Un uomo in fuga da se stesso in un borgo ligure abitato solo più da vecchi e da ricordi che non passano. Secondo capitolo de "Le illusioni d'Itaca".
2. Nel vecchio borgo
Scese in paese che era
già pomeriggio avanzato. Non sapeva neppure lui perché avesse preso
quella decisione. In realtà nulla lo costringeva a farlo, i suoi
affari lo portavano piuttosto verso la città sulla costa. Ma
all’improvviso, mentre girava per la casa osservando vecchi oggetti
che un tempo gli erano state familiari, lo aveva preso fortissimo il
desiderio di visitare ancora una volta quei luoghi che l’avevano
visto bambino. Senza pensarci si era trovato fuori di casa, di nuovo
sul sentiero assolato, immerso nel frinire ossessivo delle cicale.
A "ciassa
grande", il parcheggio costruito proprio sotto le vecchie
mura del borgo, rigurgitava come sempre di macchine. Molte erano
degli olandesi che da qualche anno stavano sistematicamente, un
casolare dopo l'altro, una frazione dopo l'altra, colonizzando quel
lembo sperduto di Liguria. Erano partiti timidamente, quasi di
soppiatto, ad acquistare per pochi soldi cascinali isolati, vecchi
fienili, persino squinternati seccatoi per le castagne. Alla gente
del posto non era parso vero di liberarsi di vecchie catapecchie
abbandonate, covi di serpi, vestigia di un'antica miseria che ancora
bruciava nel ricordo di molti. Ed ora che frazioni intere si erano
trasformate in villaggi telematici, come con triste neologismo
scrivevano i giornali, selve di paraboliche e grappoli di piscine,
qualcuno al bar della piazza incominciava a dire sottovoce che forse
non era stato poi un così grande affare.
Appoggiati al parapetto,
che dava sulla vallata, un gruppo di vecchi guardava con sguardo
immobile il via vai incessante di camion sul grande viadotto grigio
dell'autostrada che si ergeva altissimo a scavalcare la valle proprio
nel luogo dove da bambino egli accompagnava il padre alla posta dei
colombacci. Una selva di condomini era arrivata fin là, ove una
volta, ben occultati nel verde delle fasce, sorgevano i capanni di
frasche dei cacciatori. Gli parve di risentire ancora la voce di sua
madre china su di lui al momento del risveglio:
- Alzati, è ora. Non far tardi. Tuo padre è già pronto.
E poi, dopo una rapida
colazione, con gli occhi ancora pieni di sonno, giù per il sentiero
nel frescore del mattino. E ancora avanti lungo lo stradone di
fondovalle fino alla grande curva dove ora si ergevano i giganteschi
piloni del viadotto. Da lì partiva il sentiero che, dopo aver
tagliato per i campi, si arrampicava poi su per la collina solcata di
fasce. Un salire senza soste, senza fermarsi mai, col fiato sempre
più corto, sino alla sommità da dove si vedeva quel mare luccicante
sotto il sole da cui sarebbero spuntati più tardi gli uccelli
migratori. E infine la lunga attesa: il padre in un angolo a fumare
con accanto il fucile ben oliato e un poco discosto lui intento ai
suoi giochi di bimbo. Poveri giochi: due legnetti e qualche pietra.
Non era mai riuscito a cancellare il ricordo di quelle frescure
mattutine, il rumore degli spari, l’odore dolciastro della cordite,
il sapore del pane e del salame mangiati nel capanno, l’aspro gusto
del vino chiaro bevuto a piccoli sorsi dalla borraccia del padre.
Anche in quel momento, dopo che una vita intera era passata, sentiva
riprenderlo l’eccitazione infantile di quelle giornate alla caccia.
Tugnin fu il primo ad
accorgersi di lui:
- Oh là, bell'uomo, non vi avevo riconosciuto. Cosa fate da queste parti? Da lontano vi avevo preso per un foresto. Purtroppo non ho più gli occhi di una volta. Eh, gli anni passano.
Rispose con poche parole
di circostanza e poi, a sciogliere l'imbarazzo, con una battuta in
dialetto sull’inesorabile trascorrere del tempo, sulla vita che
lentamente scorre via.
- A l'è cuscì. - Disse uno dei vecchi e gli altri risero quasi ad esorcizzare l’idea della morte che ormai da tempo li aveva afferrati e non li abbandonava.
- Bona. - Salutò e si avviò verso la porta che, come una antica ferita, rompeva la monotonia delle mura del borgo.
Alle sue spalle Tugnin
spiegava pazientemente ai compagni chi fosse quello straniero, da
dove venisse, chi erano stati i suoi vecchi. Poche parole, ma
bastanti agli altri per collocarlo nel loro tempo e in quello spazio,
per conferirgli un nome e un’identità riconoscibili, per inserirlo
di nuovo in quel mondo arcaico da cui si era un giorno separato.
- U l’è u fiu du Batista di Ciei. U scritù, quellu che u vive in Fransa.
Saliva per il vicolo che
portava alla chiesa (si chiamava "u carruggiu du ventu")
e intanto pensava al suo paese, a come era cambiato, a come era
restato sempre uguale. Un pugno di case abbarbicate alla roccia.
Edifici grigi, dai vecchi muri fatti di pietre screpolate. Case che
parevano dormire un sonno senza fine. Un borgo silenzioso, abitato
solo più da vecchi e dal vento. Stretto attorno alla sua chiesa come
le dita di un pugno chiuso. Eppure, una volta, anche quelle antiche
pietre avevano conosciuto un loro splendore. Allora il borgo era
stato importante e dai paesi vicini lungo le mulattiere mercanti e
contadini erano venuti nei giorni di fiera ad affollare le sue
piazzette, a vendere e a comprare. Da lì partiva la vecchia strada
del sale che al passo scavalcava la montagna diretta alla grande
pianura al di là della linea azzurrina dei monti, verso terre
lontane che pochi avevano visto davvero. Tempi finiti da un pezzo di
cui restava qualche sbiadita traccia qua e là: un pezzo di intonaco
sbrecciato, la ringhiera di ferro battuto di un poggiolo, un portale
d'ardesia, gli affreschi smangiati dall'umidità della chiesa.
Non sapeva neppure lui
cosa stesse cercando mentre uno dopo l'altro gli si paravano dinnanzi
i luoghi della sua infanzia: il pozzo coperto a fianco della chiesa,
i lavatoi vicino alla fontana con l'iscrizione corrosa che ricordava
come l'opera fosse stata il munifico dono degli antichi signori del
luogo alla comunità, la piazzetta dell'oratorio ormai senza più
grida di bimbi, il vicolo del forno. Naturalmente, anche il forno non
c'era più. Sparito come le altre bottegucce del paese, soppiantato
dal trionfante centro commerciale che sette giorni su sette
(domeniche comprese) celebrava i suoi riti di massa appena fuori dal
borgo, sulla strada provinciale che portava alla costa.
All'improvviso si trovò
fuori dell'abitato, sul versante nord che dava verso la montagna.
Sulla piazzetta antistante quella che da tempo immemorabile tutti in
paese chiamavano "Porta Tramontana" poche auto e un paio di
panchine solitarie dalla vernice scrostata. Si sentiva stanco, come
chi avesse percorso un lungo cammino. Avvertiva il peso degli anni e
delle memorie. Si sedette a riposare all'ombra dei vecchi tigli.
Quietamente il sole
calava ad Occidente mentre il volo dei pipistrelli annunciava
l'arrivo della sera. Da una finestra aperta in alto sulle mura gli
giungeva attutito il suono di una chitarra. Ritmico lamento per amori
perduti, storie finite, nuove solitudini. Quel suono risvegliava in
lui antichi echi. Aveva sempre pensato al suo paese come ad un mondo
immobile, un universo claustrofobico al cui interno non esisteva
possibilità di salvezza. Ripetizione stanca di atti primordiali, il
quotidiano vivere in quell'antico borgo aveva ben presto assunto per
lui la fissità della pietra, l'immutabilità raggelante delle cose
morte. Un mondo apparentemente senza speranza. Uno spazio chiuso,
aperto solo verso il mare. E verso il mare lui, appena aveva potuto,
era fuggito. Prima ad accoglierlo era stata la città sulla costa.
Suoni, luci e vita che lo avevano attirato con una forza
irresistibile. Poi la vicina Francia col suo atavico richiamo.
Mentone, Nizza, Marsiglia: luoghi dove perdersi e ritrovarsi. Luoghi
del desiderio e del sogno diventati ora con gli anni luoghi della
memoria.
Riprese la strada di
casa, questa volta per la "strada dei morti", il sentiero a
settentrione che costeggiava il piccolo camposanto invaso dalle
erbacce. Mentre saliva con le prime ombre del crepuscolo, sentiva le
foglie secche scricchiolare sotto le sue scarpe e di nuovo la
tristezza invadere il suo cuore. E intanto pensava che aveva ragione
chi aveva detto che il male non è spettacolare ed è sempre umano.
Quella terra stava a dimostrarlo. Una terra aspra che testimoniava
del secolare rapporto d'amore e d'odio con l'uomo, di una feroce
fatica del vivere che neppure la morte riusciva davvero a
pacificare. Una terra di uomini silenziosi, schiacciati fra mare e
monti, aggrappati a quelle fasce sassose come a una speranza. Una
terra avara, del colore grigio della pietra e degli ulivi, di una
natura arcigna, restia a concedersi, ma di una bellezza tanto crudele
quanto incomprensibile. Terra di confine, la sua terra.
Pensava a questo mentre
lentamente saliva verso la sua casa e il mare lontano era diventato
ormai una macchia scura dietro la linea d'ombra delle colline.
(continua)