TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 31 dicembre 2013

Temporale notturno (Le illusioni d'Itaca, 8)



Dove il nostro marinaio comprende che vivere significa prima di tutto accettare se stessi, le proprie contraddizioni e debolezze. (Ottavo capitolo de Le illusioni d'Itaca)

Giorgio Amico

Le illusioni d'Itaca

8. Temporale notturno



Si svegliò a metà della notte. Era madido di sudore. Fuori il tempo era cambiato. Subito dopo la mezzanotte si era levato un gran vento. Vento di Ponente dalla Linguadoca lontana, aria di tempesta che portava con se la pioggia. Così almeno dicevano i vecchi.

Aveva sete. Si alzò a bere. Poi tornò a letto, si accese una sigaretta e si mise a fumare nel buio della stanza.
  • Cos'era che gli rendeva così difficile accettare il mondo? - si chiedeva aspettando quella pioggia che non arrivava.
Per anni il mare e il bere erano state il suo rifugio. Poi aveva trovato riparo nella scrittura. Lo scrivere lo aveva salvato dall' ansia che si portava dentro. Sulla pagina bianca si erano materializzati i fantasmi che abitavano la sua mente, che rendevano frenetiche le sue notti. Lo scrivere era servito a esorcizzarli, ma non per sempre. In quella notte, mentre fuori il vento si era ancora alzato e faceva sbattere gli scuri, li sentiva tutti presenti nel buio attorno a sé. Presenze fastidiose che venivano da lontano.

Sentì d'improvviso crescere dentro di sé il desiderio di alzarsi e fuggire.
  • Subito. Adesso. - si disse - Andarsene via da lì, fuggire da quella casa. Tornare da dove era venuto.
Non ci sarebbe voluto molto a fare la valigia e ad andare via. Da sempre si era abituato a muoversi con appena lo stretto necessario. Gli venne di pensare che era sempre stato pronto alla fuga. Che tutta la sua vita era stato solo un continuo fuggire da sé stesso. Un eludere i problemi. La ricerca incessante di un altrove. Il sogno continuo di un domani che allontanasse il dolore dell’oggi.

Il pensiero improvviso di Giulia lo trattenne. Il pensiero di Giulia e la consapevolezza che al termine di quella ennesima fuga non ci sarebbe stata ad attenderlo (lo aveva ormai ben chiaro nella mente) quella liberazione da sempre tanto agognata, ma una nuova più feroce servitù, un'insoddisfazione ancora più grande. E poi, liberazione da chi ? Da cosa ?

Una inquietudine antica lo aveva ripreso e lo divorava. Smaniava contro le catene che negli anni si era forgiato con le sue stesse mani. Una cosa di certo sapeva: questa sua vita erratica e caotica, che pure in qualche modo aveva fino ad allora amato, non assomigliava in nulla a quella libertà tanto sognata negli anni brucianti della gioventù. Così disperatamente cercata anche dopo aver superato quella sottile linea d’ombra che ad un tratto segna l’ingresso nell’età matura. Quando giunge il momento delle scelte definitive.

Fu d'improvviso consapevole che quei pensieri disordinati rappresentavano una muta richiesta di aiuto, la cosa che più si avvicinava ad una preghiera. Da tempo non credeva più, ma forse non era mai stato davvero religioso, neppure da bambino. Il suo, semmai era stato un cattolicesimo imposto, una religiosità cupa, fatto di rituali incomprensibili, intessuta di paura. Paura del peccato, paura della perdizione, paura della morte. Ripensò ai preti della sua infanzia. Uomini grigi, schiacciati dalla solitudine, sconfitti dalla vita. Nessuno di loro gli aveva mai spiegato cosa fosse veramente la fede, ma il senso del peccato, quello si che glielo avevano istillato fino a schiacciarlo. Non c'era nel loro mondo perdono, né possibilità di salvezza.
  • Siamo testardi nel peccare, vili nel pentimento. - pensò - Il vecchio Baudelaire aveva capito tutto.
Era come se l'incontro con Giulia lo avesse svuotato di ogni energia. Fino ad allora aveva avuto la forza di vivere da solo. Di bastare a se stesso. Di andare avanti, nonostante tutto e tutti se necessario. Adesso non se ne sentiva più capace e questa sensazione nuova lo faceva sentire debole, vile. O, meglio, simile nella sua miseria a tutti gli altri esseri umani. Per anni aveva creduto di aver raggiunto un punto di equilibrio che ora gli si rivelava niente altro che una pietosa illusione.



Si ritrovò a pensare che in fondo l'aveva sempre saputo, anche se prima di quel momento non aveva mai voluto ammetterlo neppure a se stesso. Tutto il suo scrivere, i libri pubblicati, la fama, che pure era venuta, non gli avevano insegnato nulla di più di quello che già dall'inizio sapeva, che ogni uomo sapeva. Doveva imparare a convivere con se stesso. Era questo che Giulia aveva cercato di dirgli prima di lasciarlo.

  • É più la gente che odia che quella che ama. - si disse - Questo è il problema. Non siamo più capaci di vivere con gli altri perché non riusciamo più ad accettare noi stessi. Se lo fossimo, la vita non sarebbe poi una cosa così terribile.
Si alzò di nuovo a bere, ma niente poteva placare la sua sete. Dal bosco dietro la casa giungevano i rumori della notte. E ancora pensava ai luoghi che aveva visto, alla gente che aveva incontrato. Povera gente stanca, segnata dalla vita.

Aucels portats dal vent… peisses dins la corrent… indians per la colino

Dicevano così i versi di una canzone di Sergio Berardo, l'ultimo dei grandi cantaires occitani. Si mise sottovoce a ripeterne una strofa, quella che ricordava meglio. Nelle orecchie il suono della fisarmonica e della ghironda.

Mas venarè la reina di
autopistas
e nos fasarè montar encar
un bot
si vituras coloràas
via d’i prats e la melia
la promessa d’aquel temp
sem aucels portats dal
vent
sem de peisses dins
la corrent

(Verrà ancora la regina delle/ autopiste/ e ci farà salire ancora/ una volta/ sulle macchine colorate/ via dai prati e dalla meliga/ la promessa di quel tempo/ siamo uccelli portati dal vento/ siamo pesci nella corrente)
  • La vita è fatta di opposti – si disse - Amore e odio. Desiderio e indifferenza. Ricordo e oblio. Piacere e sofferenza. Nulla è veramente come appare.
Tante domande gli si affollavano nella mente. Era questa solitudine la felicità che cercava? Questo errare inquieto era la vita che voleva? Tante domande e nessuna risposta. Ma poi, c’era qualcuno davvero in grado di spiegare il mistero antico dell’esistere? Sottile come una lama, il dolore cresceva dentro di lui.

Aprì la finestra: nell'oscurità l'aria era satura di umidità.
  • Sta per piovere. - Disse tra sé.
Il vento agitava le foglie degli alberi dietro la casa. Poi iniziarono a cadere le prime gocce di pioggia e tutto il bosco d'improvviso prese a risuonare di quel ticchettio. In breve fu tempesta. I lampi illuminavano la vallata mentre l'acqua veniva giù a scrosci. Il temporale si faceva sempre più violento. Ora pioveva a dirotto. Grosse gocce battevano contro la finestra, tambureggiavano sulle lose consunte del tetto, scivolano sul terreno arso dall'estate che le assorbiva avido. Più che la violenza della pioggia o il rombare cupo dei tuoni lo turbava il rumore dell'acqua che correva giù lungo il sentiero. Aveva la sensazione di non controllare più il suo corpo, di essere in balia di quegli elementi scatenati, simile alle foglie che la corrente trascinava a valle lungo il viottolo divenuto torrente.

Poi, improvvisa come era sorta, la tempesta cessò. In piedi sull'uscio osservava lampi lontani rischiarare il cielo oltre la linea dell'orizzonte.

Si addormentò all'alba che il giorno già si levava.


(continua)


lunedì 30 dicembre 2013

Giulia (Le illusioni d'Itaca, 7)



Il marinaio senza nome scopre che l'irrompere improvviso del passato non lascia indenni.(Settimo capitolo de Le illusioni d'Itaca)

Giorgio Amico

Le illusioni d'Itaca

7. Giulia


Lei giunse a notte inoltrata, quando ormai quasi disperava di vederla. Nel silenzio notturno della collina le tenebre l'avvolgevano come un manto stellato ed i suoi occhi sfolgoravano di una luce che lui non le aveva mai visto.
  • Sono qui - gli disse.
Non ci fu bisogno d'altre parole. Fecero l'amore subito. Ma piano, senza affanno, totalmente persi nell'innocenza di quei gesti antichi, di quel rituale senza tempo.

Dopo, steso accanto a lei sul letto sfatto, una sigaretta fra le dita, con gli occhi socchiusi lui la guardava e il suo sguardo indugiava sui suoi seni pieni, seguiva con tenerezza le rughe del suo volto, contava i primi, radi, fili grigi nei suoi capelli. Giulia gli sembrava bellissima, come mai prima gli era apparsa. Neppure negli anni più pazzi della loro giovane felicità.

Lei parlava e la sua voce sembrava venire da tanto lontano che egli la udiva a malapena. Stretto a lei, la sentiva raccontare di amori finiti, di storie andate male, di speranze deluse e intanto le accarezzava con dita lievi i capelli. Una dolcezza sconosciuta lo aveva afferrato. I suoi pensieri si muovevano lenti come le nuvole che nei giorni senza vento increspano l'azzurro del cielo sopra gli ulivi argentati, come le onde tremule che baciano il mare nei giorni di bonaccia. Intanto dalle profondità frondose del bosco il rumore del vento fra gli alberi era diventato un canto che dolcemente li cullava.

Gli parve di aver dormito un'eternità. Guardò l'orologio sul comodino: erano solo le cinque. Accanto a lui, Giulia respirava calma, la bocca un poco aperta. Aveva sul volto l'espressione serena di una bambina. Si alzò, andò alla finestra e l'aprì. Nel bosco il mattino schiariva nel canto degli uccelli.

Ci si abitua presto alla gioia, così come all'angoscia e alla disperazione. Si sentiva pacificato. Un sonno greve lo prese di nuovo. Quando si risvegliò era mattino inoltrato, fuori nel sole Giulia cantava sottovoce. Era la prima volta da tanto tempo che la sentiva cantare e ne restò turbato. La giornata era limpida. Dietro la casa api dorate danzavano ronzando nei fiori del rosmarino. Incominciò a farsi la barba, mentre in cucina lei trafficava a preparare le tazze per la colazione.

Seduti a tavola, sbocconcellavano lentamente gli avanzi di cibo che la madia conservava dai giorni precedenti.
  • Scusami, - lui le disse - non ho molto da offrirti.
  • Non importa, una cosa vale l'altra.
  • Non andare via, - riprese lui - resta qui.
  • Non credo sia una buona idea, lasciami andare, ti prego.
Lui provò a dire qualcosa. Un dito sulle labbra, lei gli fece segno di tacere.

Si fece silenzio tra loro. Un moscone ronzava nella stanza, volava attorno al tavolo, poi, attirato dalla luce, si incaponiva contro il vetro della finestra alla ricerca di un'impossibile via d'uscita. Giulia lo fissava con un'espressione enigmatica sul volto. Poi si alzò e andò in camera. Ne uscì perfettamente vestita, preparata per andarsene. Lui capì che niente sarebbe servito a fermarla, che non c'erano parole che potessero trattenerla. Lei gli si avvicinò e lo baciò. La sua bocca sapeva ancora di caffè. Lui le prese la mano. Dolcemente lei si divincolò.
  • Non essere triste, è giusto così - gli disse- Lo sai anche tu.
Ricacciò indietro le parole che gli erano salite alle labbra. Sapeva che Giulia aveva ragione, che le cose stavano proprio così. E d'altronde cosa avrebbe potuto pretendere, dopo tanto tempo.

Dalla soglia stette a guardarla allontanarsi in direzione del paese. Non distolse gli occhi da lei finché la sua figura snella non scomparve dietro la svolta del sentiero, allora lentamente rientrò in casa. L'inverno era di nuovo nel suo cuore e, mentre il giorno intristiva nel lento stagnare delle ore, anche il pianto era poca cosa.



Doveva fare qualcosa. Sentiva il bisogno di sfogarsi. Di scaricare in qualche modo l’amarezza che si sentiva crescere dentro. Dopo il pasto del mezzogiorno (pochi bocconi trangugiati in fretta), si avviò verso il passo in cima alla montagna. Il piccolo sentiero saliva ripido attraverso il bosco prima fitto, poi sempre più rado finché, finiti gli alberi ci si ritrovava allo scoperto sotto il sole cocente. Incominciò a salire. Sotto di lui vedeva la sua casa e sul vecchio tetto il gallo di latta che annunciava il vento. Quando il vento spirava dalla costa, su nella casa sotto la montagna si sentiva il profumo del mare. Era un odore acre che inebriava. Nei giorni ventosi quei luoghi cambiavano d'aspetto: sotto la sferza del vento di levante si agitavano convulse le chiome degli alberi e il monte pareva prendere vita, scuotersi, tremolare.

Quel giorno non c'era vento e il cielo rideva sopra la montagna sassosa. Saliva un passo dopo l'altro, nella calura del meriggio, talvolta appoggiandosi ad un masso e la croce arrugginita sulla vetta gli appariva come un miraggio nella luce intensa. Poi il sentiero terminò: davanti a lui una sfilata a perdita d'occhio di monti azzurrini, i monti di Francia. Amava quelle creste lontane che avevano per lui il sapore aspro della libertà e i contorni sfumati del sogno. Un cielo azzurro le sovrastava, tanto limpido da far male. Un annuncio di quel cielo di Provenza che aveva imparato a conoscere da giovane e che da allora non gli era più uscito dal cuore, simile ad un richiamo ossessivo, a un canto di sirene. Dietro quei monti, lo sapeva, c'era la valle del Rodano con le sue vigne e le sue città dal candore accecante: Avignone, Arles, Aix. E più sotto ancora la Camarga dei gitani, dei cavalli e dei tori. Terra di poeti e di pittori, terra di vento e di fuoco. Pensò a Mistral e ai troubadoures di un tempo, pensò ai cantori della rinascita occitana. Gli tornarono in mente i versi crudeli di Emile Bonnel, quello che più di tutti amava:

Entre la mar d'aigo
e lou desert di vigno
sus lou pelagnas
Ounte se courduron
li doua desesperanço,
l'alo di flamen
uiausso de sang


("Fra il mare d'acqua/e il deserto di vigne,/sulla vasta distesa/dove s'intrecciano/le due disperazioni,/ l'ala degli aironi/lampeggia di sangue")



Delle sue vite precedenti non era rimasto niente. Niente. Solo ricordi. Da giovane gli piacevano le vie malfamate, i locali sordidi. Perdersi nella confusione e nel rumore. Ricordava ancora la prima volta che era stato a Genova. Ebbro di sole, si era immerso nei vicoli di Pre, richiamato dall'afrore del mare. Mescolato agli operai del porto, alle puttane e ai venditori di sigarette in via del Campo si era sentito finalmente a casa. Gli ritornavano alla mente gli odori di Lisbona, la luce bianca sulla città, le torri squadrate della cattedrale e il minuscolo Bico do Espiritu Santo dove aveva abitato. Riandava alla notte in cui, incantato dagli occhi neri di una fadista, si era battuto con un marinaio ubriaco in un vicolo dietro l'Igreja de S. Roque, su tra il Chado e il Bairro Alto e poi, ancora ansante, si era andato a sedere ad un tavolino del Caffè Brasileira, proprio accanto alla statua di Pessoa, a fianco degli intellettuali, dei gay e dei turisti in cerca di emozioni.

Gli anni erano passati e lui con loro, morendo un poco ogni giorno, cambiando nell'animo. Era il silenzio ora ad attirarlo, il respiro profondo del tempo al di là di ogni illusione/rappresentazione. Rivedeva lo spicchio di mare in fondo alla viuzza di Bastia sotto le mura della cittadella genovese e la grande nave bianca che dalla sua finestra un mattino aveva visto passare come un gabbiano di sogno che fluttuasse nell'aria. Ripensava alle verdi vallate d'Occitania, ai borghi silenziosi, ai pascoli alti, alle danze frenetiche, ai libri di Fontan che parlavano di un popolo dimenticato che non voleva morire.

Luoghi dove era stato, dove aveva amato, dove si era sentito bene. Luoghi del suo passato, stanze della memoria. Questo e poco altro gli era rimasto. Desiderio di morire, volontà di vivere: a questo dilemma si era ridotta la sua vita Una sete di infinito, di intensità, di assoluto lo consumava.

Attese che calassero le prime ombre, poi incominciò a scendere. Giù in fondo la lunga linea bianca della costa si intravedeva appena. Puntuale si accese ad occidente la prima stella. Il canto solitario di un uccello lo accolse nel bosco che la brezza serale come un brivido scuoteva a preannunciare la notte. Tra gli alberi faceva caldo. Dai sentieri non più battuti emanava forte l'odore delle felci.

Assorto nei suoi pensieri, le spalle ingobbite, continuava ad andare giù per il sentiero che portava alla sua casa. Nulla rimaneva della sua giornata. Nulla. E mentre una brina gelida afferrava il suo cuore, egli rendeva silenziosamente grazie del fatto che anche quella giornata si fosse finalmente consumata.


(continua)

domenica 29 dicembre 2013

Come nasce un amore (Le illusioni d'Itaca, 6)



Come il nostro marinaio senza nome scopre che la navigazione più pericolosa è quella nei ricordi (Sesto capitolo de Le illusioni d'Itaca)

Giorgio Amico

Le illusioni d'Itaca

6. Come nasce un amore

Tornò al paese con la mente e il cuore in tumulto. Guidava lentamente, ripensando a ciò che era appena accaduto. La storia con Giulia era stata importante per lui. Vivendo con lei, amandola, aveva imparato a conoscere se stesso, a sentirsi uomo. Prima timidamente poi senza più pudori o inibizioni, si erano rivelati l'uno all'altra. Insieme avevano scoperto i gesti antichi dell'amore, la forza casta e sfrenata del desiderio, il linguaggio dolce e imperioso dei loro corpi giovani. Erano stati felici, come solo si può esserlo a vent'anni. Troppo felici forse. Ad un tratto aveva avuto paura. Si era sentito come soffocare. E allora era partito. Senza preavviso, un giorno se ne era andato. A cercare lontano da lei, dal suo paese, dai suoi vecchi quella libertà che desiderava più di ogni altra cosa. Anche più di Giulia. Dopo tanto tempo non riusciva ancora neppure lui a spiegarsi bene come fosse accaduto. Forse come nella favola di Sinbad, aveva semplicemente sentito voglia di partire per mare e si era imbarcato.

Oltrepassato il viadotto dell'autostrada, la sua valle gli sembrò ancora più triste: una terra desolata. Ne valevano a placarlo gli sprazzi di sole che danzavano tra gli ulivi centenari. Nella sua vita aveva rinunziato senza rimpianto a tante cose, lo sapeva bene. Giulia era stata solo la prima di quelle rinunzie. Tante altre ne erano venute dopo. Senza patemi aveva rifiutato la quotidianità di un lavoro stabile così come il decoro borghese di una piccola vita ordinata. Aveva amato la trasgressione, ricercato l'eccesso. Con gli anni era andato avanti su questa strada, senza mai voltarsi indietro, senza provare pentimenti o rimorsi. Ma ora non si sentiva più sicuro delle sue scelte. Per la prima volta non era più certo di avere fatto la cosa giusta. Confusamente sentiva che qualcosa in lui era cambiato. Che dopo l'incontro con Giulia nulla sarebbe più stato come prima.

La giornata passò così in un inutile girovagare. Poi le ombre arrugginite della sera inghiottirono la valle.

Si era fermato ad un tavolo d'osteria ed ora cenava, chiuso nei suoi pensieri, la fronte abbassata sul piatto. Era un locale dall'aspetto antiquato. Una stufa polverosa prendeva un angolo della stanza. Sui tavoli vecchi giornali ingialliti. Vicino alla finestra che dava sul cortile quattro pensionati giocavano alle carte. Parlavano tutt'insieme, eppure non c'era confusione.

Due uomini in piedi a fianco del bancone fumavano e discutevano di calcio: il fatto era che niente era più quello di un tempo, dicevano. Neppure il calcio. Continuando a mangiare, lui li guardava. Da tempo aveva capito che ad un uomo poteva bastare trovarsi in compagnia di altri uomini la sera. E allora perché corteggiare la rovina? Perché tornare indietro. Come se fosse possibile, poi. Non poteva sortirne niente di buono.

Guardò l'orologio: era tardi.

Fece un cenno di saluto alla donna anziana infagottata in un grembiule, che in piedi dietro il bancone trafficava alla macchina del caffè, ed uscì nella notte. I giocatori di carte non alzarono neppure il capo.

I fari delle automobili sulla provinciale illuminavano la campagna. Lampi di luce nel buio grigio dell'asfalto. Sopra di lui fuggivano alte le stelle. Il suo cuore era un campo di battaglia.

Più tardi, seduto nel buio davanti alla sua casa, immerso nel concerto estivo dei grilli, sentiva che Giulia sarebbe arrivata. Non avrebbe saputo dire perché, ma ne era certo. Qualcosa era accaduto quel giorno che li aveva di nuovo legati. Lo sentiva con tutta la forza del suo essere.

Fumando una sigaretta dopo l'altra, l'aspettava e nell'attesa rivedeva come in un film ogni istante della loro storia e una malinconia dolce lo pervadeva.



Con la memoria riandava continuamente al momento del loro primo incontro. Tutto era accaduto in un mattino di primavera inoltrata. Sedeva in un bar del centro, sul tavolino davanti a sé una tazza di caffè, un pacchetto sgualcito di Gauloises e una copia de I sotterranei. Lei era entrata all'improvviso. Una studentessa come tante: giovane, carina. Si era avvicinata al banco, aveva ordinato qualcosa. Poi si era voltata verso di lui e l'aveva guardato, a lungo, con insistenza. La profondità dei suoi occhi lo aveva colpito, quasi imbarazzato. Le aveva sorriso. Era stato come un richiamo. Lei si era avvicinata.
  • Cosa leggi? - aveva chiesto.
Senza aspettare la sua risposta, aveva preso il libro dal tavolino, lo aveva sfogliato quasi distrattamente.
  • E' un libro bellissimo. - Gli aveva detto - L' ho letto anch'io, mi ha fatto piangere.
Lui l'aveva guardata incuriosito, cercando di capire cosa significassero quelle parole. Cosa quella sconosciuta volesse da lui. Poi aveva aperto il volumetto, aveva cercato fra le pagine e si era messo a leggere a voce alta:

" …adocchiando le sue piccole grazie io ebbi semplicemente l'idea più lampante di quante abbia mai avuto, l'idea che dovevo immergere il mio essere solitario nel caldo bagno e nella salvazione delle sue cosce - le intimità di giovani amanti a letto, distesi faccia a faccia, occhio nell'occhio, petto sul petto nudo, organo nell'organo, ginocchio contro ginocchio tremante, pelle d'oca, scambiarsi gesti esistenziali e d'amore…".

Lei era arrossita, ma non si era mossa. Era rimasta in piedi accanto a lui con una espressione indefinibile sul viso. Erano usciti insieme dal bar e si erano diretti verso la marina. Avevano percorso il lungo molo fino al vecchio faro di mattoni rossi posto all'imboccatura del porto. Il mare li circondava da tre lati. Alle loro spalle le case bianche della città. Più dietro ancora le colline verdi addossate ai monti grigi di Liguria. Dal largo lentamente un battello da pesca si avvicinava seguito da uno svolazzo di gabbiani. Sentivano il sordo ronfare del motore, le voci dei marinai, le grida rauche degli uccelli marini. Lei lo guardava con l'espressione di un uccellino che avesse appena rotto il guscio. Nei suoi occhi c'era festa.

  • Mi piace questo posto, - gli aveva detto - mi è sempre piaciuto. Mi dà un senso di libertà assoluta.
Lui non aveva detto nulla. Si era acceso una sigaretta e ne aveva tirato alcune boccate guardando il mare. Poi si era voltato verso di lei.
  • Ti piacerebbe andartene?
  • Da dove?
  • Da qui, da questa città, da questa vita.
  • Perché mi chiedi queste cose?
  • Avresti preferito che non te le chiedessi?
  • Preferisco non parlarne
  • Va bene . Se non vuoi.
Era rimasta in silenzio per un po', assorta nei suoi pensieri, ma aveva presto ripreso a parlare, con una voce incerta, esitante.
  • Ci ho pensato, ci ho pensato molto. Sai. Non lo nego. Ci sono giorni in cui non penso ad altro.
  • Ma…
  • Ma poi mi sono venuti in mente i miei. Mia madre… penso che ne morirebbe.
Lui aveva riso. Una risata cattiva, irridente. La ricordava ancora, quasi con vergogna.

Lei si era irrigidita.
  • Non trattarmi così.
Ora non sembrava più tanto fragile. Nei suoi occhi danzava una luce strana. Lui ne fu impressionato. Si piegò verso di lei e la baciò. Le sue labbra sapevano di sale.

Erano rimasti lì per ore, seduti sui gradini consunti del vecchio faro. A parlare dei loro sogni, dei loro desideri. Sospesi tra cielo e mare.
  • È bello, vero? Vorrei che il tempo si fermasse, che tutto restasse com'è ora.
Dopo tanti anni pensava che sì, tutto sarebbe dovuto restare come allora. Danza immobile nel lieve spirare del vento.

Intanto tutto attorno a lui nel buio il concerto dei grilli era divenuto assordante.


(continua)


sabato 28 dicembre 2013

Incontri (Le illusioni d'Itaca, 5)



Girovagando nella città sulla costa il marinaio senza nome scopre che al proprio destino non si sfugge (Quinto capitolo de Le illusioni d'Itaca).

Giorgio Amico

Le illusioni d'Itaca

5. Incontri

Il pomeriggio passò rapidamente in un inquieto girovagare da un locale all'altro che, senza lasciare in lui memoria alcuna, accrebbe però quel senso di insoddisfazione che sin dal mattino si portava dentro. Quei vicoli, quelle piazzette, quelle strade, che erano stati testimoni di una felicità passata, gli apparivano ora sempre più estranei. Si sentiva fuori posto.

E poi fu notte. Il mare, increspato dalla brezza serale, brillava sotto la luce argentea della luna. Era uno spettacolo magnifico, che avrebbe dovuto infondergli un senso di pace, ma proprio allora quel malessere vago che per tutto il giorno lo aveva accompagnato divenne intollerabile. Si trovò a pensare che anche in questo campo la sapevano lunga i poeti: le ore peggiori sono proprio le ore della notte quando il peso dei ricordi si fa insostenibile.

In piedi al bancone dell'ultimo bar, un whisky davanti e la sigaretta fra le dita, gli ritornò lancinante il ricordo di Giulia: nel loro amarsi e respingersi un capriccio insensato li aveva divisi. Ma quale logica c'è poi nell'amore ? Una volta un poeta aveva scritto che a letto pensiero ed analitica non hanno più senso. Non ricordava più in quale libro avesse trovato quella frase, ma concordava pienamente con ciò che l'anonimo scrittore aveva voluto significare. La sua storia con Giulia non ne era forse una dimostrazione eloquente?

Lei aveva lasciato la famiglia perché i suoi non avevano accettato che avesse una relazione con uno come lui. Uno spostato, un ribelle. Posta di fronte alla scelta fra un tranquillo avvenire borghese e la folle felicità del presente, lei aveva scelto senza esitazioni l'amore: un amore vero, profondo, senza ipocrisie. Così si erano messi insieme. Due stanzette all'ultimo piano di una vecchia casa su nei vicoli della città alta erano state il loro mondo. Dalle finestre vedevano oltre i tetti rossi delle case in basso l'azzurro luminoso del mare. Non avevano bisogno d’altro che di stare insieme. Bastavano a se stessi. Persi l’uno nell’altro.

Era stato bello finché era durato. Poi l'inquietudine lo aveva ripreso ed era partito.
  • Ti scriverò - Le aveva detto.
Ed infatti, arrivato a Marsiglia, per un po' le aveva mandato delle lettere. Poi aveva trovato un imbarco ed era sparito nel nulla. Non aveva cercato più di rivederla.

Non gli piaceva il riaffiorare dei ricordi dopo tanto tempo. Detestava la notte, ma ancora di più questo pigro incedere dei pensieri che non porta da nessuna parte, che arreca solo pena. Sentiva nausea come dopo una sbornia o una notte in bianco. Silenziosa, nel ricordo Giulia lo fissava con quella maniera che aveva di guardare che lo aveva sempre sconcertato: uno sguardo diretto, senza infingimenti. Occhi pieni di luce che parevano scavargli dentro, giungere fino ai suoi più intimi pensieri. Fuori del bar, intanto, il vento era cresciuto e scuoteva le tende.

E all'improvviso, mentre l'odore vicino del mare e il rumore forte della risacca gli riportavano alla memoria il profumo del corpo di Giulia sui cuscini di un letto sfatto nella luce chiara del primo mattino, gli venne voglia di andare a puttane, di perdersi fra le braccia di una donna nelle luci e nei rumori della città. Gli parve un modo adeguato di finire quella giornata. Un desiderio di abiezione lo prese, voglia di annegare nella miseria che lo circondava, nello schifo che sentiva montare dentro di sè fino a soffocarlo.



Camminava nella città immersa nel silenzio della notte. Lontano dal centro anche il via vai delle auto si era finalmente acquietato. Lungo i viali deserti lampeggiava inutile il giallo dei semafori. Sulla piazza alberata della stazione non c'era nessuno, tranne due ragazze di colore in piedi vicino all'angolo dei taxi. Vestivano abitini succinti che mettevano in risalto il bruno turgore delle carni. Attraversò lentamente la strada sentendo sempre più forte il profumo da pochi soldi dei loro corpi. Un desiderio cupo lo attanagliava, sentiva in basso il suo inguine pulsare. Si fermò vicino a loro e aspettò senza dire nulla, lasciando che fossero loro a prendere l'iniziativa.
  • Ciao, - disse la più giovane con un abbozzo di sorriso- mi chiamo Debora. Vuoi scopare ? Sono brava, sai ?
  • Andiamo - rispose lui e la seguì senza parlare nel buio della piazza.
Era andato con lei per esorcizzare quell'inquietudine febbrile che non lo abbandonava, che lo divorava. Ma ora in quella camera squallida, mentre lei si spogliava, non provava più alcun desiderio. In qualche modo lei se ne era accorta. Pazienti i suoi occhi lo fissavano incuriositi mentre ordinatamente, con piccoli gesti continuava a togliersi i vestiti. Lui non diceva niente, appoggiato alla finestra fumava seguendo pensieroso i contorni pieni di quel corpo giovane che poco a poco gli si disvelava. Infine fu nuda davanti a lui. A offrirsi tutta, senza ipocrisie. L'innocenza di quella visione lo percosse nell'intimo. Come lampi gli apparvero squarci della sua infanzia, immagini di madonne e di sante. Brandelli di preghiera gli salirono alle labbra dai recessi della memoria. Vestito, si sdraiò sul letto accanto a lei, ben attento a non sfiorare la sacralità di quel corpo nudo. Aveva voglia di piangere. Da troppo tempo era solo. Il suo cuore sanguinante era una conchiglia vuota come quelle che da bambino raccoglieva sulla spiaggia. Come loro sbiadito brandello di una vita precedente.

Dolcemente lei gli toccò la guancia.
  • Che ti succede? A cosa stai pensando? Non ti piaccio?
Il dolore celato fino ad allora crebbe dentro di lui come un fiume in piena. All'improvviso si sentì stanco, stanco di essere uomo. Ora avrebbe voluto solamente essere un bambino per piangere rannicchiato sul seno di quella piccola donna.

Lei lo capì e non gli chiese più nulla. Rosa mistica, fiore nero ripieno di Grazia, lo cullava fra le sue braccia come un bimbo, come Maria, vergine e madre, aveva stretto a sé Cristo appena deposto dalla croce.

Quella notte non tornò alla vecchia casa di pietra sulla collina. D'altronde c'era abituato. Da molto tempo ormai nessuno lo aspettava più la sera. Una sigaretta dopo l'altra, aveva dalla spiaggia visto la notte attorno a lui tramutarsi poco a poco, un quadrante del cielo dietro l'altro, in un mattino sereno. La tristezza del grido dei gabbiani all'alba era stato il saluto che il nuovo giorno gli aveva portato assieme alle voci dei pescatori che uscivano in mare diretti ai banchi di ponente.

Improvvisamente una strana sensazione di pace lo prese. Non sapeva neppure lui se fosse effetto del tepore della notte mediterranea che lo aveva stretto per ore nel suo abbraccio uterino o conseguenza del bere eccessivo della sera precedente, ma nella luce amniotica del mattino si sentiva finalmente riconciliato con la città. Al largo grandi nubi rossastre fluttuavano come navi di porpora sul mare in direzione della Corsica.

Un timido sole rosso, che faceva capolino dalla tremula linea dell'orizzonte, valse a riscuoterlo da quello stordimento. Nonostante il calore già opprimente, sentiva il bisogno di qualcosa di caldo. Si mosse alla ricerca di un bar aperto.



La città lentamente si risvegliava. Alle spalle del porto il grande mercato coperto pulsava di vita. Voci brusche, rumori di portiere sbattute, tonfi di cassette scaricate dai camion, incrociarsi di richiami e di grida. In un angolo un gatto nero dormiva rannicchiato incurante di tutto quel frastuono. Dietro all'edificio moresco del mercato un piccolo slargo ospitava i tavolini di un bar. Si sedette e attese. Una donna ancora giovane uscì dalla porta a vetri: aveva capelli nerissimi e occhi chiari color di cenere.

L'istinto gli disse di alzarsi ed andarsene. Di farlo così, tutt' a un tratto, senza esitazioni. Sarebbe stato tutto maledettamente più facile. E invece restò seduto a quel tavolino, guardandola avvicinarsi.
  • Ciao Giulia, - le disse e fu come colmare il vuoto di quei lunghi anni di separazione.
In un solo istante comprese che tutto quello che gli era accaduto fino ad allora, le cose che aveva fatto, i paesi visti, le donne incontrate e lasciate, tutto era stato solo preparazione di quell'attimo. Lei lo fissava senza parlare, incapace di fingere indifferenza. Fu come se nulla esistesse più attorno a loro, come se il mondo si fosse improvvisamente fermato. Sul volto di lei piccole rughe raccontavano la storia di una vita. Un sentimento strano, una sorta di commozione, lo prese come quando, da bambino, guardava la madre cucire seduta al tavolo della cucina. Vicino a loro un passero saltellava innocente fra i tavolini. Poi, quell'attimo di tregua finì. Senza dire una parola lei si voltò e tornò dentro al bar. Lui la seguì. in un angolo a fianco del bancone col volto rivolto contro la parete Giulia si affannava a sistemare delle bottiglie su di uno scaffale, apparentemente ignara della sua presenza.
  • Giulia…, senti… - provò a dire senza ricevere risposta.
  • Giulia…, io…- Riprese incerto.
Lei si voltò come una furia, fissandolo con odio.
  • Cosa vuoi da me? - gli gridò - Chi diavolo credi di essere? Spunti all'improvviso, dopo tanto tempo. Cosa ti aspettavi da me ? Cosa pensavi che avrei fatto? Che ti abbracciassi, che ti chiedessi di te. Come se non fosse successo niente, come se tutto questo tempo non fosse passato.
Lui fece un altro tentativo.
  • Giulia, credi: non pensavo di incontrarti. Non sapevo che…
Lei non lo lasciò finire.
  • Vattene. Vattene via. Hai capito? Vattene! Ti odio!
Fuori, mentre nell'afrore mediterraneo del mercato il sole spaccava le finestre, il gatto nero continuava a dormire nel suo angolo.


(continua)

venerdì 27 dicembre 2013

La città sulla costa (Le illusioni d'Itaca 4)


Continua il viaggio nel passato del marinaio senza nome. Quarto capitolo de Le illusioni d'Itaca.

Giorgio Amico

Le illusioni d'Itaca

4. La città sulla costa



Il giorno dopo si alzò di buon mattino. La montagna sopra il bosco era invisibile nella nebbia lattiginosa dell'alba. Si preparò in fretta, accese la prima sigaretta della giornata e uscì nella frescura mattutina. Prese di dietro alla casa per un viottolo che scendeva fra le fasce. Andava tra muri d'orti con passo deciso senza pensare a nulla. Tutto attorno a lui era silenzio, solo, a tratti, giù nella valle, vicino al torrente, si sentiva il richiamo dei tordi. Questa volta non attraversò il paese, ma si fermò sulla piazza accanto alla corriera dei pendolari che sostava in attesa dei rari passeggeri. Dalla piazza la montagna ora si vedeva nitidamente. Si distingueva anche la croce che ne sovrastava la nuda cima, segno di un'antica devozione ormai irrimediabilmente perduta. Piano piano il paese si risvegliava. Dal fremito improvviso di una tendina si accorse che da una vecchia casa lì accanto un volto lo sbirciava incuriosito.

Entrò nel bar per fare colazione. Il viso del proprietario che dietro il bancone smanettava alla macchina del caffè, gli era sconosciuto, né questi mostrò a sua volta di riconoscerlo. Si sentì sollevato.
  • Meglio così – pensò. Gli sarebbe stato insopportabile raccontare di sé, dare spiegazioni.
Più tardi, mentre in auto percorreva la carrozzabile lungo il torrente, pensava alla sua gioventù, agli anni passati a studiare in città, quando era stato costretto ogni giorno a quell' andirivieni. Altri tempi, forse anche altri luoghi. Anche se, vista dal finestrino, la valle non gli pareva poi tanto diversa da allora, fatta eccezione per gli immigrati (in prevalenza arabi e albanesi) che solitari o a gruppi vedeva frettolosamente dirigersi verso le serre e i capannoni industriali sorti a decine al posto dei vecchi orti. Simboli di una modernità invadente, che nulla pareva ormai poter arrestare. Vittime rassegnate, consapevoli della loro alterità, quegli uomini camminavano curvi nel mattino, il capo abbassato, i pugni serrati nelle tasche. Quella vista lo turbò. Immutata, pur nel cambiare delle cose, gli apparve la tristezza di quei luoghi, indelebilmente segnati anche nell'opulenza consumistica dell'oggi dall'antica povertà di un tempo. Una miseria che l'austera bellezza dei borghi, che punteggiavano le colline, non era mai riuscita del tutto ad annullare e che ora la presenza stessa di quegli sventurati riportava allo scoperto.

L'irrompere impetuoso dei ricordi, che non riusciva a fermare, lo costrinse a ripensare a cosa avevano rappresentato per lui quegli anni lontani, a ricordare che vi era stato un tempo in cui anch’egli aveva creduto possibile il cambiamento. Erano stati giorni febbrili. Giorni di speranza. Giorni passati. Egli, che aveva visto deserti ed oceani, aveva ormai da molto nel suo cuore strappata ogni immagine del mondo che non fosse solitudine e silenzio. Da tempo per lui le parole non significavano più nulla, non avevano più respiro le cose. Era come se l’avvenire non esistesse più, come se si fosse condannato a vivere in un presente senza fine.

In città cercò di sbrigare in fretta i suoi affari. Questo era d'altronde il motivo per cui era tornato. Doveva risolvere vecchie questioni legate alla proprietà di poche fasce e della casa. Faccende senza alcun interesse per lui, ma che andavano ora sbrigate, possibilmente in fretta, se voleva davvero vendere tutto e andare via per sempre da quei luoghi. Nell'ultimo ufficio che gli toccò di visitare (ed era ormai quasi mezzogiorno) gli venne da sorridere al pensiero di sé stesso ordinatamente in fila in attesa di essere intrattenuto da un impiegato scorbutico, palesemente poco interessato al suo lavoro. Lui che per tutta la vita aveva evitato con la massima cura ogni contatto con quel mondo fatto di pratiche codificate, di moduli in triplice copia, di timbri e di lunghe, pazienti attese. Lui che, interrotti gli studi, se ne era andato per mare in cerca di una libertà impossibile intravista sui libri. Lui, capace di vivere di niente, pur di restare padrone di se stesso.

Uscito dall'ufficio, trovò ad attenderlo un traffico caotico ed un acre sapore di zolfo che prendeva alla gola. Il rumore e l'odore della strada, unitamente al caldo soffocante lo misero di cattivo umore, piegò allora verso la città vecchia attirato dall'invitante ombra dei vicoli. Svoltato l'angolo non si sentivano più i rumori del traffico, né il puzzo dei tubi di scappamento, ma solo odori di cibo, echi di conversazioni, scampoli di trasmissioni televisive che fuoriuscivano dalle finestre delle case e si riversavano in strada in un impasto di suoni e sensazioni che gli ricordavano altri luoghi. Posti dove aveva vissuto, dove lasciato una parte di se: i bicos di Alfama, i barrios di Barcellona, i vicoli del Panier proprio dietro al Vieux-Port di Marsiglia. Ancora una volta nei tranelli d'ombra dei carruggi, nel caos babelico delle voci e dei rumori, negli odori forti che lo circondavano sentiva recheggiare misterioso il richiamo archetipico del mare.

Vagava per la città senza una meta precisa. Lungo il viale alberato che portava alla spiaggia i tavolini dei caffè erano affollati di gente intenta al rito provinciale dell'aperitivo. Frotte di impiegati e di commesse sciamavano dagli uffici e dai negozi per la pausa di mezzogiorno. Dappertutto attorno a lui sentiva voci e risa. Una improbabile felicità collettiva lo circondava. In pochi minuti arrivò alla marina tappezzata di ombrelloni. Anche lì tanta folla. Sotto il sole cocente di agosto la spiaggia brulicava di gente. Famiglie intere entravano e uscivano dagli stabilimenti balneari. Sulla passeggiata un bambino correva ridendo dietro ad una tortorella grigia. Attorno ad una panchina un gruppo di giovanissimi discuteva animatamente.

Si fermò davanti ad un piccolo ristorante dall'aria elegante. All'ingresso un cavalletto da pittore sorreggeva un menù del giorno scritto con caratteri ricercati. Si mise con attenzione a leggere la lista dei piatti come lui e Giulia avevano fatto quella sera di tanti anni prima. Ricordava tutto benissimo. Giovani e squattrinati si erano fermati a lungo lì davanti, incerti se entrare o no, intimiditi dall'eleganza del locale. Era stato lui a rompere il ghiaccio, ostentando una sicurezza che non provava.
  • Entriamo? Il menù mi pare eccellente.
  • Vuoi davvero? - aveva chiesto lei, con una certa esitazione - mi sembra un po' troppo per noi. Se vuoi, possiamo cercare un posto più modesto.
  • Figurati. Per questa sera possiamo permettercelo. Entriamo.
Un vecchio cameriere li aveva fatti accomodare a un tavolo d'angolo elegantemente apparecchiato. Ora attendeva pazientemente le loro ordinazioni. Giulia scorreva il menù con l'entusiasmo di una bambina. Lui cercava di capire se gli sarebbe bastato il denaro che aveva in tasca.

La sala era piccola, con quadri alle pareti, separata dalla passeggiata da una grande vetrata. Dalla cucina provenivano le voci dei cuochi. Erano gli unici giovani lì dentro. Gli altri tavoli erano occupati da coppie di mezza età che mangiavano in silenzio senza guardarsi. Loro, invece, per tutta la sera non smisero un attimo di parlare, di ridere, di guardarsi negli occhi.
  • Noi non diventeremo così. - Aveva detto ad un tratto Giulia con voce d'improvviso divenuta seria.
  • No. - Aveva risposto lui - Noi non saremo mai come loro.
Seduto accanto alla vetrata, mangiava meccanicamente senza sentire il sapore del cibo, guardando le macchine parcheggiate e la gente che andava avanti e indietro sul marciapiede. Spiare brandelli di vita altrui e scrivere di sentimenti che non provava più: questo era ormai diventata la sua esistenza. Per questo aveva rinunciato a Giulia. Si sentiva logoro, svuotato. Come se fosse arrivato alla fine di un cammino iniziato tanti anni prima. Forse aveva ragione Paolo: era giunto anche per lui il momento di fermarsi.

Finì di mangiare. Si versò un ultimo bicchiere di vino. Poi chiese che gli portassero il conto.

Dall'altra parte della strada in un turbinio bianco di ali un vecchio gettava croste di pane ai gabbiani che frenetici gli svolazzavano intorno.

(continua)


martedì 24 dicembre 2013

Tra amici (Le illusioni d'Itaca, 3)



Non si può cancellare il passato. Terzo capitolo de Le illusioni d'Itaca.

3. Tra amici

Li sentì arrivare mentre, seduto al tavolo della cucina, stava sfogliando un suo vecchio libro di scuola, trovato di sopra in quella che una volta era stata la sua camera. Li aveva preannunciati l’abbaiare roco dei cani dai cortili delle case giù in basso.

Si alzò, accese la luce fuori, poi aprì la porta a scrutare nella notte, chiedendosi chi potesse a quell’ora venire su per il sentiero. Due uomini camminavano rapidi sul vialetto ghiaioso che dal cancello portava alla casa. Lo videro e si fermarono. Avvolti com’erano dal buio della notte, non li riconobbe subito.
  • Chi non muore si rivede - disse il più anziano dei due.
Poi, gli si avvicinò e lo abbracciò. Un abbraccio lungo, fraterno. Guancia contro guancia, petto contro petto. L'altro, un passo indietro, li guardava mentre un sorriso gli si disegnava lentamente sul viso.
  • Ciau, frae - disse a sua volta con la parlata strascicata di quelle parti - pensavamo tutti che fossi ancora all'estero. Quando Tugnin ha detto di averti visto in paese, non ci volevamo credere. Abbiamo pensato, e qualcuno glielo ha anche detto, che avesse bevuto un bicchiere di troppo. Stasera al caffè non si parlava d'altro. Ti saranno fischiate le orecchie.
Erano stati molto amici una volta e anche adesso, lo sentì subito, nonostante il tempo passato qualcosa di indefinibile li univa, li teneva legati. Forse il ricordo delle cose fatte insieme, la forza dei desideri di un tempo, dei sogni comuni di gioventù.
  • Non potevamo aspettare domani. - riprese il primo – No, non sarebbe stato bello. Volevamo vedere se davvero eri tornato. E poi, non eravamo sicuri che fossi proprio tu.
  • Ti fermerai un po’ questa volta, spero – disse l’altro.
  • No, non sono tornato per fermarmi. Starò qui il minimo indispensabile. Il tempo necessario a sbrigare alcune faccende.
  • Ma allora, perché tornare in paese? - e nella sua voce c’era un tono di delusione.
  • In effetti, avrei anche potuto fermarmi in città, in un albergo. Adesso ce ne sono di belli sulla costa. Ma prima volevo vedere che cosa ne era rimasto della casa. È da tanto tempo che ne manco.
  • Ma cosa dici, ma dove vuoi andare, dove corri? – riprese il primo - Non hai, .. non abbiamo, più vent'anni. Diglielo anche tu, Marcello, che è ormai arrivato il momento di fermarsi.
  • Paolo ha ragione, - disse l'altro - dovresti fermarti per un po'. Lo vedi: la casa è in ordine. Non ci staresti poi tanto male. E’ un posto tranquillo, lontano dalla confusione, dal rumore. Nessuno ti disturberebbe. Cosa puoi trovare di meglio per scrivere i tuoi libri?
  • Tra poco riaprirà la caccia. – riprese quello che si chiamava Paolo - Potremmo andarci insieme. Ti divertiresti. Come ai vecchi tempi.
  • Proprio come ai vecchi tempi - intervenne l’altro - Una bella battuta ai cinghiali. Ecco quello che ti ci vuole per rimetterti in sesto. Vedrai, ti piacerà. Dopo, non vorrai più ripartire.
  • Mi spiace, ma da tanto tempo non vado più a caccia. – la sua voce si era come intristita - E poi, come ho detto, sono di passaggio. Non posso proprio fermarmi. Anche se lo volessi. La mia vita è ormai altrove.
  • Allora una cena. Almeno questo. Ti andrebbe una cena? Una rimpatriata con i vecchi compagni di una volta. Sarebbero felici di rivederti. Ricordi quella volta che…
Quella cordialità lo soffocava, quasi lo infastidiva. Si sentiva come preso alla gola. Non voleva farsi coinvolgere nel gioco sottile dei sentimenti. Cercò di cambiare discorso.
  • E a voi come va?
  • Come vuoi che vada…
Davanti a una bottiglia di rossese parlarono un po' di tutto: dei tempi andati e del presente. Del paese che cambiava, del lavoro che non andava troppo bene, delle cose di tutti i giorni, degli affari di casa, delle mogli e dei figli. Lui, fissando pensieroso il bicchiere, li ascoltava. Poi quello che tutti e tre temevano, che avevano in ogni modo tentato fin dall'inizio di evitare, accadde e forse era inevitabile che andasse a finire così.
  • Pensa che l'altro giorno giù in città ho visto Giulia…
Un'espressione imbarazzata sul viso, Paolo si interruppe bruscamente, mentre dall'altra parte del tavolo Marcello fissava ostentatamente il soffitto. Fu lui a rompere il silenzio greve che si era creato nella cucina fumosa.
  • Non ti preoccupare, non c'è problema: sono cose vecchie. Lei come sta?
  • Adesso bene, ma agli inizi non è stato facile.
  • Non è mai facile, per nessuno.
  • Anche tu però. - intervenne Marcello - Andartene così all'improvviso e in quel modo. Dopo quello che c'era stato fra di voi. Dopo che lei aveva lasciato tutto per mettersi con te
  • Lascia perdere, sarebbe un discorso troppo lungo. E poi, a che servirebbe. Quello che è stato è stato. Non si può certo tornare indietro
Aveva sempre avuto difficoltà a parlare ad altri della sua vita. Una sorta di pudore, quasi di vergogna lo aveva sempre trattenuto. Il silenzio stagnava. Insopportabile. Fu di nuovo lui a riprendere il filo interrotto della conversazione.
  • Adesso cosa fa, lavora, si è sposata, ha figli?
Non sapeva neppure lui perché avesse fatto quelle domande. In fondo non gliene importava più molto. O almeno, così pensava. Ma attendeva quel si (che tardava ad arrivare) come una liberazione, come una assoluzione.
  • No, non ha figli e non è neppure sposata. Non so che vita faccia. Lo sai: a Giulia è sempre piaciuto fare la misteriosa. So solo che lavora in un bar giù in città vicino al porto e che ogni tanto la si vede in giro. Se vuoi, posso darti l'indirizzo del locale dove lavora.
  • No, non credo sia una buona idea.
  • No, forse hai ragione tu. Dopo tanto tempo è meglio lasciare le cose come stanno.
Si fece di nuovo silenzio. Poi la conversazione riprese sul terreno meno accidentato delle cose di ogni giorno. Erano tornati quelli di prima: tre vecchi compagni che si ritrovavano dopo un lungo distacco. Li guardava e li trovava invecchiati, così come loro (lo sapeva bene) stavano trovando invecchiato lui. Un cameratismo triste emanava dai loro discorsi, una malinconia sottile come il fumo azzurrino delle loro sigarette.
  • Ne apriamo un’altra? – domandò, indicando la bottiglia ormai vuota.
Prima di andare via, al momento dei saluti, insistettero di nuovo perché ci ripensasse, perché si fermasse ancora.
  • Siamo, amici, no?
  • Si, siamo amici - pensò.

(continua)

lunedì 23 dicembre 2013

L'esoterismo di Dante, 2. Beatrice e i Fedeli d'Amore

Dante Gabriele Rossetti, Beata Beatrix (1864)

























Seconda parte del saggio di francesco Lamendola sull'esoterismo di Dante.

Francesco Lamendola

L’esoterismo di Dante (seconda parte)

Leonardo Bruni, nella sua Vita di Dante (1436), lamenta la parsimonia del Boccaccio nel narrare la vita pubblica e politica di Dante e ironizza sulla loquace facondia con cui si è soffermato sugli amori fanciulleschi della Vita nova. Il Filelfo, sempre nel ‘400, come il Buti nega la fisicità di Beatrice e sembra piuttosto suggerire che sia un simbolo criptico, idea che sarà ripresa dal Rossetti. Tanto andava ricordato per evidenziare che non tutti i commentatori di Dante, e non subito, accettarono la storia di un amore di Dante per una donna ben precisa chiamata Beatrice, da lui vista la prima volta bimbo di nove anni e rivista, restandone per sempre folgorato, a diciotto.

Nel 1723 il canonico Anton Maria Biscioni, nei suoi “Studi danteschi”, torna a negare la fisicità di Beatrice e ne fa un simbolo di sapienza, paragonabile alla Sapienza di Salomone. Ma è Gabriele Rossetti, carbonaro e Rosacroce (1783-1854), letterato e padre dei poeti in lingua inglese Dante Gabriele e Christina, che per primo imposta in termini complessivi le problematiche relative a Beatrice e a tutto il Dolce Stil Novo, interpretandole in chiave allegorica. I suoi studi danteschi sono raccolti nel Commento analitico alla Divina Commedia del 1826-27, e nei Ragionamenti sulla Beatrice di Dante del 1842, ch’egli pubblicò a Londra ov’era esulato da Napoli in seguito alla repressione dei moti del 1821. In essi sostiene l’appartenenza di Dante a una setta segreta detta dei Fedeli d’Amore, il cui fine era una riforma radicale della Chiesa in senso ghibellino e antipapale. Ad essi si deve aggiungere Il mistero dell’Amor platonico nel Medioevo (5 voll., 1840) e ancora Sullo spirito antipapale che produsse la Riforma e sulla sua segreta influenza ch’esercitò nella letteratura d’Europa e specialmente d’Italia, come risulta da molti suoi classici, massime da Dante, Petrarca, Boccaccio (1823).



Rossetti vuol dimostrare che, al tempo di Dante, esisteva fra il popolo e fra le persone colte uno spirito antipapale largamente diffuso, e che non solo Dante, ma anche gli stilnovisti e, poi, Petrarca e Boccaccio condividevano in pieno tali sentimenti, sia pur in una prospettiva interna alla cristianità. Tuttavia la durezza con cui la Chiesa perseguitava i propri oppositori e ogni forma d’eresia, culminata nella crociata contro gli Albigesi del 1208-29 e negli eccidi condotti da Simone di Montfort, aveva indotto a una maggiore prudenza gli oppositori del papato. Di qui la necessità di un linguaggio criptico, allegorico e anagogico, che potesse venire inteso dagli affiliati ma il cui senso sfuggisse all’occhio vigile dell’Inquisizione. Insomma, Dante cercava, con la sua opera, di favorire un potente rinnovamento della chiesa cattolica ed era pertanto entrato a far parte di una setta, i “Fedeli d’Amore”, i cui seguaci fingevano di sospirare per delle donne angelicate (la Beatrice di Dante, la Laura di Petrarca, la Fiammetta di Boccaccio), che simboleggiavano i loro ideali politico-religiosi. Servendosi di un lessico particolare, detto “della Gaia Scienza”, e simulando l’amor platonico per altrettante donne, questi poeti (e i trovatori provenzali prima di loro), avevano fatto propria un’antichissima sapienza segreta, o meglio la tradizione di una sapienza occulta risalente agli antichi Egiziani e ai Greci e proseguita dai manichei, dai patarini e dai poeti siciliani della corte di Federico II.

Rossetti identifica quindi Beatrice con la filosofia e sostiene che Dante, nel suo poema, sotto la forma della dottrina cattolica esprime una filosofia essenzialmente pitagorica; e accentua al massimo, per la natura stessa della sua interpretazione di Dante, il valore di un’esegesi imperniata sull’allegoria fin nei singoli versi, parole e sillabe, non solo della Commedia ma della Vita nova (l’espressione “Fedeli d’Amore” ricorre più volte in quest’ultima, a partire dal sonetto “A ciascun’alma”, III, 10-12), esponendosi così alla critica di voler forzare il testo dantesco: e tuttavia supportando le proprie convinzioni con un bagaglio imponente di studi cui dedicò quasi l’intera sua vita.



Le idee del Rossetti sembrano morire con lui, nel 1854, sprofondando rapidamente nell’oblio, mentre nella seconda metà dell’Ottocento si moltiplicano i commenti alla Divina Commedia in chiave rigorosamente ortodossa, con relative cattedre di dantologia. Ma nel 1865 esce un libro di Francesco Paolo Perez, Beatrice svelata, che riprende molte tesi care all’interpretazione esoterica di Dante e, in particolare, l’interpretazione di Beatrice con la Sapienza Santa del libro salomonico. Oltre che letterato, il Perez è stato deputato, senatore, ministro del Regno d’Italia; pure, nemmeno la sua autorevole figura di studioso riesce ad aprire una breccia negli ambienti dantisti tradizionali.

Tale tentativo è ripreso, con sommo vigore, da Giovanni Pascoli, che pubblica nel 1898 Minerva Oscura, nel 1900 Sotto il velame e nel 1902 La mirabile visione, un vasto tentativo esegetico dell’opera di Dante dal quale il poeta romagnolo si aspettava riconoscimenti che non arrivarono e al quale aveva atteso con la massima serietà, ripromettendosene gloria imperitura. “Ti assicuro – scriveva a un amico giornalista – che il mio libro spiega i misteri della Divina Commedia, per la prima volta, dopo seicento anni!”. Ma la cultura ufficiale non accolse bene il lavoro del Pascoli e, pur tributandogli larghi riconoscimenti per la sua poesia in lingua italiana e latina, lasciò cadere nel silenzio la sua esegesi dantesca.



Un discepolo del Pascoli, Luigi Valli, volle ritentare l’ardua fatica. Nato a Roma nel 1878, morto a Terni nel 1931, professore di filosofia nei licei, Valli riprende la lettura esoterica dell’opera di Dante che era iniziata col Foscolo e culminata nel Rossetti, nel Perez e nel Pascoli, peraltro non più in chiave eterodossa, neopitagorica e ghibellina, come i suoi predecessori, ma anzi “supercattolica”. Nelle sue ampie e minuziose opere, L’allegoria di Dante secondo Giovanni Pascoli (1922), Il segreto della Croce e dell’Aquila nella Divina Commedia (1922), La chiave della Divina Commedia (1925), Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore (2 voll., 1928-30), La struttura morale dell’universo dantesco (1935, postuma), riprende la tesi dell’appartenenza di Dante alla setta dei Fedeli d’Amore; la natura puramente simbolica di Beatrice, rappresentante la Sapienza mistica del “Cantico dei Cantici”; la funzione salvifica concomitante della Croce (= Chiesa) e dell’Aquila (= Impero) nei due campi della vita attiva, presieduta dalla giustizia, e di quella spirituale e contemplativa, di cui è scopo appunto la sapienza santa.

Duramente contrastate da un coro di critiche degli ambienti accademici e “ufficiali”, e particolarmente da Natalino Sapegno, le tesi del Valli non ebbero miglior fortuna di quelle del suo maestro. Contribuì forse a ciò l’atmosfera mistico-irrazionalistica della visione filosofica generale del Valli, su cui si esprime con appena dissimulata antipatia il giudizio di Eugenio Garin, che lo accomuna al pensatore anarchico Max Stirner e al “fondatore” del nazionalismo italiano Enrico Corradini, in un terzetto stranamente assortito. E tuttavia al Valli si deve il merito di una più rigorosa collocazione storica di tutta la problematica relativa all’esoterismo di Dante. “La questione dei Fedeli d’Amore – afferma lo studioso romano – non s’inquadra nel suo spirito fra le cortesie feudali e i canti di calendimaggio. Si deve inquadrare fra la strage degli Albigesi e quella dei Templari.” (Il linguaggio segreto ecc., p.147). Vedremo fra breve che l’interpretazione “templare” di Dante ha avuto poi, e conserva ancor oggi, non poco interesse fra gli esegeti eterodossi del divino poema.

Le tesi del Valli sono state, a loro volta, riprese con forza da Mario Alessandrini, convinto sostenitore dell’appartenenza di Dante alla setta segreta dei Fedeli d’Amore insieme a tutti gli altri stilnovisti e, poi, a Petrarca e Boccaccio (che avrebbe a bella posta volgarizzato l’identificazione di Beatrice con Bice Portinari, per meglio fuorviare l’Inquisizione). L’Alessandrini ha esposto le conclusioni della sua ricerca in due opere significative ma, anch’esse, passate sotto silenzio dalla critica accademica: Cecco d’Ascoli del 1955 e Dante fedele d’Amore del 1960, in cui ricapitola efficacemente l’intera questione.



Fra gli studiosi stranieri del ‘900, bisogna a questo punto fare il nome di un grande esperto di filosofia orientale ed esoterica, quello del francese Réné Guénon (1886-1951), che accanto a opere fondamentali quali Il Re del Mondo, La Grande Triade, Simboli della Scienza sacra, ha dedicato alle questioni che qui ci interessano un sintetico ma efficacissimo saggio, L’esoterismo di Dante, pubblicato per la prima volta nel 1925. Guénon accentua l’interpretazione allegorica e anagogica di Dante, mettendola in relazione con diverse tradizioni esoteriche e, in particolare, col templarismo. Egli ricorda che il Museo di Vienna [o piuttosto di Vienne, in Francia?] custodisce due medaglie: una raffigura Dante, l’altra il pittore Pietro da Pisa; sul rovescio di entrambe sono incise le lettere F.S.K.I.P.F.T., che egli interpreta come Fidei Sanctae Kadosch, Imperialis Principatus, Frater Templarius. Dante, secondo lui, era probabilmente uno dei vertici della società segreta della Fede Santa (equivalente ai Fedeli d’Amore del Valli), un Ordine Terziario di affiliazione templare, i cui dignitari portavano l’appellativo di “Kadosch”, parola ebraica che significa “santo” o “consacrato” (e conservata ancor oggi negli alti gradi della Massoneria). Non a caso, per Guénon, Dante prende, come guida finale nel “Paradiso”, San Bernardo di Chiaravalle: colui che era stato l’ispiratore della Regola dei Templari.

Pagine affascinanti scrive inoltre il Guénon a proposito della cronologia del viaggio ultraterreno di Dante, nel capitolo “I cicli cosmici”, che non possiamo qui esporre in dettaglio per la loro estrema complessità astronomica e matematica. In esse egli sostiene che la data del viaggio descritto nella Commedia, il 1300, si colloca nel “grande anno” (a metà di un ciclo completo della precessione degli equinozi), ossia il tempo che gli antichi consideravano come equidistante fra due successivi rinnovamenti del mondo. E prosegue: “Situarsi al centro del ciclo vuol dire dunque situarsi nel (…) luogo divino in cui – come dicono i musulmani – si conciliano i contrasti e le antinomie; è il centro della ruota delle cose, secondo l’espressione indù, o l’invariabile centro della tradizione estremo-orientale, il punto fisso intorno al quale si compie la rotazione delle sfere, la mutazione perpetua del mondo manifestato. Il viaggio di Dante si compie secondo l’asse spirituale del mondo; soltanto di là, in effetti, si possono vedere tutte le cose in modo permanente, in quanto siamo anche noi sottratti al cambiamento, e averne di conseguenza una visione sintetica e totale”.

Anche l’inglese Robert L. John, col suo Dante templare (1987), propone una nuova interpretazione della Divina Commedia, sostenendo comunque l’ortodossia del poeta fiorentino, sia pure in chiave fieramente antipapale (cioè antitemporalista). Il John riprende la tesi del Rossetti e del Valli sulla setta dei “Fedeli d’Amore” e quella di Guénon sul templarismo di Dante, e compie il passo ulteriore, sintetizzando le due linee interpretative: per lui i “Fedeli d’Amore” altri non erano che i Templari perseguitati e costretti, dopo i sanguinosi processi del 1307-12 voluti dal re di Francia Filippo il Bello, a raddoppiare di prudenza nelle loro parole e nei loro scritti, ricorrendo a un simbolismo sempre più spinto.

(continua)

(Da: www.centrostudilaruna.it/)

Nel vecchio borgo (Le illusioni d'Itaca, 2)

Un uomo in fuga da se stesso in un borgo ligure abitato solo più da vecchi e da ricordi che non passano. Secondo capitolo de "Le illusioni d'Itaca".

2. Nel vecchio borgo

Scese in paese che era già pomeriggio avanzato. Non sapeva neppure lui perché avesse preso quella decisione. In realtà nulla lo costringeva a farlo, i suoi affari lo portavano piuttosto verso la città sulla costa. Ma all’improvviso, mentre girava per la casa osservando vecchi oggetti che un tempo gli erano state familiari, lo aveva preso fortissimo il desiderio di visitare ancora una volta quei luoghi che l’avevano visto bambino. Senza pensarci si era trovato fuori di casa, di nuovo sul sentiero assolato, immerso nel frinire ossessivo delle cicale.

A "ciassa grande", il parcheggio costruito proprio sotto le vecchie mura del borgo, rigurgitava come sempre di macchine. Molte erano degli olandesi che da qualche anno stavano sistematicamente, un casolare dopo l'altro, una frazione dopo l'altra, colonizzando quel lembo sperduto di Liguria. Erano partiti timidamente, quasi di soppiatto, ad acquistare per pochi soldi cascinali isolati, vecchi fienili, persino squinternati seccatoi per le castagne. Alla gente del posto non era parso vero di liberarsi di vecchie catapecchie abbandonate, covi di serpi, vestigia di un'antica miseria che ancora bruciava nel ricordo di molti. Ed ora che frazioni intere si erano trasformate in villaggi telematici, come con triste neologismo scrivevano i giornali, selve di paraboliche e grappoli di piscine, qualcuno al bar della piazza incominciava a dire sottovoce che forse non era stato poi un così grande affare.

Appoggiati al parapetto, che dava sulla vallata, un gruppo di vecchi guardava con sguardo immobile il via vai incessante di camion sul grande viadotto grigio dell'autostrada che si ergeva altissimo a scavalcare la valle proprio nel luogo dove da bambino egli accompagnava il padre alla posta dei colombacci. Una selva di condomini era arrivata fin là, ove una volta, ben occultati nel verde delle fasce, sorgevano i capanni di frasche dei cacciatori. Gli parve di risentire ancora la voce di sua madre china su di lui al momento del risveglio:
  • Alzati, è ora. Non far tardi. Tuo padre è già pronto.
E poi, dopo una rapida colazione, con gli occhi ancora pieni di sonno, giù per il sentiero nel frescore del mattino. E ancora avanti lungo lo stradone di fondovalle fino alla grande curva dove ora si ergevano i giganteschi piloni del viadotto. Da lì partiva il sentiero che, dopo aver tagliato per i campi, si arrampicava poi su per la collina solcata di fasce. Un salire senza soste, senza fermarsi mai, col fiato sempre più corto, sino alla sommità da dove si vedeva quel mare luccicante sotto il sole da cui sarebbero spuntati più tardi gli uccelli migratori. E infine la lunga attesa: il padre in un angolo a fumare con accanto il fucile ben oliato e un poco discosto lui intento ai suoi giochi di bimbo. Poveri giochi: due legnetti e qualche pietra. Non era mai riuscito a cancellare il ricordo di quelle frescure mattutine, il rumore degli spari, l’odore dolciastro della cordite, il sapore del pane e del salame mangiati nel capanno, l’aspro gusto del vino chiaro bevuto a piccoli sorsi dalla borraccia del padre. Anche in quel momento, dopo che una vita intera era passata, sentiva riprenderlo l’eccitazione infantile di quelle giornate alla caccia.

Tugnin fu il primo ad accorgersi di lui:
  • Oh là, bell'uomo, non vi avevo riconosciuto. Cosa fate da queste parti? Da lontano vi avevo preso per un foresto. Purtroppo non ho più gli occhi di una volta. Eh, gli anni passano.
Rispose con poche parole di circostanza e poi, a sciogliere l'imbarazzo, con una battuta in dialetto sull’inesorabile trascorrere del tempo, sulla vita che lentamente scorre via.
  • A l'è cuscì. - Disse uno dei vecchi e gli altri risero quasi ad esorcizzare l’idea della morte che ormai da tempo li aveva afferrati e non li abbandonava.
  • Bona. - Salutò e si avviò verso la porta che, come una antica ferita, rompeva la monotonia delle mura del borgo.
Alle sue spalle Tugnin spiegava pazientemente ai compagni chi fosse quello straniero, da dove venisse, chi erano stati i suoi vecchi. Poche parole, ma bastanti agli altri per collocarlo nel loro tempo e in quello spazio, per conferirgli un nome e un’identità riconoscibili, per inserirlo di nuovo in quel mondo arcaico da cui si era un giorno separato.
  • U l’è u fiu du Batista di Ciei. U scritù, quellu che u vive in Fransa.

Saliva per il vicolo che portava alla chiesa (si chiamava "u carruggiu du ventu") e intanto pensava al suo paese, a come era cambiato, a come era restato sempre uguale. Un pugno di case abbarbicate alla roccia. Edifici grigi, dai vecchi muri fatti di pietre screpolate. Case che parevano dormire un sonno senza fine. Un borgo silenzioso, abitato solo più da vecchi e dal vento. Stretto attorno alla sua chiesa come le dita di un pugno chiuso. Eppure, una volta, anche quelle antiche pietre avevano conosciuto un loro splendore. Allora il borgo era stato importante e dai paesi vicini lungo le mulattiere mercanti e contadini erano venuti nei giorni di fiera ad affollare le sue piazzette, a vendere e a comprare. Da lì partiva la vecchia strada del sale che al passo scavalcava la montagna diretta alla grande pianura al di là della linea azzurrina dei monti, verso terre lontane che pochi avevano visto davvero. Tempi finiti da un pezzo di cui restava qualche sbiadita traccia qua e là: un pezzo di intonaco sbrecciato, la ringhiera di ferro battuto di un poggiolo, un portale d'ardesia, gli affreschi smangiati dall'umidità della chiesa.

Non sapeva neppure lui cosa stesse cercando mentre uno dopo l'altro gli si paravano dinnanzi i luoghi della sua infanzia: il pozzo coperto a fianco della chiesa, i lavatoi vicino alla fontana con l'iscrizione corrosa che ricordava come l'opera fosse stata il munifico dono degli antichi signori del luogo alla comunità, la piazzetta dell'oratorio ormai senza più grida di bimbi, il vicolo del forno. Naturalmente, anche il forno non c'era più. Sparito come le altre bottegucce del paese, soppiantato dal trionfante centro commerciale che sette giorni su sette (domeniche comprese) celebrava i suoi riti di massa appena fuori dal borgo, sulla strada provinciale che portava alla costa.

All'improvviso si trovò fuori dell'abitato, sul versante nord che dava verso la montagna. Sulla piazzetta antistante quella che da tempo immemorabile tutti in paese chiamavano "Porta Tramontana" poche auto e un paio di panchine solitarie dalla vernice scrostata. Si sentiva stanco, come chi avesse percorso un lungo cammino. Avvertiva il peso degli anni e delle memorie. Si sedette a riposare all'ombra dei vecchi tigli.

Quietamente il sole calava ad Occidente mentre il volo dei pipistrelli annunciava l'arrivo della sera. Da una finestra aperta in alto sulle mura gli giungeva attutito il suono di una chitarra. Ritmico lamento per amori perduti, storie finite, nuove solitudini. Quel suono risvegliava in lui antichi echi. Aveva sempre pensato al suo paese come ad un mondo immobile, un universo claustrofobico al cui interno non esisteva possibilità di salvezza. Ripetizione stanca di atti primordiali, il quotidiano vivere in quell'antico borgo aveva ben presto assunto per lui la fissità della pietra, l'immutabilità raggelante delle cose morte. Un mondo apparentemente senza speranza. Uno spazio chiuso, aperto solo verso il mare. E verso il mare lui, appena aveva potuto, era fuggito. Prima ad accoglierlo era stata la città sulla costa. Suoni, luci e vita che lo avevano attirato con una forza irresistibile. Poi la vicina Francia col suo atavico richiamo. Mentone, Nizza, Marsiglia: luoghi dove perdersi e ritrovarsi. Luoghi del desiderio e del sogno diventati ora con gli anni luoghi della memoria.

Riprese la strada di casa, questa volta per la "strada dei morti", il sentiero a settentrione che costeggiava il piccolo camposanto invaso dalle erbacce. Mentre saliva con le prime ombre del crepuscolo, sentiva le foglie secche scricchiolare sotto le sue scarpe e di nuovo la tristezza invadere il suo cuore. E intanto pensava che aveva ragione chi aveva detto che il male non è spettacolare ed è sempre umano. Quella terra stava a dimostrarlo. Una terra aspra che testimoniava del secolare rapporto d'amore e d'odio con l'uomo, di una feroce fatica del vivere che neppure la morte riusciva davvero a pacificare. Una terra di uomini silenziosi, schiacciati fra mare e monti, aggrappati a quelle fasce sassose come a una speranza. Una terra avara, del colore grigio della pietra e degli ulivi, di una natura arcigna, restia a concedersi, ma di una bellezza tanto crudele quanto incomprensibile. Terra di confine, la sua terra.

Pensava a questo mentre lentamente saliva verso la sua casa e il mare lontano era diventato ormai una macchia scura dietro la linea d'ombra delle colline.

(continua)