TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 13 agosto 2015

La sfera infinita



Da Platone a Borges, il sogno di Dio come armonia cosmica 

Raffaele K. Salinari

La sfera infinita


Qual’è il geo­me­tra che tutto s’affigge, per misu­rar lo cer­chio, e non ritrova, pen­sando, quel prin­ci­pio ond’elli indige. Tal’era io a quella vista nova, veder voleva come si con­venne, l’imago al cer­chio e come vi s’indova. Ma non eran da ciò le pro­prie penne, se non che la mia mente fu per­cossa, da un ful­gor in che sua voglia venne. A l’alta fan­ta­sia qui mancò possa, ma già vol­geva il mio disìo e ‘l velle, sì come rota ch’igualmente è mossa. L’amor che move il sole e l’altre stelle.

Con que­ste ter­zine ter­mina il Para­diso nella Divina Com­me­dia, para­go­nando la visione di Dio, o meglio la sua inef­fa­bile descri­zione, al pro­blema, allora come ora geo­me­tri­ca­mente inso­luto, della cosid­detta «qua­dra­tura del cer­chio». Nel viag­gio ini­zia­tico verso la visione dell’Invisibile, Dante viene con­dotto da Bea­trice, l’angelicata figura che lo accom­pa­gna sino ai mar­gini della fonte che irrag­gia «l’amor che move il sole e l’altre stelle».

Ma, a que­sto punto, di fronte alla visione suprema, la mente del poeta vacilla, le parole gli man­cano: ecco allora Dante ricor­rere alla costu­manza di affron­tare que­stioni di alto livello teo­lo­gico e filo­so­fico con para­goni tratti dalla geo­me­tria o dalla mate­ma­tica, pra­tica antica quanto la sto­ria del pen­siero stesso. A par­tire da Pita­gora sino ai giorni nostri, infatti, que­sta forma di «imma­gi­na­zione mate­riale» di tipo ana­lo­gico, come direbbe Gaston Bache­lard, ha accom­pa­gnato le menti sulle strade del pen­siero più astratto, cer­cando di ren­derlo visi­bile attra­verso figure solide.

E il solido più allu­sivo e per così dire pro­iet­tivo, è cer­ta­mente la sfera, uti­liz­zata nella sto­ria del pen­siero, tra le altre, come meta­fora della divinità.

«Forse la Sto­ria uni­ver­sale è quella della diversa into­na­zione di alcune meta­fore»; così Bor­ges opina su una delle sug­ge­stioni certo a lui più care: quella della pos­si­bi­lità di trac­ciare un com­pen­dio esau­stivo delle por­tanti imma­gi­nali che hanno deter­mi­nato la vita degli uomini nel loro dive­nire sto­rico. Tra que­ste meta­fore, parola la cui eti­mo­lo­gia dispiega pie­na­mente la sua forza evo­ca­tiva — dal greco meta-foreo, cioè tra­spor­tare oltre – una rien­tra magi­stral­mente tra le costanti che com­pon­gono il cata­sto bor­ghe­siano della Sto­ria uni­ver­sale: Dio come sfera infinita.



L’Aleph e Seno­fane di Colofone

Ma da dove trae lo scrit­tore argen­tino que­sta sug­ge­stione? La sto­ria dell’immagine di Dio come sfera infi­nita la tro­viamo per la prima volta nel cele­bre rac­conto breve l’Aleph. Come nella ter­zina dan­te­sca è ancora una volta l’amore che attira verso que­sta meta­fora uni­ver­sale. È Bea­triz Viterbo, infatti – un’altra Bea­trice! – a spin­gere l’autore, che nel rac­conto parla in prima per­sona — «sono io, Bor­ges» dirà ad un certo punto guar­dando il ritratto dell’amata morta dopo una feroce ago­nia — verso la casa di lei in via Garay, nel cui scan­ti­nato vede l’Aleph, nell’ormai lon­tano aprile del 1941.

La casa ora non esi­ste più; sap­piamo dal rac­conto (auto­bio­gra­fico?) che venne demo­lita pochi mesi dopo, forse per essere poi inglo­bata nel caffè Zimino e Zun­gri, e chiun­que di noi l’abbia cer­cata, riper­cor­rendo la via e cer­can­done le tracce, si è sen­tito rispon­dere con un sor­riso tipi­ca­mente por­te­gño che, come soste­neva lo stesso Bor­ges, esso è dap­per­tutto, e dun­que con­tem­po­ra­nea­mente in ogni luogo ed ogni tempo.

Chi scrive, ad esem­pio, posò l’orecchio sulle mae­stose colonne della Moschera di Amr al Cairo per sen­tirne il favo­loso ron­zio cosmico. Anche nel nostro Paese ci sono alcuni Aleph: nella chiesa raven­nate di S. Apol­li­nare nuovo, ad esem­pio, le colonne che si tro­vano sotto il mosaico della pre­sen­ta­zione dei re magi appa­iono curio­sa­mente con­su­mate ed anne­rite dall’uso circa all’altezza di una testa umana; se qui si pone l’orecchio si sen­tirà il bat­tito del pro­prio cuore echeg­giare attra­verso tutta la basi­lica come in un vuoto cosmico che rimanda il rumore ori­gi­na­rio del non creato ancora, del nostro esserci nel tempo e dello spa­zio prima della nascita del tempo e dello spazio.

Ecco dun­que Bor­ges vedere la Sto­ria Uni­ver­sale attra­verso la pic­cola sfera lumi­nosa (o forse sarebbe meglio dire numi­nosa?) dell’Aleph posta all’altezza del dician­no­ve­simo gra­dino che con­duce verso l’oscurità di quell’antica can­tina. L’Aleph cor­ri­sponde noto­ria­mente alla prima let­tera dell’alfabeto ebraico e, nella Cabala dello Zohar, all’Ein-Sof cioè a Dio prima delle sua manifestazione.

Ed ecco che, come per Dante, al momento della descri­zione, allo scrit­tore ven­gono meno le parole, ed anch’egli si deve abbas­sare all’umiliazione delle meta­fore e delle imma­gini ana­lo­gi­che: «I mistici, in simili cir­co­stanze, son pro­di­ghi di emblemi: per signi­fi­care la divi­nità, un per­siano parla d’un uccello che in qual­che modo è tutti gli uccelli; Ala­nus de Insu­lis, d’una sfera di cui il cen­tro è dap­per­tutto e la cir­con­fe­renza in nes­sun luogo. Eze­chiele di un angelo con quat­tro volti che si dirige con­tem­po­ra­nea­mente a Oriente e a Occi­dente, a Nord e a Sud. (Non invano ricordo code­ste incon­ce­pi­bili ana­lo­gie; esse hanno una qual­che rela­zione con l’Aleph). Forse gli dei non mi neghe­reb­bero la sco­perta d’una imma­gine equi­va­lente, ma que­sta rela­zione reste­rebbe con­ta­mi­nata di let­te­ra­tura, di fal­sità. D’altronde, il pro­blema cen­trale resta inso­lu­bile: l’enumerazione, sia pure par­ziale, d’un insieme infinito».

In que­ste prime righe tro­viamo, in nuce, tutti gli ele­menti che ver­ranno poi svi­lup­pati nel sag­gio con­te­nuto in Altre Inqui­si­zioni, dove egli riprende la cro­no­lo­gia di que­sta Imma­gine Uni­ver­sale. Qui Bor­gesfa ini­ziare la sua sto­ria da Seno­fane di Colo­fone, rap­sodo del VI secolo a.C. che, stanco della ver­sione antro­po­morfa degli dei can­tati da Omero, pro­pose ai Greci di con­si­de­rare un dio unico inteso come sfera infi­nita. Qual­che anno dopo sarà uno dei «filo­sofi sovrau­mani», come li defi­ni­sce Gior­gio Colli nel suo omo­nimo libro sui pre­so­cra­tici, Par­me­nide, ad argo­men­tare che l’Essere Finito, per i Greci infatti finito era sino­nimo di per­fe­zione, è una sfera. Un con­cetto che trova una sua pre­senza cen­trale anche nell’Induismo e soprat­tutto nel Taoi­smo, filo­so­fie non a caso lon­ta­nis­sime nello spa­zio, ma coeve al tempo del pen­sa­tore di Elea.

Nel suo poema in esa­me­tri inti­to­lato Sulla natura, che ne descrive il viag­gio imma­gi­nale verso l’essenza della Verità, essa viene descritta come strut­tu­ral­mente sfe­rica: «cuore incon­cusso della ben rotonda verità» dice Par­me­nide. In un fram­mento ripor­tato dallo scet­tico Sesto Empi­rico, nella sua opera Con­tro i mate­ma­tici, Par­me­nide afferma che: «l’Essere è com­piuto da ogni lato simile alla massa di una sfera rotonda, di uguale forza dal cen­tro in tutte le dire­zioni; che egli infatti non sia né un po’ più grande né un po’ più debole qui o lì è necessario».

Ricorda Bor­ges come auto­re­voli com­men­ta­tori, come Mon­dolfo nel suo La filo­so­fia dei Greci, e Calo­gero nella Sto­ria della logica antica, sosten­gono che così egli non solo intuì una sfera infi­nita nella sua per­fe­zione, ma che a que­sta imma­gine geo­me­trica diede una valenza dina­mica, espan­siva, di un qual­cosa in infi­nito aumento, come rie­cheg­gerà anche nel passo del Timeo platonico.

L’Essere dun­que per Par­me­nide, oltre ad essere — il non essere infatti non è poi­ché non ha ragione di esi­stere — assume que­sta forma di sfera finita ed in se stessa con­chiusa: «l’Essere asso­mi­glia al volume di una sfera per­fet­ta­mente rotonda, la cui forza è costante dal cen­tro in qua­lun­que direzione».

Anche Empe­do­cle di Agri­gento, altro «filo­sofo sovrau­mano», inten­dendo con que­sti coloro che prima di veri e pro­pri filo­sofi erano ancora anno­ve­ra­bili tra i sapienti, parla della sfera (in)finita, secondo lui for­mata dall’essenza dei quat­tro ele­menti, i rizo­mata, che com­pon­gono tutte le cose com­bi­nan­dosi insieme: «Lo Sphai­ros rotondo che esulta nella sua soli­tu­dine cir­co­lare». Empe­do­cle era con­si­de­rato un vero e pro­prio mago. Leg­gen­da­ria la sua fine sui­cida nell’Etna, così da potersi total­mente decom­porre neirizo­mata e rina­scere total­mente in altra forma.



Pla­tone

La figura della sfera come solido per­fetto ed uni­forme la ritro­ve­remo qual­che secolo dopo nel pen­sierodi Pla­tone, in cui l’analogia ori­gi­na­ria si arric­chi­sce delle rifles­sioni del grande filo­sofo. Per Pla­tone la sfera è per­fetta poi­ché tutti i punti distano egual­mente dal suo cen­tro, con­cetto che fa dire a Olof Gigon, nel suo libro sulla filo­so­fia greca, che Seno­fane aveva par­lato meta­fo­ri­ca­mente, para­go­nando Dio a que­sto solido.

Così Pla­tone, nel Timeo (VIII) spiega per­ché la sfera sia la forma per­fetta e divina: «Il Demiurgo formò un corpo levi­gato ed omo­ge­neo in tutti i punti equi­di­stanti dal cen­tro, e intero e per­fetto, risul­tante da corpi per­fetti, e postavi nel mezzo un’anima, non sol­tanto ve la distese inte­ra­mente, ma con essa lo avvi­luppò anche al di fuori, e così formò un cielo cir­co­lare, che si muove cir­co­lar­mente, unico e soli­ta­rio, ma per pro­pria virtù auto­ri­ge­ne­ran­tesi, non biso­gnoso di nes­sun altro, e capace di cono­scere e amare a suf­fi­cienza se stesso. E per tutte que­ste ragioni il Demiurgo lo generò».

Qui vediamo come il pen­siero della sfera, in Pla­tone ma in gene­rale in tutti i suoi con­tem­po­ra­nei, fosse di tipo eucli­deo, legato cioè al con­cetto fon­da­men­tale sul quale si fon­da­vano le defi­ni­zioni e le argo­men­ta­zioni geo­me­tri­che, che era quello di «distanza», per­ché diret­ta­mente spe­ri­men­ta­bile nel mondo fisico.

Ragioni ana­lo­ghe hanno spinto i pen­sa­tori neo­pla­to­nici a rite­nere per­fetto il moto cir­co­lare. Scrive Plo­tino nelle Enneadi (II, 2–1): «Per­ché [il cielo] si muove di moto cir­co­lare? Per­ché imita l’intelligenza. […] In un cer­chio il cen­tro natu­ral­mente è immo­bile, ma se anche la cir­con­fe­renza fosse tale, sarebbe un immenso cen­tro. Essa girerà piut­to­sto intorno al suo centro».

Da que­sti pen­sieri, soprat­tutto quelli pla­to­nici ine­renti l’autosufficienza della Sfera Divina, si capi­sce bene, come vedremo tra poco, come il cri­stia­ne­simo medioe­vale abbia attinto a piene mani dal filo­sofo per cri­stia­niz­zarne il pen­siero attri­buendo le stesse carat­te­ri­sti­che alla sua divinità.



Ermete Tri­sme­gi­sto ed il Cor­pus hermeticum

Sul pavi­mento del Duomo di Siena, la prima scena davanti al por­tale cen­trale, dove si trova anche l’iscrizione «Castis­si­mum vir­gi­nis tem­plus caste memento ingredi», (ricor­dati di entrare casta­mente nel castis­simo tem­pio della Ver­gine), raf­fi­gura Ermete Mer­cu­rio Tri­sme­gi­sto, leg­gen­da­ria figura di ori­gine egi­zia, rite­nuto il depo­si­ta­rio dell’intera sapienza antica. Come spiega il car­ti­glio ai suoi piedi era con­si­de­rato con­tem­po­ra­neo del biblico patriarca Mosè: «Her­mis mer­cu­rius tri­sme­gi­stus con­tem­po­ra­neus Moysi».

Sul mosaico pavi­men­tale viene rap­pre­sen­tato come un sag­gio orien­tale nell’atto di offrire ad altri due uomini con la mano destra un libro, men­tre con la sini­stra si appog­gia ad una cita­zione scritta su una lapide soste­nuta da due sfingi alate, sim­boli della cono­scenza eso­te­rica. I due uomini, in atteg­gia­mento defe­rente, sono vestiti in fog­gia tale da far pen­sare forse alle tipiz­za­zioni dei saggi d’Oriente e d’Occidente. Nella tabella si legge: «Deus amnium crea­tor secum deum fecit visi­bi­lem et hunc fuit pri­mum et solum quo oblec­ta­tus est et valde ama­vit pro­prium filium qui appel­la­tur sanc­tum ver­bum», (Dio crea­tore di tutte le cose, fece un altro Dio visi­bile e que­sto fu il primo e il solo nel quale si dilettò e amò suo figlio, che fu chia­mato Santo Verbo, infinitamente).

È un’allusione alla nascita del Sal­va­tore come «Sanc­tum Ver­bum» e que­sta pro­fe­zia è un brano delPiman­der, uno dei primi testi del Cor­pus Her­me­ti­cum tra­dotti da Mar­si­lio Ficino.

Il Cor­pus è un insieme di fram­menti pro­ba­bil­mente risa­lenti ad epo­che molto diverse tra di loro. Anche Plo­tino ne parla, attri­buendo ad Ermete Tri­sme­gi­sto l’immagine di Dio come una sfera infi­nita, o dina­mi­ca­mente ten­dente all’infinito, come il pen­siero pre­so­cra­tico lascia inten­dere. L’immagine, infatti, riaf­fio­rata più volte negli scritti erme­tici, il cui Cor­pus si è di con­ti­nuo ampliato a par­tire dal III secolo d.C., com­pen­diando la sapienza antica. Secondo i sacer­doti di Thot, che è anche Ermes, il sapiente avrebbe scritto 36.525 libri; Giam­blico, nel suo I misteri dell’Egitto dimi­nuì, nel ten­ta­tivo di ren­dere cre­di­bili que­sti dati, il novero dei volumi a 20.000 e Cle­mente Ales­san­drino, nei suoi Stro­mata, li ridusse ulte­rior­mente a 42.

Mar­si­lio Ficino, il grande neo­pla­to­nico rina­sci­men­tale, indi­cava Orfeo, Pita­gora e Pla­tone come i più tardi rap­pre­sen­tanti della sapienza antica con­te­nuta nel Cor­pus. Il testo, come lo cono­sciamo oggi, si pensa che risalga al 1050 circa, periodo in cui fu assem­blato e siste­ma­tiz­zato da Michele Psello, stu­dioso bizan­tino che però, pro­ba­bil­mente, rimosse dal testo gli ele­menti stret­ta­mente magici e alche­mici, ren­den­dolo così più accet­ta­bile per la Chiesa orto­dossa. Come molti testi dell’antichità pagana anche ilCor­pus venne uti­liz­zato per dimo­strare una sorta di visione pro­fe­tica dei mag­giori sapienti che avreb­bero, in qual­che modo, rice­vuto una visione divina prima dell’Era cri­stiana pro­pria­mente detta.

L’esistenza del testo venne pro­ba­bil­mente resa nota in Occi­dente, insieme a quella di altri libri anti­chi ancora sco­no­sciuti, in occa­sione del Con­ci­lio che avrebbe dovuto sanare lo sci­sma d’Oriente, tenu­tosi a Firenze ad opera di Cosimo de’ Medici nel 1438. In que­sta occa­sione l’imperatore Gio­vanni VIII Paleo­logo ed il Patriarca di Costan­ti­no­poli Gen­na­dio II, arri­va­rono in Ita­lia con un seguito di 650 fra stu­diosi, eru­diti e eccle­sia­stici. Per diri­mere le que­stioni dot­tri­nali le affer­ma­zioni con­te­nute nel Cor­puserano impor­tanti, pro­prio per­ché risa­li­vano ad un periodo di molto ante­riore allo sci­sma, affer­mando l’unicità di Dio e dun­que l’unità dei cri­stiani in lui. Com’è noto il Con­ci­lio fallì il suo scopo poi­ché sia i cre­denti sia il basso clero non rico­nob­bero l’autorevolezza dei loro rap­pre­sen­tanti, ma il Cor­pus era ora­mai un testo noto ed intri­gante, tanto che nel 1460 Cosimo riu­scì ad avere la copia ori­gi­nale, appar­te­nuta a Michele Psello, attra­verso il monaco ita­liano Leo­nardo da Pistoia che l’aveva sco­perta (tra­fu­gata?) poco tempo prima in Mace­do­nia. Cosimo ordinò dun­que a Mar­si­lio Ficino di tra­durlo. Il lavoro venne com­ple­tato nell’aprile del 1463 e venne com­pen­sato con una villa a Careggi.

A noi dun­que, di que­sta scon­fi­nata opera, non restano che dei fram­menti. In uno di que­sti, l’Ascle­pio, tro­viamo la seguente for­mula, evi­den­ziata per la prima volta dal teo­logo fran­cese Alain de Lille, Ala­nus de Insu­lis, sul finire del XII secolo, citato da Bor­ges nell’Aleph: «Dio è una sfera intel­le­gi­bile, il cui cen­tro è in ogni parte e la cui cir­con­fe­renza è inaccessibile».

Que­sta imma­gine, ela­bo­ra­zione di quelle pre­ce­denti sulla natura di Dio come sfera infi­nita, non verrà dimen­ti­cata nel tempo, e sarà oggetto di lun­ghe dispute. Bor­ges ci ricorda che per Ari­sto­tele una for­mula sif­fatta era deci­sa­mente una con­tra­dic­tio in adjecto, ossi­mo­rica, poi­ché in tale pro­po­si­zione sog­getto e pre­di­cato si annul­lano con­trad­di­cen­dosi. Ciò può anche essere vero, gram­ma­ti­ca­mente par­lando, tut­ta­via la for­mula dei libri erme­tici ci lascia, quasi, intuire l’infinità di quella sfera.
Nel secolo XIII l’immagine ricom­pare nel Romanzo della rosa che la attri­bui­sce a Pla­tone, e nell’enciclopedia Spe­cu­lum Tri­plex sem­pre — e sol­tanto! — citata da Bor­ges. Da parte nostra azzar­diamo che l’autore argen­tino abbia voluto rac­chiu­dere nella dizione di Tri­plice Spec­chio le tre opere di Vin­cent di Beau­vais che, nella seconda metà del XIII secolo, scrisse i tre volumi dei suoi Spe­cu­lum Natu­rale, Spe­cu­lum Doc­tri­nale e Spe­cu­lum Histo­riale. Nel secolo XVI l’ultimo capi­tolo del Pan­ta­gruel, romanzo dalle indub­bie ascen­denze eso­te­ri­che, allude a «quella sfera intel­let­tuale, il cui cen­tro sta dap­per­tutto e la cui cir­con­fe­renza in nes­sun luogo, che chia­miamo Dio».



Il libro dei 24 filosofi

Ma è con il Libro dei ven­ti­quat­tro filo­sofi che l’immagine di Dio come sfera infi­nita il cui cen­tro è in ogni luogo e la cir­con­fe­renza da nes­suna parte, riceve la sua defi­ni­tiva con­sa­cra­zione. Testo enig­ma­tico, che rac­co­glie le opi­nioni di ven­ti­quat­tro filo­sofi riu­niti per espri­mere la pro­pria opi­nione attra­verso afo­ri­smi sulla natura del divino, esso appare per la prima volta in forma com­piuta nel XII secolo pur rifa­cen­dosi, i suoi ignoti autori, ad ascen­denze anti­chis­sime, come quelle che ne attri­bui­scono una parte ad Ermete Tri­sme­gi­sto stesso, a Pla­tone ed ai pre­so­cra­tici. Carat­te­ri­stica del testo è la com­parsa del metodo assio­ma­tico in teo­lo­gia, una moda­lità di pen­siero che tro­viamo dap­prima nel com­mento di Gil­berto Por­re­tano al De heb­do­ma­di­bus di Seve­rino Boe­zio, ripreso tra il 1660 ed il 1190 pro­prio da quell’Alano di Lille nel suo Regu­lae cele­stis iuris già più volte citato da Bor­ges, e nell’Ars fidei catho­li­cae di Nicola di Amiens.

Le ven­ti­quat­tro defi­ni­zioni che com­pon­gono il libro vogliono dun­que illu­strare lo spet­tro pos­si­bile delle con­di­zioni che con­du­cono la mente umana a tra­durre in con­cetti o in imma­gini l’idea noe­tica del divino. Ognuna è poi seguita da un com­mento che la illu­stra e la spe­ci­fica. L’impostazione della nostra affer­ma­zione, la seconda, è deci­sa­mente di stampo neo­pla­to­nico, come si con­viene in que­gli anni ad un testo ispi­rato ad un neo­pla­to­ni­smo cri­stia­niz­zato, cioè a con­cetti che cer­cano nella filo­so­fia di Pla­tone i pre­sup­po­sti della seguente rive­la­zione cri­stiana, quasi che il pen­siero del filo­sofo greco fosse una forma di pro­fe­zia seco­lare. Ecco dun­que i rife­ri­menti, nei com­menti, a teo­logi e filo­sofi come Macro­bio, Ago­stino, Boe­zio e Dio­nigi Aero­pa­gita, non a caso tutti pen­sa­tori più volte citati anche da Bor­ges nei suoi racconti.

Il cen­tro teo­lo­gico dell’affermazione in oggetto è quello che viene chia­mato «ema­na­ti­smo» cioè l’idea che il mondo sia una ema­na­zione divina. Per que­sto l’ascendenza pla­to­nica del testo può dirsi a ben vedere rac­chiusa pro­prio nella sen­tenza di cui stiamo par­lando. Qui, infatti, non tro­viamo nes­suna idea stret­ta­mente reli­giosa, ma solo una con­si­de­ra­zione onto­lo­gica sulla natura stessa di Dio.

A que­sto punto è inte­res­sante svi­lup­pare alcuni temi ine­renti al com­mento dell’affermazione che «Dio è una sfera in cui cen­tro è in ogni luogo e la cir­con­fe­renza in nes­suno». La defi­ni­zione, ci viene spie­gato, rap­pre­senta con una imma­gine geo­me­trica, meta­fo­rica dun­que, (per modum ima­gi­nandi) l’essenza della Prima Causa.

E dun­que la Sphera è infi­nita: il com­mento ci dice che la Prima Causa è ovun­que (ubi­que) e che essa al tempo stesso tra­scende ogni deter­mi­na­zione spa­ziale (supra, ubi et extra). Il cen­tro è ovun­que e il pen­siero non può com­pren­derlo (nulla habens in anima dimen­sio­nem) per­ché illi­mi­tata è l’estensione della sua dimen­sione (sine dimen­sione). Qui ritor­nano le parole di Dante nella chiu­sura della Com­me­dia, l’impossibilità logica di espri­mere l’inesprimibile, di rac­chiu­dere l’infinito senza dimen­sione (totus sine dimen­sione, et etiam dimen­sio­nis infinitae).

Anche Gior­dano Bruno, l’eretico visio­na­rio man­dato al rogo a Campo dei fiori dalla Chiesa, nel De l’infinito uni­verso et mondi ripro­pose i due tipi di infi­nito: l’universo e Dio. Il primo sarebbe «tutto infi­nito» per­ché si com­pone di parti limi­tate, il secondo sarebbe invece «total­mente infi­nito» per­ché ogni sua parte è infi­nita quanto il tutto.

Come dice giu­sta­mente René Gué­non nel suo Sim­boli della scienza sacra, biso­gna dun­que distin­guere tra infi­nito, il «total­mente infi­nito» di Bruno, ed inde­fi­nito, il «tutto infi­nito»: il primo con­cetto nella Tra­di­zione si applica solo ed esclu­si­va­mente alla divi­nità, poi­ché solo essa lo è, men­tre quello che noi chia­miamo nor­mal­mente infi­nito, cioè qual­cosa che pos­siamo con­ce­pire in qual­che modo al nostro livello di esi­stenza, è invece sem­pli­ce­mente inde­fi­nito, cioè parte comun­que da un punto anche se per esten­dersi illimitatamente.

Per que­sta meta­fora, dun­que, l’essenza di Dio sta nell’infinito in atto; men­tre le sue crea­ture sono rac­chiuse nei con­fini del limi­tato, al mas­simo dell’indefinito, in Dio i con­fini dell’Essere si esten­dono all’infinito, sono essi stessi l’infinito (sua clau­sio infi­nita est).

Da qui l’idea ema­na­ti­sta di un Dio che è al tempo stesso gene­rante e gene­rato e dal cui cen­tro tutte le cose gene­rate prima pro­ma­nano e poi ine­vi­ta­bil­mente tor­nano (ab esse in uni­tate cen­tri). A que­sto pro­po­sito, in un com­mento del Genesi scritto dal grande mistico Eckhart, tro­viamo l’affermazione che «nel set­timo giorno Dio si è ripo­sato in ognuna delle sue crea­ture». Dio, infatti, com­pie ogni opera con tutto se stesso: in Eckhart, dun­que, mistico a mala pena sop­por­tato, come tutti i mistici, dall’istituzione reli­giosa, avver­tiamo una com­po­nente Orien­tale del pen­siero, come vedremo più avanti, e cioè che oltre l’unità e l’infinità di Dio, l’indiviso splen­dore della sue pre­senza per­mane in ognuna delle sue creature.

Nel com­mento del Libro dei ven­ti­quat­tro filo­sofi tro­viamo anche una accenno al tempo della crea­zione, cioè al fatto che la Sfera sia eterna oltre che infi­nita, cioè che sia infi­nita anche nella sua extra tem­po­ra­lità (sicut crea­tio­nis fuit ini­tium). E dun­que l’inesausta dimen­sione crea­trice si attua, trova la sua con­junc­tio tra potenza infi­nita ed atto infi­nito, sia nello spa­zio che nel tempo, anti­ci­pando teo­lo­gi­ca­mente l’affermazione ein­stei­niana della crea­zione simul­ta­nea del tempo e dello spazio.



Oriente ed Occidente

Inte­res­sante, infine, citare una delle con­ce­zioni caba­li­sti­che della crea­zione, quella esat­ta­mente con­tra­ria all’emanatismo, cioè lo Tzim-Tzum, let­te­ral­mente nascon­di­mento, secondo cui Dio avrebbe creato l’universo ed il suo tempo riti­ran­dosi pro­gres­si­va­mente all’interno di se stesso. L’universo sarebbe così ciò che resta del nascon­di­mento di Dio dal tempo e dalla spa­zio, il che fa sup­porre che, da qual­che parte, ci sia ancora tempo e spa­zio restante per incre­men­tare la crea­zione. Ma que­sta è un’altra sto­ria. Ovvia­mente, bor­ghe­sia­na­mente, le due visioni pos­sono com­bi­narsi in una sorta di solve et coa­gula teo­lo­gico com­ple­men­tan­dosi a vicenda.

È evi­dente, tra l’altro, come que­sta meta­fora sia quin­tes­sen­ziale della visione Occi­den­tale della rela­zione tra Dio e l’umanità: nel nostro emi­sfero cul­tu­rale Dio è comun­que lon­tano, quale che sia la moda­lità con cui ha creato l’universo. Egli è ora­mai incon­ce­pi­bile, irrag­giun­gi­bile, inef­fa­bile, lo si può solo pen­sare per meta­fore o secondo una teo­lo­gia nega­tiva, cioè per ciò che egli non è. All’opposto, in Oriente, la divi­nità è al tempo stesso tra­scen­dente ed imma­nente al Mondo, è in ogni cosa, è ogni cosa. Dun­que è pos­si­bile, anzi dove­roso, poterla pen­sare nella sua essenza e que­sto rap­pre­senta l’obiettivo yogico e di tutte le scuole Indui­ste o Buddiste.

Forse per que­sta lon­ta­nanza spa­ven­te­vole, Pascal chiosa a suo modo l’immagine di Dio come sfera infi­nita, defi­nen­dola, in una ver­sione mano­scritta pub­bli­cata da Tour­ner a Parigi nel 1941, espunta dalle edi­zioni a stampa, effroya­ble, spa­ven­tosa appunto. Si non è per l’Occidente ora­mai seco­la­riz­zato dalla nascita con­ce­pire l’inconcepibile.


Il Manifesto – 8 agosto 2015