: "Il concetto di lotta di classe spiega la storia degli ultimi vent’anni con un’esattezza illuminante; ciò significa che essa è intelligibile solo alla luce del marxismo. Soltanto il marxismo ci permette di capire la sconfitta del socialismo in Europa…Le sconfitte del movimento socialista non sono necessariamente sconfitte per il marxismo…Il fatto indiscutibile che siamo sconfitti non deve scoraggiarci troppo se riusciamo a comprendere perché e come siamo stati sconfitti". [29]
Altrettanto coerente è la sua posizione verso il bolscevismo. Serge non sarà mai, nonostante le ingenerose critiche di Trotsky, un rivoluzionario pentito. Certo, le sue posizioni cambiano, evolvendo dall’originale condivisione della tesi trotskiana dell’URSS stato operaio degenerato ad una concezione, poco definita e in gran parte giocata sul piano sovrastrutturale, dello stato sovietico come totalitarismo, per approdare infine, durante gli anni della guerra, al tentativo di fondere, con esiti peraltro notevolmente confusi, le teorie fra loro inconciliabili del capitalismo di stato e del collettivismo burocratico. Ciononostante, a differenza di molti altri intellettuali impegnati che nel dopoguerra si schiereranno a fianco del Dipartimento di Stato nella crociata anticomunista, Serge anche quando si sposta in qualche modo verso destra mantiene un profondo legame emozionale con la rivoluzione russa e la sua esperienza di militante prima del partito di Lenin e poi dell’Opposizione di sinistra, tale da ricondurlo sempre su posizioni inconciliabili con l’ordine borghese. [30] Sicché il valore dell’intera opera di Serge non consiste solo nell’essere un documento storico-politico pressoché unico, ma nella riaffermazione della validità di un ideale rivoluzionario in cui politica e morale possano coesistere. In quest’ottica la sua critica, talvolta anche aspra, al "giacobinismo" esasperato di Lenin e Trotsky si stempera in un più meditato bilancio secondo cui "né l’intolleranza né l’autoritarismo dei bolscevichi (e della maggior parte dei loro avversari) consentono di mettere in questione la loro mentalità socialista e le acquisizioni dei primi dieci anni della rivoluzione… Resta il fatto che la resistenza della generazione rivoluzionaria, alla testa della quale si trovava la maggior parte dei vecchi socialisti bolscevichi, fu così tenace che, nel 1936-1938, all’epoca dei processi di Mosca, questa generazione dovette essere sterminata interamente perché il nuovo regime potesse stabilizzarsi. Fu il colpo di forza più sanguinoso della storia. I bolscevichi perirono a decine di migliaia… i più grandi campi di concentramento del mondo si incaricarono dell’annientamento fisico di masse di condannati". [31]
"Serge – commenta il suo maggiore studioso italiano – conosce troppo bene, per averla vissuta dall’interno, la parabola della rivoluzione per ignorare che la degenerazione burocratico-totalitaria non è il prodotto fatale di un’ideologia, bensì il risultato del progressivo isolamento della rivoluzione nei confini di un paese arretrato, e per dimenticare che l’amalgama tra la Russia di Lenin e quella di Stalin è priva di qualsiasi fondamento, giacché lo stalinismo ha potuto affermarsi sul terreno della rivoluzione solo soffocando la rivoluzione stessa, negandone i presupposti, vanificandone i fini e massacrando un’intera generazione di rivoluzionari. In definitiva, si può affermare che tutta l’opera di Serge, proprio quando più aspra e serrata si fa la critica degli orrori dello stalinismo, testimonia a favore della rivoluzione e non contro di essa". [32]

Victor Serge muore il 17 novembre 1947, stroncato da un infarto in un taxi di Città del Messico. A lui ben si addicono, quasi a rappresentare un ideale testamento, le parole di uno dei suoi personaggi: "Scomparendo, non stabiliamo il bilancio del disastro, ma testimoniamo la grandezza d’una vittoria che ha anticipato troppo il futuro e chiesto troppo agli uomini". [33] 

Note 

13. V. Serge, Memorie…, cit., p.356 
14. V. Serge, Lettera a Marcel Martinet, 17 settembre 1930, Rivista di storia contemporanea, n.3, ottobre 1978 
15. A. Chitarin, introduzione a Victor Serge, La città conquistata, Manifestolibri, Roma 1994, p.8 
16. V. Serge, Letteratura e rivoluzione, Celuc Libri, Milano 1979, p.74 
17. V. Serge, Memorie…, cit., pp. 381-382 
18. V. Serge, Lettera a Marcel Martinet, 20 febbraio 1931, Rivista di storia contemporanea, cit. 
19. V. Serge, La città conquistata, cit., p. 44 
20. V. Serge, Lettera a H. Poulaille, 7 agosto 1934, Rivista di storia contemporanea, cit. 
21. V. Serge, Memorie…, cit., p.484 
22. Ibidem, p.486 
23. V. Serge, E’ mezzanotte nel secolo, Edizioni e/o, Roma 1980, p.122 
24. F. Lefevre, Intervista con Victor Serge, La Wallonie, 30 gennaio 1940 
25. V. Serge, Memorie…, cit., p.514 
26. Ibidem, pp.514-515 
27. V. Serge, Lettres a Antoine Borie, Témoins Cahiers indépendants, Zurich, Février 1959, p.10 
28. V. Serge, Memorie…, cit., p.535 
29. V. Serge, Socialismo e totalitarismo, Prospettiva Edizioni, Roma 1997, pp.81-82 
30. A. Wald, Victor Serge et la Gauche anti-stalinienne de New York 1937-47, Cahiers Léon Trotsky, n.35, septembre 1988, p. 16 
31. V. Serge, La crisi del sistema sovietico, Edizioni Ottaviano, Milano 1976, pp. 210-212 
32. A. Chitarin, Introduzione a Victor Serge, Il caso Tulaev, Bompiani, Milano 1980, p. XIII 
33. V. Serge, Il caso Tulaev, cit., p. 429