Solo chi non conosce la storia del Novecento può stupirsi di trovare oggi insieme a manifestare per la distruzione dello Stato di Israele uno schieramento che va da Forza Nuova al Partito comunista dei lavoratori. Nel 1939 la seconda guerra mondiale fu la diretta conseguenza dell'accordo fra il regime nazista e quello sovietico per la spartizione della Polonia. Che ciò comportasse lo sterminio per mano tedesca degli ebrei polacchi a Stalin non importava, L'importante era riconquistare, come oggi cerca di fare Putin, Polonia e paesi baltici. E d'altronde, mentre le SS liquidavano gli ebrei a Ovest, nella Polonia occupata dai sovietici venivano massacrati a Katyn quasi 30 mila prigionieri di guerra polacchi, mentre altre centinaia di migliaia venivano deportati nei lager siberiani a morire di fame, di fatica e di stenti. Fu solo dopo che Hitler ruppe l'alleanza e attaccò la Russia che Stalin si riscoperse antinazista. Fino ad allora l'URSS e i partiti comunisti avevano di fatto appoggiato la guerra nazista contro le odiate democrazie "borghesi" occidentali. Il fatto che oggi in prima linea fra i fascio-islamisti troviamo anche dei trotskisti dimostra solo che, come la critica storica ha ormai ampiamente dimostrato, lo stalinismo è stato non una controrivoluzione ma uno degli sviluppi possibili del bolscevismo. Anzi per certi aspetti il più coerente, tanto che fu Stalin e non Trotsky a trionfare nella lotta per il potere iniziata già prima che Lenin morisse nel gennaio 1924. per questo riprendiamo il saggio di Roberto Massari scritto in occasione della giornata della Memoria.
Nazismo, stalinismo e l'attuale antisemitismo "di sinistra"
di Roberto Massari
(27 gennaio 2024,
Giornata della Memoria)
Il primo hitlerocomunismo
Per «hitlerocomunismo»
deve intendersi la corrente di pensiero politico che sorse
nell’estate/autunno 1939, quando i totalitarismi nazista e
sovietico si allearono per invadere la Polonia e annettere vari paesi
dell’Europa orientale, scatenando così la Seconda guerra mondiale.
Gli adepti dell’hitlerocomunismo (in Russia e nel resto del mondo)
hanno poi approvato tutte le successive invasioni russe (Paesi
Baltici, Finlandia, Cecoslovacchia, Afghanistan ecc.) fino a quella
odierna dell’Ucraina. Alla base dell’hitlerocomunismo, vecchio e
nuovo, vi è l’idea premoderna (per non dire medievale)
che la Russia fosse e sia ancora legittimata nel compiere tali
annessioni perché eserciterebbe un suo diritto storico riprendendosi
i territori appartenuti all’Impero zarista. Questa posizione
- reazionaria nel più pieno senso del termine - la si
ritrova espressa più o meno inconsapevolmente nelle giustificazioni
attuali per l’aggressione putiniana all’Ucraina e varrà ancora
per eventuali possibili future aggressioni (a cominciare dai Paesi
baltici).
L’alleanza sovietica
col nazismo durò da agosto 1939 a giugno 1941: sono i quasi due
anni che videro prendere forma definitiva al progetto di sterminio
antiebraico, avviato ancor prima del Patto e che sfocerà nella
cosiddetta «soluzione finale», sistematizzata nella Conferenza di
Wannsee di gennaio 1942. Una delle «necessità» alle quali
rispondeva questa scelta estrema del nazismo fu che nella parte di
Polonia assegnata al Terzo Reich dal Patto con Stalin vivevano circa
1.700.000 ebrei: una massa di popolazione ebraica che il nazismo
intendeva sterminare, secondo progetti e linee guida messe in opera
già da tempo, e ben note a Stalin e al gruppo dirigente sovietico.
Per fissare delle date:
il primo dei Konzentrationslager di Auschwitz divenne
operativo dal giugno 1940, cioè nel pieno della collaborazione tra
nazisti e sovietici; quello di Chełmno (considerato il primo lager
di sterminio) nel dicembre 1941, cioè sei mesi dopo la rottura del
Patto da parte nazista. Questi e altri campi di sterminio polacchi
(come Treblinka, Sobibór, Bełżec) cominciarono a operare «tardi»
(cioè nel 1942, «Aktion Reinhard») perché la loro progettazione
fu possibile solo dopo l’invasione congiunta della
Polonia nel settembre 1939; ma la loro costruzione si realizzò nel
quasi biennio dell’alleanza con l’Urss: anzi, fu proprio
quell’alleanza che li rese possibili. Sarebbe, però, un grave
errore di prospettiva storica datare di lì l’inizio dell’Olocausto
perché le persecuzioni antiebraiche erano iniziate in Germania negli
anni ‘30: il lager di Buchenwald, per es., situato nella Turingia
tedesca, era operativo dal luglio 1937.
Insomma, rispetto alla
politica di sterminio antiebraico del nazismo, almeno tre cose furono
subito chiare a chi voleva vederle allora (o che speriamo voglia
cominciare a vederle chiare oggi): 1) Nello stringere il Patto con
Hitler, ai sovietici non interessò minimamente il destino degli
ebrei in Germania e nel resto d’Europa: delle persecuzoni
antiebraiche non parlarono in documenti, atti ufficiali e sulla
stampa. 2) I sovietici non ebbero la benché minima esitazione ad
abbandonare quasi due milioni di ebrei polacchi nelle mani di chi
intendeva sterminarli. 3) La fraternizzazione staliniana col Terzo
Reich richiese che anche sull’Olocausto polacco calasse il silenzio
stampa (oltre all’avvio della collaborazione delle rispettive
polizie nelle consegne reciproche di prigionieri o nelle deportazioni
di interi gruppi etnici).
Dopo
l’aggressione nazista all’Urss
Si tenga conto che gli
ebrei dell’Urss nel loro insieme non furono uccisi nei lager, ma
con esecuzioni e fucilazioni di massa, seguite da seppellimenti in
grandi fosse comuni. Ma ciò che normalmente si ignora è che dopo
l’aggressione tedesca alla Russia (giugno 1941), il silenzio
sovietico sulla Shoah non ebbe termine. Esso continuò negli anni del
dopoguerra e il regime di Stalin addirittura ostacolò i
tentativi ebraici di far luce sia sull’Olocausto in
generale, sia sugli sterminî nei territori sovietici occupati dalla
Wehrmacht e dalla Gestapo.
Confrontiamo alcune
macabre cifre: in Italia furono uccisi dal nazismo (alleato col
fascismo della Repubblica sociale) circa 7.500 ebrei (in quanto
ebrei e non perché comunisti o antifascisti). Ed è innegabile
che dal dopoguerra ad oggi in Italia è stato fatto molto (e in
misura per fortuna crescente) perché non si dimentichi l’orrore
dell’accaduto - ivi comprese le responsabilità anche italiane - e
si conservi e sviluppi la memoria dell’Olocausto: la cultura, il
cinema, le istituzioni, i partiti, la scuola hanno contribuito a far
sì che di questa immane tragedia si conservi la Memoria e non vi si
pensi solo il 27 gennaio di ogni anno. [Sto scrivendo alla vigilia
della giornata della Memoria 2024 e non posso non fremere
d’indignazione alla vista di come quest’anno si è tentato
d’infangare la Giornata commemorativa da parte di un risorgente
hitlerocomunismo italiano, come tra breve dirò.]
In Urss, nelle parti di
territorio occupate dai nazisti dopo il giugno 1941 furono uccisi tra
i 2,5 e i 3,3 milioni di ebrei. Dati difficili da elaborare e che
possono oscillare all’interno di quelle cifre. (Al riguardo vedi
tra gli altri l’ottimo libro di Antonella Salomoni, L’Unione
Sovietica e la Shoah, il Mulino 2007.) Ciò significa che nell’Urss
fu uccisa circa la metà delle vittime ebraiche dell’intero
Olocausto e più della metà della popolazione ebraica complessiva
residente in territori sovietici.
Il silenzio staliniano
sull’Olocausto sovietico
Ci si sarebbe quindi
attesi uno sforzo culturale e istituzionale da parte del regime
sovietico per salvare la Memoria di questo immane Olocausto che in
Russia fu circa 400 volte più grande di quello avvenuto in Italia.
Ma non fu così: i fumi amari dell’hitlerocomunismo - che avevano
portato lo stalinismo a fraternizzare col nazismo, nella convinzione
che l’alleanza tra i due imperialismi fosse ormai saldamente
consacrata dal sangue dei polacchi e degli altri popoli sottomessi -
continuarono ad ammorbare l’atmosfera sovietica per molti anni a
venire.
«Lo sterminio degli
ebrei non fu oggetto di alcuna speciale pubblicazione. Venne
largamente ignorato dalle monografie sulla Seconda guerra
mondiale e ampiamente trascurato nelle sillogi di fonti, così come
non trovò quasi posto nei libri di testo per le scuole o nei
tradizionali repertori» (A. Salomoni, op. cit., p. 9).
Il primo accenno
ufficiale allo sterminio antiebraico che comparve in un documento
sovietico è del 19 dicembre 1942, cioè circa 18 mesi (!) dopo
l’aggressione nazista all’Urss e nonostante il massiccio afflusso
di combattenti ebrei nelle file dell’esercito sovietico che si era
verificato nel frattempo.
Dopo quella modesta
interruzione, il silenzio ufficiale riprese a dominare e anzi il
regime staliniano fece di tutto per ostacolare le iniziative che gli
ebrei sovietici tentarono di intraprendere per denunciare le
dimensioni e l’efferatezza dell’Olocausto nei territori
dell’Urss. Funzione di un così assordante silenzio era di impedire
il sorgere di una nuova coscienza identitaria da parte
degli ebrei sovietici, del tutto incompatibile con lo sciovinismo
grande-russo del regime staliniano e con la sua politica repressiva
di qualsiasi iniziativa che avesse un odore anche alla lontana di
extranazionalismo o cosmopolitismo.
La memoria degli ebrei
sovietici
Il 24 agosto 1941 c’era
già stato l’incontro dell’intellighenzia ebraica sovietica che
nel comunicato finale aveva denunciato lo sterminio avvenuto e ancora
in corso nei territori occupati. Nella primavera del 1942 - su
iniziativa di Solomon M. Michoels (che verrà assassinato su ordine
di Stalin nel 1948, a Minsk) e Šachno Epštejn - fu creato
il Comitato antifascista ebraico (Eak) col preciso intento
di partecipare attivamente alla guerra antinazista come componente
etnica riconosciuta, alla pari degli eserciti formati su base etnica
da altre nazionalità sovietiche. Ad esso però s’impose d’essere
composto solo da ebrei sovietici. Ragion per cui i due
dirigenti del Bund polacco (Partito operaio ebraico) - Henryk Erlich
e Wiktor Alter - che avrebbero voluto dargli invece una veste ebraica
internazionale, furono arrestati e fatti scomparire tra il 1942 e il
1943. Nemmeno l’Eak, del resto, ebbe vita facile proprio perché
tendeva inevitabilmente a diventare uno strumento di riscoperta
dell’identità ebraica: le sue disavventure meriterebbero un libro
a parte.
Un altro libro a parte
(ma per fortuna ne sono stati scritti vari) lo meriterebbe la storia
del Libro Nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici
1941-1945 (Чёрная Кнuга, [Čërnaja Kniga],
Mondadori). Nacque da un’idea di Albert Einstein e fu compilato per
iniziativa di due grandi e celebri scrittori, entrambi ebrei ucraini:
Vasilij S. Grossman (1905-1964) e Il’ja G. Ėrenburg (1891-1967).
Grazie alla collaborazione con l’Eak, il volume, di oltre 500
pagine, poté ricostruire una gran parte degli eccidi ebraici
compiuti dal nazismo in territori sovietici. Esso rimane una
testimonianza storica preziosa e insostituibile.
Il manoscritto ottenne il
visto della censura nel 1945 e ciò permise di inviarlo in vari Paesi
all’estero (compresa l’Italia), ma in Russia non ottenne mai
l’autorizzazione alla stampa. Questo perché il regime stava ormai
facendo di tutto per impedire che l’Olocausto in Urss si
considerasse una tragedia specifica del popolo ebraico e non parte
della più generale aggressione nazista ai popoli sovietici. Insomma,
il regime ebbe paura e capì che il Libro nero avrebbe dato
alimento alle crescenti tendenze identitarie degli ebrei sovietici.
L’antisemitismo
sovietico nell’epoca di Stalin
Il tentativo di
cancellare i tratti caratteristici dell’ebraismo (sua storia e
cultura nei Paesi del blocco sovietico), si inseriva nella più
generale lotta alle influenze straniere e al cosiddetto
«cosmopolitismo». Tale lotta era stata avviata da Andrej A. Ždanov
con la celeberrima risoluzione approvata dal Cc del Pcus il 14 agosto
1946. Uno dei primi effetti che essa ebbe fu il passaggio del
controllo dell’Eak al Dipartimento di politica estera del Cc del
Pcus, diretto dal grande epuratore Michail A. Suslov. (Questi,
entrato nel Pc russo nel 1921, ne uscirà solo da morto, nel 1982,
dopo essersi reso corresponsabile di tutte le nefandezze dello
stalinismo di Stalin e dei suoi successori).
Un ruolo non secondario
nel fomentare la crescente ostilità del regime staliniano verso
l’ebraismo - anche se non esplicitamente dichiarata - lo ebbe anche
la paura che emergesse alla luce del sole il fenomeno storico
rappresentato dalla collaborazione di ampi settori dei popoli
sovietici (soprattutto in Ucraina) che erano passati dalla parte del
nazismo sperando in tal modo di liberarsi del regime staliniano.
Scelte disastrose e represse nel sangue dall’Armata Rossa, che
mostravano però quanto odio si fosse accumulato nei popoli
sottoposti al giogo sovietico dopo l’illusione di essersi liberati
da quello zarista. La verità non doveva emergere nemmeno a questo
riguardo.
C’era poi il problema
rappresentato dall’esistenza di una sorta di repubblica sovietica
ebraica in Crimea e dal fallimento pratico del tentativo di creare
un’Oblast’ autonoma ebraica nel Birobidžan, quasi ai confini con
la Cina. Tutte pagine di storia molto complesse che furono manipolate
a uso e consumo del regime di allora, ma che in rapporto alla
questione ucraina sono ancora utilizzate dalla propaganda russa
attuale.
Resta il fatto che in
Russia fu vietata la pubblicazione del Libro Nero. Se ne ordinò
il sequestro, ma alcune copie si salvarono (contenenti, tra l’altro,
la prefazione di Albert Einstein che era stata eliminata). Ne
uscirono versioni incomplete all’estero e solo nel 1980 a
Gerusalemme fu pubblicata la prima edizione in lingua russa, seguita
dall’edizione del 1991 a Kiev. L’edizione del 1994 si deve
all’impegno di Irina Ėrenburg, figlia di Il’ja, e nel 2014 il
libro è stato ripubblicato in Russia dalle Edizioni Corpus.
Stiamo parlando di un
libro che ricostruiva la memoria della morte orrenda di quasi tre
milioni di ebrei...
La storia
dell’antisemitismo negli ultimi anni della dittatura di Stalin è
stata ricostruita più volte ed è talmente documentata che qui non
si deve far altro che ricordare alcune tappe. [Tra i lavori migliori,
quelli curati da Shimon Redlich, War, Holocaust and Stalinism,
Routledge 1995, e da Joshua Rubenstein-Vladimir P. Naumov, Stalin’s
secret pogrom, Yale 2001.] Con una premessa riguardo allo storico
voto dell’Urss - il 29 novembre 1947 - a favore della risoluzione
n. 181 con cui l’Assemblea delle Nazioni Unite decideva la nascita
dello Stato d’Israele. Quando il 14 maggio 1948 fu proclamato lo
Stato d’Israele, tre giorni dopo l’Urss fu il secondo Stato a
riconoscerlo, dopo gli Usa. E quando la Lega Araba iniziò
l’aggressione contro Israele, l’Urss aiutò il neo-Stato con armi
inviate tramite la Cecoslovacchia.
Si conciliava un simile
comportamento con la crescente ondata di antisemitismo staliniano?
Sì, indubbiamente. A
parte l’illusione politica di Stalin di poter indebolire in questo
modo la presenza ingombrante del colonialismo britannico nella
regione mediorientale - e magari attrarre a sé il nuovo Stato,
all’epoca ancora attraversato da forti pulsioni socialistiche -
c’era anche se non soprattutto la volontà di liberarsi del
maggior numero possibile di ebrei in territori sovietici. Si spalancò
momentaneamente la porta per l’emigrazione e tutti gli ebrei che
vollero recarsi a vivere in Israele furono incoraggiati a farlo. Fu
un esodo «biblico-staliniano», animato dal proposito di liberarsi
di cittadini sovietici difficili da controllare (come effettivamente
si vedrà in tutta la storia della dissidenza sovietica negli anni
dopo Stalin), difficili da assimilare e soprattutto da
irreggimentare nei nuovi schemi repressivi richiesti dall’inizio
della Guerra fredda. Un segnale di questi pericoli per il regime fu
dato dall’inaspettato successo della visita della delegazione
israeliana condotta da Golda Meyerson (Meyer) nell’autunno del
1948.
La repressione
antiebraica
Abbiamo già ricordato
l’uccisione di S.M. Michoels il 12 gennaio 1948. A novembre dello
stesso anno furono chiusi il giornale dell’Eak in yiddish
(Eynikayt) e l’unica editrice ebraica sopravvissuta (Der
Emes). Si cominciarono a chiudere le sezioni ebraiche dell’Unione
degli scrittori, mentre esponenti ebraici della cultura
(universitaria, scientifica, culturale ecc.) venivano gradualmente
allontanati dai loro incarichi. L’Eak fu sciolto il 20 novembre
1948, mentre iniziavano gli arresti degli scrittori di nazionalità
ebraica: la lista è lunga e ormai la si può leggere in libri di
seria documentazione e in alcuni siti on-line.
Nell’agosto 1952 - cioè
tredici anni esatti dopo il Patto con Hitler - furono processati a
porte chiuse dal Collegio militare del Tribunale supremo tutti i
dirigenti dell’ex Eak: 15 imputati e 13 condanne a morte. Fu
condannata al carcere solo una donna (Lina Štern) e fu trattato a
parte il caso di Solomon Bregman, colpito da collasso e morto in
prigione nel gennaio 1953. Nonostante la segretezza delle procedure,
si seppe che gli imputati erano stati sottoposti al consueto
trattamento riservato a chi doveva confessare colpe inesistenti:
interrogatori brutali, torture.
Nell’ottobre 1952
cominciarono gli arresti dei cosiddetti «camici bianchi», cioè il
«complotto dei medici» accusati di voler uccidere vari esponenti
del regime. E poiché molti di costoro erano ebrei, si è sempre
pensato che fosse solo il primo passo per una nuova ondata di
repressioni antisemitiche. Non se ne hanno prove certe e nessuno è
poi riuscito a decifrare cosa avesse in testa «il magnifico
georgiano». E questo perché il 5 marzo 1953 il più grande e più
longevo dittatore della storia moderna chiuse finalmente gli occhi.
Si disse poi che il «complotto» era stato una provocazione dei
servizi segreti e alcune vittime del disciolto Eak furono
riabilitate.
L’attuale antisemitismo
«di sinistra»
Sono già intervenuto
sugli aspetti teorici della questione «legittimità dello Stato
d’Israele»: si veda in Utopia Rossa la mia «Risposta ad
Albertani» del 26 dicembre 2023. Ad essa rinvio, soprattutto per
quanto riguarda la definizione dell’antisemitismo come
distinto dall’antisionismo. Per semplificare, definivo «antisemita»
chi nega il diritto del popolo ebraico a tenere in vita lo Stato
d’Israele che le Nazioni Unite gli hanno assegnato 77 anni fa. E
delimitavo il mondo dell’antisionismo a chi, pur riconoscendo il
diritto all’esistenza di uno Stato democratico israeliano, si
oppone al suo carattere confessionale, ai suoi regimi di destra
sorretti dalle componenti più fanatiche dell’ebraismo, ai
provvedimenti antipalestinesi, al furto di terre in Cisgiordania e
tutto il resto. Di questo antisionismo mi sento parte da sempre,
avendo anche compiuto una delle esperienze più istruttive della mia
vita trascorrendo nel 1966 un periodo di studio e lavoro in uno dei
più avanzati kibbutzim dell’epoca (il kibbutz Lahav).
Le questioni teoriche
sono più che chiare, per chi vuole studiare, capire e giungere a
delle conclusioni compatibili con la realtà attuale
dell’esistenza irreversibile di Israele: una democrazia
imperfetta (soprattutto perché confessionale) che vede la sua
esistenza in continuazione minacciata dalla volontà sterminatrice di
alcune entità o Paesi islamici, con l’orrenda dittatura iraniana
in prima fila. Nel testo citato definivo il regime dell’Iran
un’autentica «vergogna per l’umanità».
Alla chiarezza delle
questioni teoriche non corrisponde però altrettanta chiarezza nelle
questioni politiche, anche per ragioni emotive: ci sono di mezzo
popoli che soffrono, bambini vittime innocenti, bombardamenti di
popolazioni palestinesi, missili su popolazioni israeliane, stupri e
pogrom antiebraici, dichiarazioni di guerra unilaterali. Mi riferisco
all’azione di Hamas compiuta proprio allo scopo di provocare la
grave rappresaglia, incurante del male che avrebbe causato al suo
stesso popolo.
Ma soprattutto ci sono
tanti giovani italiani, europei, nordamericani ecc. che scendono in
piazza con passione a manifestare il loro sostegno all’islamismo
sterminatore di Hamas, dell’Iran, del Qatar, di Hezbollah e
ora anche degli Houti. Non sanno nulla o quasi nulla della questione
palestinese, della questione ebraica e del perché si è giunti a
tale situazione drammatica. Reagiscono emotivamente alla tragedia di
un popolo che soffre, senza stare a chiedersi se ci siano
responsabilità della vecchia Lega Araba con la sua prima aggressione
nel 1948; se non ci sia stato un cinico gioco da parte del governo
sovietico nell’alimentare la politica fallimentare e suicida di Al
Fatah/Olp; se gli Stati arabi più ricchi non abbiano altrettanto
cinicamente usato la causa palestinese come arma diplomatica o di
ricatto commerciale; se sia stato giusto da parte di questi stessi
Stati tenere per decenni i profughi palestinesi in campi-ghetto,
invece di assimilarli nelle proprie strutture sociali (come invece è
avvenuto sia per i 7-800.000 ebrei espulsi dai Paesi arabi, sia per
gli arabi rimasti in Israele).
Non si può non vedere,
però - soprattutto nel caso italiano, ma non solo - che questi
movimenti di giovani manifestanti o membri di gruppi di presunta
«estrema sinistra» sono animati per lo più dagli stessi
hitlerocomunisti che rifiutano di solidarizzare col popolo ucraino.
Hitlerocomunisti - dichiarati o inconsapevoli - che, nella richiesta
di arrendersi (camuffata da «pace» o «tregua») rivolta
all’Ucraina fin dal primo momento, si schierano inevitabilmente
dalla parte degli aggressori, cioè dell’invasione
neocolonialistica di Putin. Ora però non chiedono ad Hamas di
arrendersi e consegnare gli ostaggi.
Giovani che non fanno più
alcuna differenza tra democrazie e dittature, ma anzi sembrano a
volte prediligere proprio quest ultime a scapito della loro stessa
esperienza di vita, che invece si svolge in paesi imperfettamente
democratici o postdemocratici, nei quali essi non accetterebbero
nemmeno la più microscopica riduzione dei loro diritti (ignorando
tuttavia il come e il quando questi loro diritti sono stati
conquistati). C’è una componente razzistica in questo
ritenere che la democrazia vada difesa in Italia o in Occidente,
quindi per noi stessi, e sia invece superflua per gli altri, i popoli
poveri e oppressi. Come è tendenzialmente razzistico approvare
gli atti di terrorismo di Hamas e Hezbollah, giustificandoli con la
loro arretratezza politica e culturale, mentre in patria si difende -
giustamente - fino all’ultimo comma del diritto di sciopero.
Insomma, tra ignoranza e
rifiuto della democrazia (per gli altri, insisto) emerge l’immagine
di un mondo antisraeliano culturalmente confuso e teoricamente
disarmato. Un mondo in cui la lotta contro lo Stato d’Israele
diventa un’entità astratta, visto che non si sa che fine
dovrebbero fare le israeliane e gli israeliani (ebrei, non ebrei,
vari tipi di ebrei, arabi, cristiani, protestanti, atei ecc.).
La lotta a favore dei
movimenti palestinesi che vogliono distruggere Israele e sterminare
il suo popolo (come recita la Carta costituzionale di Hamas del 1988,
ma viene in continuazione ripetuto in tutti i comunicati, anche i più
recenti), significa negare al popolo ebraico il diritto di essere
nazione e il diritto di avere un proprio Stato. E questo
è antisemitismo, addirittura genocida nelle
intenzioni, anche se nessuno di questi giovani ha chiaro cosa sia il
genocidio o quale storia stia dietro questa definizione giuridica,
autentica conquista dell’umanità pagata con le vite di sei milioni
di esseri umani.
Hamas in continuazione
dichiara intenzioni genocide verso il popolo ebraico, in genere
facendo appello anche al martirio dei poveri palestinesi ed evocando
la volontà d’Allah. Lo stesso fanno l’Iran e Hezbollah. L’Arabia
Saudita e l’Egitto hanno smesso da un po’ di tempo di farlo, ma
anche in questi paesi esistono correnti mussulmane fanatiche,
antisemitiche che continuano a invocare Allah perché si decida
finalmente a far scomparire gli ebrei dalla faccia della terra.
Ma questo antisemitismo
si può considerare anche razzista? La risposta è no e mi avvio a
conclusione, tornando anche al tema iniziale dell’antisemitismo
staliniano.
L’antisemitismo
hitleriano fu certamente razzista, giacché il suo disprezzo per gli
ebrei si fondava anche su teorie pseudoscientifiche,
pseudoantropologiche, pseudodemografiche, pseudobiologiche
ecc.: razziali in questo senso del termine. Il loro massimo
punto di riferimento teorico poteva essere il conte Joseph Arthur de
Gobineau (1816-1882) che nel suo Saggio sulla diseguaglianza
delle razze umane (1853-54) aveva posto le basi di tutte le
moderne teorie razzistiche, sviluppate poi in ambienti positivisti
(Lombroso, Le Bon ecc.) e altrove. Ebbene l’antisemitismo nazista
(come quello dei segregazionisti negli Usa o degli attuali
suprematisti, «potere bianco» ecc.) era pienamente razzista per la
sua adesione a teorie razziali. Non sembri un gioco di parole.
Non si può però dire lo
stesso dell’antisemitismo staliniano o sovietico, che non
accennarono mai, neanche inconsapevolmente, a caratteristiche
biologiche o razziali nelle loro campagne antiebraiche. E se per caso
lo avessero voluto fare, avrebbero dovuto scomodare Trofim D. Lysenko
(1898-1976) e le sue pseudoteorie genetiche che Stalin fece diventare
un dogma ad agosto 1948, nonostante gli effetti disastrosi che
avevano avuto sulla già tanto disastrata agricoltura sovietica.
L’hitlerocomunismo
staliniano fu antisemita in senso politico e non razziale. E
tali sono oggi i giovani che in preda a isteria antiebraica,
inneggiano ad Hamas e più o meno inconsapevolmente chiedono la
distruzione d’Israele e lo sterminio dei suoi popoli (Non si
rendono conto, infatti, che proprio questo accadrebbe se Hamas e
l’Iran per disgrazia riuscissero a prevalere, con conseguenze
devastanti come la crescita delle componenti più barbare
dell’islamismo, già in piena crescita per conto loro.)
Insomma, questi
giovani politicamente antisemiti - non razzisti, ma sostenitori
delle dittature purché in casa altrui, filoputiniani senza
accorgersene, molti anche no-Vax (e ciò non è da sottovalutare
perché dice molto sul loro rapporto col sapere e con la scienza),
mobilitabili oggigiorno tramite i social e i telefonini (altro che
noi del Vietnam con i volantini e le riviste teoriche!) - questi
giovani, dicevo, stanno vivendo un loro rito giovanile di
iniziazione collettiva.
Dove approderanno?
L’antisemitismo, il fioloputinismo, l’antidemocrazia e il
disprezzo per la scienza potrebbero far prevedere il peggio. Ma poi,
trattandosi di una fase transitoria, per l’appunto giovanile e da
rito di iniziazione, non è detto che vadano a finire peggio delle
decine o centinaia di migliaia di giovani che «hanno ballato una
sola estate» (nel ‘68) e poi rientrarono nei ranghi del sistema,
scoprendo troppo tardi che quei ranghi erano pessimi e che avrebbero
fatto molto meglio a continuare a lottare, ma soprattutto a studiare
il funzionamento del sistema contro il quale avevano tentato da
giovani di combattere.
Shalom e buona
giornata della Memoria.
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