Da Platone a Borges, il sogno di Dio come armonia cosmica
Raffaele K. Salinari
La sfera infinita
Qual’è il
geometra che tutto s’affigge, per misurar lo
cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio
ond’elli indige. Tal’era io a quella vista nova, veder
voleva come si convenne, l’imago al cerchio e come
vi s’indova. Ma non eran da ciò le proprie penne, se non che
la mia mente fu percossa, da un fulgor in che sua voglia
venne. A l’alta fantasia qui mancò possa, ma già
volgeva il mio disìo e ‘l velle, sì come rota ch’igualmente
è mossa. L’amor che move il sole e l’altre stelle.
Con queste terzine
termina il Paradiso nella Divina Commedia,
paragonando la visione di Dio, o meglio la sua
ineffabile descrizione, al problema, allora come
ora geometricamente insoluto, della
cosiddetta «quadratura del cerchio». Nel
viaggio iniziatico verso la visione dell’Invisibile,
Dante viene condotto da Beatrice, l’angelicata figura che
lo accompagna sino ai margini della fonte che
irraggia «l’amor che move il sole e l’altre stelle».
Ma, a questo
punto, di fronte alla visione suprema, la mente del poeta vacilla, le
parole gli mancano: ecco allora Dante ricorrere alla
costumanza di affrontare questioni di alto livello
teologico e filosofico con paragoni
tratti dalla geometria o dalla matematica,
pratica antica quanto la storia del pensiero stesso.
A partire da Pitagora sino ai giorni nostri, infatti,
questa forma di «immaginazione materiale»
di tipo analogico, come direbbe Gaston Bachelard, ha
accompagnato le menti sulle strade del pensiero più
astratto, cercando di renderlo visibile attraverso
figure solide.
E il solido più
allusivo e per così dire proiettivo,
è certamente la sfera, utilizzata nella
storia del pensiero, tra le altre, come metafora della
divinità.
«Forse la Storia
universale è quella della diversa intonazione
di alcune metafore»; così Borges opina su una delle
suggestioni certo a lui più care: quella della
possibilità di tracciare un compendio
esaustivo delle portanti immaginali che hanno
determinato la vita degli uomini nel loro divenire
storico. Tra queste metafore, parola la cui
etimologia dispiega pienamente la sua forza
evocativa — dal greco meta-foreo, cioè trasportare
oltre – una rientra magistralmente tra le costanti
che compongono il catasto borghesiano della
Storia universale: Dio come sfera infinita.
L’Aleph e Senofane
di Colofone
Ma da dove trae lo
scrittore argentino questa suggestione? La
storia dell’immagine di Dio come sfera infinita la
troviamo per la prima volta nel celebre racconto breve
l’Aleph. Come nella terzina dantesca è ancora
una volta l’amore che attira verso questa metafora
universale. È Beatriz Viterbo, infatti –
un’altra Beatrice! – a spingere l’autore, che
nel racconto parla in prima persona — «sono io, Borges»
dirà ad un certo punto guardando il ritratto dell’amata morta
dopo una feroce agonia — verso la casa di lei in via Garay,
nel cui scantinato vede l’Aleph, nell’ormai lontano
aprile del 1941.
La casa ora non esiste
più; sappiamo dal racconto (autobiografico?)
che venne demolita pochi mesi dopo, forse per essere poi
inglobata nel caffè Zimino e Zungri, e chiunque
di noi l’abbia cercata, ripercorrendo la via
e cercandone le tracce, si è sentito
rispondere con un sorriso tipicamente portegño
che, come sosteneva lo stesso Borges, esso è dappertutto,
e dunque contemporaneamente in
ogni luogo ed ogni tempo.
Chi scrive, ad esempio,
posò l’orecchio sulle maestose colonne della Moschera di Amr
al Cairo per sentirne il favoloso ronzio cosmico.
Anche nel nostro Paese ci sono alcuni Aleph: nella chiesa ravennate
di S. Apollinare nuovo, ad esempio, le colonne che si
trovano sotto il mosaico della presentazione dei
re magi appaiono curiosamente consumate ed
annerite dall’uso circa all’altezza di una testa umana; se
qui si pone l’orecchio si sentirà il battito del
proprio cuore echeggiare attraverso tutta la basilica
come in un vuoto cosmico che rimanda il rumore originario
del non creato ancora, del nostro esserci nel tempo e dello
spazio prima della nascita del tempo e dello spazio.
Ecco dunque Borges
vedere la Storia Universale attraverso la
piccola sfera luminosa (o forse sarebbe meglio dire
numinosa?) dell’Aleph posta all’altezza del
diciannovesimo gradino che conduce verso
l’oscurità di quell’antica cantina. L’Aleph corrisponde
notoriamente alla prima lettera dell’alfabeto
ebraico e, nella Cabala dello Zohar, all’Ein-Sof cioè a Dio
prima delle sua manifestazione.
Ed ecco che, come per
Dante, al momento della descrizione, allo scrittore
vengono meno le parole, ed anch’egli si deve abbassare
all’umiliazione delle metafore e delle immagini
analogiche: «I mistici, in simili circostanze,
son prodighi di emblemi: per significare la
divinità, un persiano parla d’un uccello che in qualche
modo è tutti gli uccelli; Alanus de Insulis, d’una
sfera di cui il centro è dappertutto e la
circonferenza in nessun luogo. Ezechiele di
un angelo con quattro volti che si dirige
contemporaneamente a Oriente e a
Occidente, a Nord e a Sud. (Non invano ricordo
codeste inconcepibili analogie; esse
hanno una qualche relazione con l’Aleph). Forse gli dei
non mi negherebbero la scoperta d’una immagine
equivalente, ma questa relazione resterebbe
contaminata di letteratura, di
falsità. D’altronde, il problema centrale resta
insolubile: l’enumerazione, sia pure parziale, d’un
insieme infinito».
In queste prime
righe troviamo, in nuce, tutti gli elementi che
verranno poi sviluppati nel saggio contenuto
in Altre Inquisizioni, dove egli riprende la
cronologia di questa Immagine Universale.
Qui Borgesfa iniziare la sua storia da Senofane
di Colofone, rapsodo del VI secolo a.C. che, stanco della
versione antropomorfa degli dei cantati da Omero,
propose ai Greci di considerare un dio unico
inteso come sfera infinita. Qualche anno dopo sarà uno dei
«filosofi sovraumani», come li definisce
Giorgio Colli nel suo omonimo libro sui presocratici,
Parmenide, ad argomentare che l’Essere Finito,
per i Greci infatti finito era sinonimo di perfezione,
è una sfera. Un concetto che trova una sua presenza
centrale anche nell’Induismo e soprattutto nel
Taoismo, filosofie non a caso lontanissime
nello spazio, ma coeve al tempo del pensatore di Elea.
Nel suo poema in
esametri intitolato Sulla natura, che ne
descrive il viaggio immaginale verso l’essenza della
Verità, essa viene descritta come strutturalmente
sferica: «cuore inconcusso della ben rotonda verità»
dice Parmenide. In un frammento riportato dallo
scettico Sesto Empirico, nella sua opera Contro
i matematici, Parmenide afferma che:
«l’Essere è compiuto da ogni lato simile alla massa di
una sfera rotonda, di uguale forza dal centro in tutte le
direzioni; che egli infatti non sia né un po’ più grande né
un po’ più debole qui o lì è necessario».
Ricorda Borges come
autorevoli commentatori, come Mondolfo
nel suo La filosofia dei Greci, e Calogero
nella Storia della logica antica, sostengono che così
egli non solo intuì una sfera infinita nella sua perfezione,
ma che a questa immagine geometrica diede
una valenza dinamica, espansiva, di un qualcosa in
infinito aumento, come riecheggerà anche nel passo
del Timeo platonico.
L’Essere dunque
per Parmenide, oltre ad essere — il non essere infatti
non è poiché non ha ragione di esistere — assume
questa forma di sfera finita ed in se stessa conchiusa:
«l’Essere assomiglia al volume di una sfera
perfettamente rotonda, la cui forza è costante
dal centro in qualunque direzione».
Anche Empedocle
di Agrigento, altro «filosofo sovraumano»,
intendendo con questi coloro che prima di veri e propri
filosofi erano ancora annoverabili tra
i sapienti, parla della sfera (in)finita, secondo lui formata
dall’essenza dei quattro elementi, i rizomata,
che compongono tutte le cose combinandosi
insieme: «Lo Sphairos rotondo che esulta nella sua
solitudine circolare». Empedocle era
considerato un vero e proprio mago.
Leggendaria la sua fine suicida nell’Etna, così
da potersi totalmente decomporre neirizomata e rinascere
totalmente in altra forma.
Platone
La figura della sfera
come solido perfetto ed uniforme la ritroveremo
qualche secolo dopo nel pensierodi Platone, in cui
l’analogia originaria si arricchisce delle
riflessioni del grande filosofo. Per Platone la sfera
è perfetta poiché tutti i punti distano
egualmente dal suo centro, concetto che fa dire a Olof
Gigon, nel suo libro sulla filosofia greca, che Senofane
aveva parlato metaforicamente, paragonando
Dio a questo solido.
Così Platone,
nel Timeo (VIII) spiega perché la sfera sia la forma
perfetta e divina: «Il Demiurgo formò un corpo levigato
ed omogeneo in tutti i punti equidistanti
dal centro, e intero e perfetto, risultante
da corpi perfetti, e postavi nel mezzo un’anima, non
soltanto ve la distese interamente, ma con essa lo
avviluppò anche al di fuori, e così formò un cielo
circolare, che si muove circolarmente, unico
e solitario, ma per propria virtù
autorigenerantesi, non bisognoso di
nessun altro, e capace di conoscere e amare
a sufficienza se stesso. E per tutte queste
ragioni il Demiurgo lo generò».
Qui vediamo come il
pensiero della sfera, in Platone ma in generale in
tutti i suoi contemporanei, fosse di tipo
euclideo, legato cioè al concetto fondamentale
sul quale si fondavano le definizioni e le
argomentazioni geometriche, che era
quello di «distanza», perché direttamente
sperimentabile nel mondo fisico.
Ragioni analoghe
hanno spinto i pensatori neoplatonici
a ritenere perfetto il moto circolare.
Scrive Plotino nelle Enneadi (II, 2–1): «Perché
[il cielo] si muove di moto circolare? Perché imita
l’intelligenza. […] In un cerchio il centro
naturalmente è immobile, ma se anche la
circonferenza fosse tale, sarebbe un immenso centro.
Essa girerà piuttosto intorno al suo centro».
Da questi pensieri,
soprattutto quelli platonici inerenti
l’autosufficienza della Sfera Divina, si capisce bene, come
vedremo tra poco, come il cristianesimo medioevale
abbia attinto a piene mani dal filosofo per
cristianizzarne il pensiero attribuendo le
stesse caratteristiche alla sua divinità.
Ermete Trismegisto
ed il Corpus hermeticum
Sul pavimento del
Duomo di Siena, la prima scena davanti al portale centrale,
dove si trova anche l’iscrizione «Castissimum virginis
templus caste memento ingredi», (ricordati di entrare
castamente nel castissimo tempio della Vergine),
raffigura Ermete Mercurio Trismegisto,
leggendaria figura di origine egizia,
ritenuto il depositario dell’intera sapienza
antica. Come spiega il cartiglio ai suoi piedi era
considerato contemporaneo del
biblico patriarca Mosè: «Hermis mercurius
trismegistus contemporaneus
Moysi».
Sul mosaico pavimentale
viene rappresentato come un saggio orientale
nell’atto di offrire ad altri due uomini con la mano destra un
libro, mentre con la sinistra si appoggia ad una
citazione scritta su una lapide sostenuta da due sfingi
alate, simboli della conoscenza esoterica. I due
uomini, in atteggiamento deferente, sono vestiti in
foggia tale da far pensare forse alle tipizzazioni
dei saggi d’Oriente e d’Occidente. Nella tabella si legge:
«Deus amnium creator secum deum fecit visibilem et
hunc fuit primum et solum quo oblectatus est et valde
amavit proprium filium qui appellatur sanctum
verbum», (Dio creatore di tutte le cose, fece un altro Dio
visibile e questo fu il primo e il solo nel quale
si dilettò e amò suo figlio, che fu chiamato Santo Verbo,
infinitamente).
È un’allusione alla
nascita del Salvatore come «Sanctum Verbum»
e questa profezia è un brano delPimander,
uno dei primi testi del Corpus Hermeticum tradotti
da Marsilio Ficino.
Il Corpus è un
insieme di frammenti probabilmente risalenti
ad epoche molto diverse tra di loro. Anche Plotino ne
parla, attribuendo ad Ermete Trismegisto
l’immagine di Dio come una sfera infinita, o dinamicamente
tendente all’infinito, come il pensiero presocratico
lascia intendere. L’immagine, infatti, riaffiorata
più volte negli scritti ermetici, il cui Corpus si
è di continuo ampliato a partire dal III
secolo d.C., compendiando la sapienza antica. Secondo
i sacerdoti di Thot, che è anche Ermes, il sapiente
avrebbe scritto 36.525 libri; Giamblico, nel suo I misteri
dell’Egitto diminuì, nel tentativo di rendere
credibili questi dati, il novero dei volumi a 20.000
e Clemente Alessandrino, nei suoi Stromata,
li ridusse ulteriormente a 42.
Marsilio
Ficino, il grande neoplatonico rinascimentale,
indicava Orfeo, Pitagora e Platone come i più
tardi rappresentanti della sapienza antica contenuta
nel Corpus. Il testo, come lo conosciamo oggi, si
pensa che risalga al 1050 circa, periodo in cui fu assemblato
e sistematizzato da Michele Psello, studioso
bizantino che però, probabilmente, rimosse dal
testo gli elementi strettamente magici e alchemici,
rendendolo così più accettabile per la Chiesa
ortodossa. Come molti testi dell’antichità pagana anche
ilCorpus venne utilizzato per dimostrare una
sorta di visione profetica dei maggiori sapienti che
avrebbero, in qualche modo, ricevuto una visione
divina prima dell’Era cristiana propriamente detta.
L’esistenza del testo
venne probabilmente resa nota in Occidente,
insieme a quella di altri libri antichi ancora
sconosciuti, in occasione del Concilio che
avrebbe dovuto sanare lo scisma d’Oriente, tenutosi
a Firenze ad opera di Cosimo de’ Medici nel 1438. In questa
occasione l’imperatore Giovanni VIII Paleologo ed il
Patriarca di Costantinopoli Gennadio II,
arrivarono in Italia con un seguito di 650 fra
studiosi, eruditi e ecclesiastici. Per
dirimere le questioni dottrinali le
affermazioni contenute nel Corpuserano
importanti, proprio perché risalivano ad un
periodo di molto anteriore allo scisma, affermando
l’unicità di Dio e dunque l’unità dei cristiani
in lui. Com’è noto il Concilio fallì il suo scopo
poiché sia i credenti sia il basso clero non
riconobbero l’autorevolezza dei loro rappresentanti,
ma il Corpus era oramai un testo noto ed
intrigante, tanto che nel 1460 Cosimo riuscì ad avere la
copia originale, appartenuta a Michele
Psello, attraverso il monaco italiano Leonardo da
Pistoia che l’aveva scoperta (trafugata?) poco tempo
prima in Macedonia. Cosimo ordinò dunque a Marsilio
Ficino di tradurlo. Il lavoro venne completato
nell’aprile del 1463 e venne compensato con una
villa a Careggi.
A noi dunque, di
questa sconfinata opera, non restano che dei
frammenti. In uno di questi, l’Asclepio, troviamo
la seguente formula, evidenziata per la prima volta
dal teologo francese Alain de Lille, Alanus de
Insulis, sul finire del XII secolo, citato da Borges
nell’Aleph: «Dio è una sfera intellegibile,
il cui centro è in ogni parte e la cui
circonferenza è inaccessibile».
Questa immagine,
elaborazione di quelle precedenti sulla
natura di Dio come sfera infinita, non verrà dimenticata
nel tempo, e sarà oggetto di lunghe dispute. Borges
ci ricorda che per Aristotele una formula siffatta
era decisamente una contradictio in
adjecto, ossimorica, poiché in tale proposizione
soggetto e predicato si annullano
contraddicendosi. Ciò può anche essere vero,
grammaticamente parlando, tuttavia
la formula dei libri ermetici ci lascia, quasi, intuire
l’infinità di quella sfera.
Nel secolo XIII
l’immagine ricompare nel Romanzo della rosa che la
attribuisce a Platone,
e nell’enciclopedia Speculum Triplex sempre
— e soltanto! — citata da Borges. Da parte nostra
azzardiamo che l’autore argentino abbia voluto
racchiudere nella dizione di Triplice Specchio le
tre opere di Vincent di Beauvais che, nella seconda metà
del XIII secolo, scrisse i tre volumi dei suoi Speculum
Naturale, Speculum Doctrinale e Speculum
Historiale. Nel secolo XVI l’ultimo capitolo
del Pantagruel, romanzo dalle indubbie
ascendenze esoteriche, allude a «quella sfera
intellettuale, il cui centro sta dappertutto
e la cui circonferenza in nessun luogo, che
chiamiamo Dio».
Il libro dei 24 filosofi
Ma è con il Libro
dei ventiquattro filosofi che l’immagine
di Dio come sfera infinita il cui centro è in ogni
luogo e la circonferenza da nessuna parte,
riceve la sua definitiva consacrazione.
Testo enigmatico, che raccoglie le opinioni
di ventiquattro filosofi riuniti per
esprimere la propria opinione attraverso
aforismi sulla natura del divino, esso appare per la prima
volta in forma compiuta nel XII secolo pur rifacendosi,
i suoi ignoti autori, ad ascendenze antichissime,
come quelle che ne attribuiscono una parte ad Ermete
Trismegisto stesso, a Platone ed ai
presocratici. Caratteristica del testo
è la comparsa del metodo assiomatico in
teologia, una modalità di pensiero che troviamo
dapprima nel commento di Gilberto Porretano
al De hebdomadibus di Severino
Boezio, ripreso tra il 1660 ed il 1190 proprio da
quell’Alano di Lille nel suo Regulae celestis
iuris già più volte citato da Borges, e nell’Ars
fidei catholicae di Nicola di Amiens.
Le ventiquattro
definizioni che compongono il libro vogliono
dunque illustrare lo spettro possibile delle
condizioni che conducono la mente umana
a tradurre in concetti o in immagini l’idea
noetica del divino. Ognuna è poi seguita da un commento
che la illustra e la specifica. L’impostazione
della nostra affermazione, la seconda, è decisamente
di stampo neoplatonico, come si conviene in
quegli anni ad un testo ispirato ad un neoplatonismo
cristianizzato, cioè a concetti che
cercano nella filosofia di Platone
i presupposti della seguente rivelazione
cristiana, quasi che il pensiero del filosofo greco
fosse una forma di profezia secolare. Ecco dunque
i riferimenti, nei commenti, a teologi
e filosofi come Macrobio, Agostino, Boezio
e Dionigi Aeropagita, non a caso tutti
pensatori più volte citati anche da Borges nei suoi
racconti.
Il centro
teologico dell’affermazione in oggetto è quello che
viene chiamato «emanatismo» cioè l’idea che
il mondo sia una emanazione divina. Per questo
l’ascendenza platonica del testo può dirsi a ben
vedere racchiusa proprio nella sentenza di cui stiamo
parlando. Qui, infatti, non troviamo nessuna idea
strettamente religiosa, ma solo una considerazione
ontologica sulla natura stessa di Dio.
A questo punto
è interessante sviluppare alcuni temi
inerenti al commento dell’affermazione che «Dio è una
sfera in cui centro è in ogni luogo e la
circonferenza in nessuno». La definizione,
ci viene spiegato, rappresenta con una immagine
geometrica, metaforica dunque, (per modum
imaginandi) l’essenza della Prima Causa.
E dunque
la Sphera è infinita: il commento ci dice
che la Prima Causa è ovunque (ubique) e che essa
al tempo stesso trascende ogni determinazione
spaziale (supra, ubi et extra). Il centro è ovunque
e il pensiero non può comprenderlo (nulla habens
in anima dimensionem) perché
illimitata è l’estensione della sua
dimensione (sine dimensione). Qui ritornano le parole
di Dante nella chiusura della Commedia,
l’impossibilità logica di esprimere l’inesprimibile, di
racchiudere l’infinito senza dimensione (totus sine
dimensione, et etiam dimensionis infinitae).
Anche Giordano
Bruno, l’eretico visionario mandato al rogo a Campo
dei fiori dalla Chiesa, nel De l’infinito universo et
mondi ripropose i due tipi di infinito:
l’universo e Dio. Il primo sarebbe «tutto infinito»
perché si compone di parti limitate, il secondo
sarebbe invece «totalmente infinito» perché ogni
sua parte è infinita quanto il tutto.
Come
dice giustamente René Guénon nel suo Simboli
della scienza sacra, bisogna dunque distinguere tra
infinito, il «totalmente infinito» di Bruno, ed
indefinito, il «tutto infinito»: il primo concetto
nella Tradizione si applica solo ed esclusivamente
alla divinità, poiché solo essa lo è, mentre quello
che noi chiamiamo normalmente infinito,
cioè qualcosa che possiamo concepire in
qualche modo al nostro livello di esistenza, è invece
semplicemente indefinito, cioè parte
comunque da un punto anche se per estendersi
illimitatamente.
Per questa
metafora, dunque, l’essenza di Dio sta nell’infinito in
atto; mentre le sue creature sono racchiuse nei
confini del limitato, al massimo dell’indefinito, in
Dio i confini dell’Essere si estendono all’infinito,
sono essi stessi l’infinito (sua clausio infinita est).
Da qui l’idea
emanatista di un Dio che è al tempo stesso
generante e generato e dal cui centro tutte
le cose generate prima promanano e poi
inevitabilmente tornano (ab esse in unitate
centri). A questo proposito, in un commento
del Genesi scritto dal grande mistico Eckhart, troviamo
l’affermazione che «nel settimo giorno Dio si è riposato
in ognuna delle sue creature». Dio, infatti, compie ogni
opera con tutto se stesso: in Eckhart, dunque, mistico a mala
pena sopportato, come tutti i mistici,
dall’istituzione religiosa, avvertiamo una componente
Orientale del pensiero, come vedremo più avanti, e cioè
che oltre l’unità e l’infinità di Dio, l’indiviso
splendore della sue presenza permane in ognuna delle
sue creature.
Nel commento
del Libro dei ventiquattro filosofi troviamo
anche una accenno al tempo della creazione, cioè al fatto che
la Sfera sia eterna oltre che infinita, cioè che sia infinita
anche nella sua extra temporalità (sicut creationis
fuit initium). E dunque l’inesausta dimensione
creatrice si attua, trova la sua conjunctio tra
potenza infinita ed atto infinito, sia nello spazio
che nel tempo, anticipando teologicamente
l’affermazione einsteiniana della creazione
simultanea del tempo e dello spazio.
Oriente ed Occidente
Interessante,
infine, citare una delle concezioni cabalistiche
della creazione, quella esattamente contraria
all’emanatismo, cioè lo Tzim-Tzum, letteralmente
nascondimento, secondo cui Dio avrebbe creato l’universo
ed il suo tempo ritirandosi progressivamente
all’interno di se stesso. L’universo sarebbe così ciò che resta
del nascondimento di Dio dal tempo e dalla spazio,
il che fa supporre che, da qualche parte, ci sia ancora
tempo e spazio restante per incrementare la
creazione. Ma questa è un’altra storia.
Ovviamente, borghesianamente, le due visioni
possono combinarsi in una sorta di solve et
coagula teologico complementandosi
a vicenda.
È evidente, tra
l’altro, come questa metafora sia quintessenziale
della visione Occidentale della relazione tra Dio
e l’umanità: nel nostro emisfero culturale Dio
è comunque lontano, quale che sia la modalità
con cui ha creato l’universo. Egli è oramai
inconcepibile, irraggiungibile,
ineffabile, lo si può solo pensare per metafore
o secondo una teologia negativa, cioè per ciò
che egli non è. All’opposto, in Oriente, la divinità è al
tempo stesso trascendente ed immanente al Mondo, è in
ogni cosa, è ogni cosa. Dunque è possibile,
anzi doveroso, poterla pensare nella sua essenza e questo
rappresenta l’obiettivo yogico e di tutte le scuole
Induiste o Buddiste.
Forse per questa
lontananza spaventevole, Pascal chiosa a suo
modo l’immagine di Dio come sfera infinita, definendola,
in una versione manoscritta pubblicata da
Tourner a Parigi nel 1941, espunta dalle edizioni
a stampa, effroyable, spaventosa appunto. Si
non è per l’Occidente oramai secolarizzato
dalla nascita concepire l’inconcepibile.
Il Manifesto – 8 agosto 2015