“Dio creò l'uomo a
sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li
creò.” Genesi 1,26-28. L'incontro generante del seme maschile
con il liquido femminile assumerà fin dai primordi dell'umanità
valenze mitiche, filosofiche e religiose, fino a divenire il cuore
simbolico delle pratiche alchemiche.
Raffaele K. Salinari
Masculin/Feminin
Il Mediterraneo,
«intriso di sangue e di sperma», come lo definisce
nei suoi Dialoghi con Leucò Cesare Pavese,
rimanda immediatamente all’idea generativa
di entrambi questi liquidi, uno di origine femminile,
il sangue mestruale, l’altro maschile: lo sperma.
Ascendente mitico
e cosmologico di questa relazione
è certamente la nascita di Venere, che viene creata
dallo sperma di Urano evirato da Giove. Il suo stesso nome,
Afrodite, deriva infatti da afros che significa
sia spuma del mare che liquido seminale; Afrodite è, per
questo, anadiomenon, rinasce cioè
continuamente dalle bianche spume del mare;
Esiodo nella sua Teogonia (vv. 188–90) dice:
«Attorno alla bianca schiuma dell’immortale membro
trasportato verso il largo, per tanto tempo (poulùn
chrónon), una fanciulla crebbe».
Sperma e anima
E dunque la
relazione tra il liquido seminale e la sua funzione
riproduttiva è evenienza arcaica, prelogica,
favolosa, immagine fondante di una evidenza
scientifica che si affermerà solo dopo due millenni
con lo studio dell’embriologia moderna passando
attraverso i pregiudizi religiosi del
cattolicesimo e le svariate funzioni
che a questo «sangue purissimo», come lo
definisce Dante, furono attribuite nel corso dei
secoli.
Per rendere l’idea
della disputa dottrinale attorno alla funzione dello
sperma nell’atto della riproduzione basti dire che, in
pieno XVIII secolo, cento anni dopo Galileo, le lenti dei primi
microscopi che già indagavano gli spermatozoi
— erano infatti stati scoperti nel 1677 dall’olandese
Antonie Van Leeuwenhoek — si discuteva
ancora se l’anima di ogni nuovo essere umano fosse già stata
creata, se esistesse cioè dall’inizio dei tempi per poter poi
scendere all’interno di ogni corpo al momento stesso del
concepimento, o fosse di volta in volta emanata
da Dio e solo dopo infusa in ogni feto: «Prima si costruisce
la casa, poi ci si abita», dice Sant’Agostino (354–430); in
questo caso aprendo una ulteriore questione di non
poco momento ed ancora attualissima: a che punto dello
sviluppo embrionale questo avviene?
Ancor prima, gli
scienziati del Siglo de Oro, allora strettamente
sottoposti ai diktat dell’Inquisizione, si
dividevano tra il Santo di Ippona che pur convinto
della seconda ipotesi ammetteva candidamente:
«Ignoro quando incipiat homo in utero vivere», e l’idea
creazionista di Origene di Alessandria
(185–254), amatissimo e citatissimo da
Borges per il principio della moltitudine
dei mondi, che sosteneva invece come Dio avesse creato tutto
l’universo e tutti gli universi possibili dal
e per l’eternità e dunque anche le molteplici
anime che poi avrebbero abbracciato i loro corpi
futuri.
L’idea del grande
direttore del Didaskaleion alessandrino
di una divinità che, oramai separata dalla sua
Creazione, lasciava ai viventi il libero arbitrio, si
scontrava così con quella agostiniana sostenitrice
della posizione che Dio continuasse a creare il
mondo ogni momento, intervenendo in ogni singolo
istante nelle cose del Creato per insufflare una nuova anima nei
corpi, ma solo al momento da Lui ritenuto opportuno: al
quarantesimo giorno per i maschi ed al
novantesimo per le femmine? Si chiedono i medici
dell’epoca. Il mistero della vita doveva comunque permanere
poiché «Ut non inveniat homo opus quod operatus
est deus» dice ancora il Dottore della Chiesa.
Quest’ultima ipotesi
aveva delle conseguenze capitali, ad esempio, sul
trattamento ostetrico, dato che solo nel momento in
cui l’anima entrava nel corpo esso veniva considerato
completo e dunque degno di protezione e di
cura. La disputa investiva così il ruolo del liquido seminale
per un suo supposto ruolo di «potenza in atto» poiché
poteva forse racchiudere in sé tutto l’insieme della
nuova creatura, sia il suo corpo che la sua anima. Ironia
del destino, Origene, si dice per poter insegnare anche ad
allieve donne senza destare dicerie, o per altri motivi
a noi sconosciuti, pare si evirasse,
escludendosi in questo modo da quella creazione
di cui tanto aveva discettato nel suo De Principiis.
Le origini:
Aristotele e Galeno
Noi risaliremo
allora il filo del tempo sino all’antichità pre
e protocristiana, per confrontarci in
primis con colui il quale ha trattato compiutamente
dello sperma sia dal punto di vista filosofico che
empirico: l’immancabile Aristotele. A questo
specialissimo «distillato del sangue» lo
Stagirita rivolse il suo acuto spirito di
osservazione. Oltre ad individuare la lunghezza
ottimale del pene in erezione, dai dieci ai venti
centimetri durante l’eiaculazione per non
raffreddare troppo lo sperma o, al contrario,
surriscaldarlo, rendendolo così in entrambi
i casi inefficiente, e a decretare il numero
massimo delle sue emissioni, sette, per le sette cavità
uterine atte a ricevere il feto, Aristotele
aveva anche elaborato una serie di osservazioni
sulla sua funzione riproduttiva.
L’evidenza empirica
che un nuovo essere traesse origine da un altro della stessa
specie rispondeva ad un principio generale
della sua Metafisica per cui, nel suo De
generatione et corruptione, sostiene che tutte le
cose tendono alla loro conservazione: «Poiché
in tutte le cose la natura desidera sempre il meglio,
e l’essere è meglio del non essere… e poiché
è impossibile che questo possa verificarsi
in ogni cosa, per il fatto di trovarsi troppo lontano dal
suo principio, in altro modo Dio ha recato a compimento
questo desiderio, disponendo che la generazione
sia continua».
A partire da questo
postulato Aristotele arriva nel De
anima a sostenere: «La cosa più naturale, negli
essere perfetti e non mutilati… è di fare
un’altra cosa simile a se stessi… per poter partecipare
quanto possono di ciò che è immortale e divino».
L’affermazione aristotelica che un principio
divino è racchiuso nello sperma come «seme umano» è alla
base di quella concezione finalistica del mondo,
assunta anche dagli Stoici, che domina la fisica e la medicina
antiche in contrapposizione al
meccanicismo democriteo.
A questo punto
dobbiamo dare un occhio all’anatomia antica degli apparati
riproduttivi per dire che, secondo Aristotele,
i testicoli non erano il luogo deputato alla
produzione dello sperma essedo, secondo lui, solo dei pesi
che servivano a mantenere in tensione
i condotti seminali, «come quelli dei telai fanno con
la tela».
Checché ne
pensasse lo Stagirita, Galeno (129–199) era invece
convinto che i testicoli fossero gli organi di
produzione del liquido seminale. Il medico di
Pergamo, nelle sue osservazioni, aggiunge nel De
semine il particolare di un liquido «intermedio
tra lo sperma e l’acqua del sudore, che il maschio avverte
talora distillare al contatto della femmina, e la
femmina al contatto del maschio». Il pergamese,
ripreso quasi un millennio dopo da Avicenna, si
riferisce al liquido prostatico nell’uomo ed
a quello prodotto dalle ghiandole del Bartolino
nella donna.
Egli ci informa che
questo liquido maschile è prodotto da un organo che,
essedo posto più innanzi degli altri venne chiamata da
Erofilo, prostate. Per Galeno la funzione del
liquido prostatico è triplice: oltre che ad
eccitare il coito, suscita il piacere e lubrifica
il canale urinario, attraverso il quale avviene così
una eiaculazione più efficiente.
Questa necessità
di un fiotto ben diretto e sotto giusta pressione,
dice Galeno, era dovuta all’idea che la matrice durante il coito si
aprisse per ricevere lo sperma e poi si chiudesse per
non lasciarlo uscire: «Al momento del coito la matrice si spinge
verso l’orifizio della vulva, quasi si faccia innanzi mossa
dal desiderio di attrarre a sé lo sperma… il collo
della matrice, infatti, è di carne muscolosa, quasi fosse
cartilagineo, e vi sono rughe l’una sopra
l’altra… in esso vi è un condotto opposto
all’orifizio esterno della vulva: per mezzo di quello deglutisce
lo sperma».
Da parte di ricercatori
che, sprovvisti di ogni mezzo strumentale,
scorgevano solo ciò che la dissezione metteva
loro sotto gli occhi, non si possono pretendere
ipotesi fisiologiche più definite; se poi
le paragoniamo a quelle di derivazione
strettamente aristotelica, la scuola di
Galeno segna un indubbio passo avanti. Vedremo in seguito come,
per questo medico dell’antichità, esistesse anche uno
«sperma muliebre», con funzioni importanti nella
riproduzione.
Per Galeno infine, come
per Abu Bakr Mohammad Ibn Zakariya al-Razi (865–930), il
liquido seminale aveva anche un ruolo nell’erezione,
stimolata, oltre che dalle «ventosità forti,
recate nei corpi cavernosi dallo spirito desiderativo
grossolano», dalla «mordacità» dello sperma
sui canali seminali.
Seme virile, seme
muliebre
Oramai radicata
la teoria di Galeno che i testicoli avessero una
funzione fondamentale nella preparazione
del seme virile, dobbiamo ora cercare di capire di cosa
fosse composto per gli antichi questo liquido,
non avendo essi nessuna idea né dello spermatozoo,
né della citologia degli organismi viventi.
Torniamo per un momento ad Aristotele per il quale lo
sperma è «un escremento utile dell’ultimo alimento».
In questo modo lo Stagirita riconduceva il
ruolo del liquido seminale a quello della nutrizione
poiché, ancor prima di chiedersi in che modo un essere
vivente si forma, si era concentrato sul suo accrescimento.
E allora, per quale
processo avviene la nutrizione e l’accrescimento
della nuova creatura umana? I fisiologi antichi,
procedendo anche su questo argomento dalle sue
idee, distinguevano tre o quattro «digestioni»
attraverso le quali il cibo ingerito deve passare,
prima per essere assimilato, poi per trasformarsi
in sperma.
La prima di queste
avviene nella bocca, prima digestio fit in ore, con l’aiuto
della salivazione, e termina nell’intestino con
la formazione della «massa tisanaria» o chilo.
A questa segue la seconda, che avviene nel fegato, in cui
il chilo si tramuta in sangue. Questo non è ancora
un liquido perfetto, ma «pieno di impurità»: esso ha
dunque bisogno di una terza digestione. Questa
avviene attraverso il potere filtrante dei reni che
assorbono l’«acquosità» superflua facendo sì che esso
finalmente si raccolga nel «talamo del cuore» come dice
Aristotele. Da qui, o dal fegato secondo Galeno,
partono le «arterie quiete» che hanno il compito di
veicolare il nutrimento, divenuto nel frattempo
«sangue grosso», per tutto il corpo.
Ma, per essere
assimilato, questo «sangue grosso» ha bisogno
di una ulteriore digestione che per Galeno ed Avicenna
si compie nelle vene, dove esso depone le ultime impurità.
Purificato così di tutte le «superfluità»
e fattosi «sottile», questo sangue
comincia a «distillare dalle vene nelle membra»
sinché si coagula e si «fissa» in ognuna di esse
dando nutrimento al corpo.
Ma non tutto il «sangue
sottile» si fissa negli organi; quello che rimane viene
sottoposto ad una quinta digestione, quinta come
la quint’essenza, divenendo proprio nei testicoli
e nei vasi spermatici il seme atto ad alimentare
la generazione; «quasi alimento che di mensa lieve»,
dice Dante che, nel canto XXV del Purgatorio (vv.
37–39), lo definisce ancora «sangue perfetto»,
oramai trasformandosi da rosso a bianco ad
opera dello spirito (pneuma).
Qui la simbolica
ermetica è evidente, e rientra in quel
complesso sistema di analogie e rimandi che il
mondo medioevale ha sviluppato al massimo grado
partendo dal neoplatonismo e dall’idea
dello spirito aristotelico come elemento di
unione tra forma e materia. La Grande Opera parte dal Nero
(Nigredo), colore della Prima Materia in putrefazione
e dunque dal «sangue grosso», per poi arrivare
alla fase Rossa (Rubedo), quella del «sangue sottile» ed
infine all’Opera al Bianco (Albedo) che corrisponde alla
trasmutazione del sangue in sperma.
Anche lo «sperma
muliebre» verrà sottoposto alle stesse
digestioni prima di poter esercitare il suo ruolo
riproduttivo. Il corpo umano è così una fornace
alchemica, un atanor, e lo sperma, sia virile che
muliebre, la sua Pietra Filosofale.
E dunque, per
comprendere appieno questa fase fondamentale
della trasmutazione del sangue in sperma ad opera
dello spirito, dobbiamo accennare alle concezioni
filosofiche dei presocratici come
Empedocle, Leucippo e Democrito che, con
impostazioni diverse, avevano una visione
meccanicista dell’accrescimento corporeo.
Empedocle, in
particolare, sosteneva che gli elementi
contrari si attraggono e da questo scaturisce
l’accrescimento. Egli era convinto che nulla nascesse
o morisse ma che gli elementi principali,
i quattro rizomata o radici, si
ricombinassero perennemente; non nati
(ἀγένητα) ed eternamente uguali (ἠνεκὲς
αἰὲν ὁμοῖα), essi divengono (γίγνεται) ogni
cosa: fuoco (πῦρ), aria (αἰθήρ), terra (γαῖα), acqua
(ὕδωρ). Da ciò nascevano e morivano i corpi.
Pur avendo una visione
mistica molto spiccata, il filosofo di Agrigento
mostrava così un certa concezione fisica della
generazione, che non chiamava in causa principi
superiori ma solo il gioco tra i quattro elementi
e le due forze che li animavano: l’Odio e l’Amore:
«Ma un’altra cosa ti dirò: non vi è nascita di nessuna
delle cose mortali, né fine alcuna di morte funesta, ma
solo c’è mescolanza e separazione di cose
mescolate, ma il nome di nascita, per queste cose, è usato
dagli uomini».
Contro questa
concezione Aristotele sostiene invece che gli
elementi contrari non si uniscono ma si dividono
e che, dunque, affinché un corpo possa nascere
e crescere, debba agire lo «spirito» (pneuma) come
ponte tra materia e forma. Qui entra in gioco la
concezione finalistica del mondo, cioè ordinato
da un Principio trascendente o immanente
alla natura, a seconda delle concezioni
filosofiche, ma pur sempre superiore.
Per gli Stoici, ad
esempio, questo Principio è nel mondo,
è l’anima mundi stessa, per Platone ed Aristotele
è il Motore Immobile che presiede alla regolazione
del tutto. Ma è proprio a questo punto che le
concezioni tra i due grandi filosofi divergono:
per lo Stagirita il Principio agisce sulla
materia informandola di sé attraverso la
funzione dello spirito, mentre per Platone esso
rimane separato ed agisce attraverso un Demiurgo
«senza il quale è impossibile che ogni cosa abbia
nascimento» (Timeo 28,c), che attua così la mediazione
tra l’iperuranio immutabile ed incorruttibile
delle idee e la materia.
E dunque, con la
teoria della forma e della materia unite dallo
spirito, Aristotele si opponeva egualmente
al meccanicismo di Empedocle ed al
finalismo trascendentale di Platone,
sostenendo invece che il principio del divenire
va ricercato nel seno stesso della realtà che diviene, e non
pensato come estraneo ad essa. La materia è un
principio potenziale ed indeterminato
che ha bisogno di essere determinato ed attuato dalla
forma (l’idea). Per questo lo sperma, principio di
nutrizione del nuovo essere, deve distillarsi attraverso
l’infusione dello spirito che, tra le sue attribuzioni,
ha anche quella dell’accrescimento degli esseri.
Dopo la quinta
digestione, dunque, lo sperma è infine maturo grazie
alla «virtù accrescitiva dello spirito» che gli
deriva, in questo specifico caso, dice ancora un Dante
molto coerente con la sua appartenenza ai Seguaci
d’Amore, «dal cuor del generante», e non attende altro
che essere eiaculato in vagina.
A questo punto però,
dobbiamo accennare ad una questione che, partendo
dai presocratici, venne dibattuta sino al
Rinascimento ed oltre, come si evince anche dalle
testimonianze contenute nel testo Embriologia
sacra, del prelato Emanuele Cangiamila,
palermitano, pubblicato a Milano nel 1751:
cosa veicola il seme?
Anche qui la
controversia trae origine dalla discussione
che Aristotele intraprese contro Empedocle
ed Anassagora, se cioè esso sia formato di
particelle invisibili staccatesi
soltanto dalle membra simili ed omogenee, come
i muscoli, le ossa o i nervi, o anche da quelle
dissimili e complesse come la mano o il
volto. Il Cangiamila, nel suo testo (Libro I capitolo
4), riporta la testimonianza di un certo Delempazio
che, sotto le lenti del suo microscopio, avrebbe visto «coi
propri occhi sviluppato da vermetto nel seme
maschile un uomo».
Secondo la teoria
accennata alla fine del Timeo platonico (91
D), «il seme inseminerebbe la matrice pronta ad
accogliere animali invisibili per la loro
piccolezza e non ancora formati». Questo fa
dire a Wincenty Lutoslawski nel suo The
origin and growt of Plato’s logic (Londra 1905, pag.
484) che il filosofo aveva intuito la presenza degli
spermatozoi molti secoli pima della loro effettiva
scoperta: «There are amid all the mythical fiction of
the Timaeus some wonderful glimpses of deep insight
which betray Plato’s genius».
Anche ad Ippocrate
è attribuita l’ipotesi che la materia dello sperma
venga da tutte le parti del corpo; nel suo De genitura sostiene
che il seme deriva da tutta l’«umidità che è contenuta
nel corpo»; però aggiunge che da tutta questa umidità si
separa la parte migliore e che da essa si stacca ancora un
«semplice» che lui classifica come «spumoso»:
la materia essenziale dello sperma richiama così il mito
della nascita di Afrodite.
Dunque la soluzione
data da Aristotele si inspira alla sua filosofia:
tutto ciò che nasce comincia ad essere per l’impulso di un
agente che lo trae dalla potenza all’atto. Quindi lo sperma
maschile è dotato di «virtù formativa», mentre
il mestruo di «virtù informativa», cioè capace di
restare impresso. Un rovesciamento completo dell’idea
stessa di matrice.
Per altri, invece, lo
sperma conterrebbe una dissoluzione,
o meglio una soluzione, in cui sono presenti
minutissime particelle che riproducono
in piccolo ogni parte del corpo. Dunque per lo Stagirita
lo sperma maschile non è materia creazionale ma
solo causa agente, mentre per Galeno, Ippocrate ed altri
medici sino al Rinascimento, esso è il vero
principio generatore, contenendo in sé
tutte le parti del corpo da sviluppare nella matrice col
concorso dello «sperma muliebre».
Da qui il ruolo della
donna nella riproduzione, essendo le ovaie, a quel
tempo, ritenute solo testicoli femminili atte
a produrre il mestruo, che serviva solo a «cuocere»
la materia vivente. Questa tesi fu sostenuta da Galeno
che infatti distingue tra sangue mestruale e «sperma
muliebre», intendendo con questo il secreto dei
testicoli muliebri, cioè delle ovaie che scenderebbe
lungo i canali seminali femminili, cioè le tube,
per mescolarsi con lo sperma virile e dare così inizio
al processo di formazione del nuovo essere.
È dunque merito del
medico di Pergamo aver intuito il ruolo attivo della donna nella
riproduzione, seppure con una visione anatomica
che descriveva l’apparato genitale femminile
come speculare a quello maschile. La vagina, infatti,
è solo un pene introverso, le ovaie sono i testicoli
interni e le tube l’equivalente dei dotti spermatici.
Ovviamente, in tutto questo, il seme maschile è più
«forte», e quello femminile ha bisogno del suo
«conforto» per attivarsi.
Con Avicenna anche
i medici del primo Medioevo continuano a parlare
di «sperma muliebre» distinto dal mestruo, del quale peraltro
era un derivato, in quanto quest’ultimo è anch’esso
una «superfluidità» del sangue non ancora digerito
e purificato; lo «sperma muliebre», allora,
è formato dallo stesso sangue che ha compiuto
tutte le fasi digestive. Per effetto dell’ultima il mestruo
perde il colore sanguigno e ne assume uno biancastro
(humor dealbatus), e diventa materia atta
e disposta a ricevere l’azione dello sperma
virile.
Sara con gli studi di
Gaspare Bartholin, medico danese, di Malpighi
e Gabriele Falloppio italiani, che queste
concezioni verranno finalmente sradicate
per dare vita ad una netta interazione dei ruoli tra lo
spermatozoo e l’ovulo.
Il naso maschile ed il
piede femminile
Le polemiche
continueranno dunque sino al XVIII secolo quando,
con la scoperta e l’utilizzo del microscopio ed
una visione Illuminista dell’embriologia, ai
pensieri dei filosofi classici si sostituiranno
i mezzi dell’osservazione scientifica anche se, come
abbiamo visto in aperura, la Chiesa cercherà di
mantenere sul mistero della vita e dell’anima
ineffabile l’ultima parola, mentre il mito della
nascita di Afrodite intorno allo sperma fuoriuscito
dai genitali di Urano governa ancora il nostro immaginario
erotico.
Concludiamo
questa digressione con un poemetto della scuola medica
salernitana che riprende il sistema di analogie
tra materia e forma, con particolare
riguardo alle corrispondenze tra il naso virile ed il
membro, e tra il piede muliebre e l’organo
femminile: «Ad formam nasi dignoscitur
hasta Priapi; Ad formam pedis cognosces vas mulieris.
Noscitur ex pede quantum sit virginis antrum;
Noscitur ex naso quanta sit hasta viri». Ognuno si divertirà
a tradurre dal latino i termini di questo
noto detto popolare che parla della relazione tra il naso
virile, la dimensione e la forma del membro, e tra
il piede femminile, la forma e la profondità
della vagina… così è se vi pare.
Il Manifesto – 24
gennaio 2015