«A Ravenna tanta
miseria, ma mosaici di splendore inaudito…» È così che nel
1903 Gustav Klimt commenta il suo viaggio nell’antica capitale
bizantina. Pur corpulento e pigro il caposcuola della Secessione
viennese si pone incontro alle tessere policrome traboccante di
«impressioni artistiche molto forti». L’influenza esercitata
su di lui dai mosaici ravennati fu tale che, da quel momento, per
ammissione stessa dell’autore che si riteneva «il solo pittore
oltre Velázquez», è possibile leggere i suoi quadri come una
sorta di mosaici composti da piccoli quanti di colore tenuti
insieme da impercettibili tratti di pennello.
Ma le suggestioni
legate a quel viaggio si sarebbero nel tempo condensate
soprattutto nella ricchezza e l’opulenza del disegno resa
attraverso l’uso decorativo dell’oro. L’artista austriaco si
spostava raramente da Vienna ma, abile mosaicista nonché figlio
di un orafo, non poteva sfuggire alle suggestioni di quelle opere
d’arte. Dal suo soggiorno nella città adriatica scriveva di
tanto in tanto lettere alla madre, suggerendo percorsi ideali tra
i monumenti della città. In una di queste cita un piccolo e poco
conosciuto gioiello visto nella Basilica di San Vitale: «C’è
un labirinto raffigurato sul pavimento di fronte all’altare: è
un percorso di purificazione che conduce al centro del tempio e
che… quando lo si percorre… fa sentire più leggeri». La
sensibilità artistica dell’autore della litografia Teseo ed il
Minotauro aveva colto appieno il significato del simbolo che si
svolgeva ai suoi piedi.
Il labirinto di San
Vitale
Chi si trovasse a
visitare la chiesa di San Vitale dovrebbe dunque, ad un certo
punto, distogliere lo sguardo dai meravigliosi mosaici bizantini e
posarlo sul mistico labirinto descritto da Klimt, che si trova
proprio di fronte all’altare. Si tratta di un dedalo marmoreo a
percorso unicursale il cui cammino è dunque chiaramente
determinato, smentendo così, ma solo in apparenza lo vedremo, la
definizione che ne dà Virgilio nel sesto canto dell’Eneide come
luogo in cui entrare è facile «ma tornare indietro, questa è
l’impresa, la difficoltà». Questo tipo di labirinto, definito
anche «classico», è quello che gli inglesi chiamano labyrinth,
mentre quello dotato di diramazioni e trappole è detto
multicursale o «manierista»; in inglese maze.
Eppure, al di là
dell’apparente semplicità delle volute, il disegno esprime una
carica simbolica unica nel suo genere, che lo vede rientrare
appieno nella definizione virgiliana, non tanto per la difficoltà
del percorso meandrico, quanto per la densità immaginale che
evoca, costringendo così il percorritore all’interno di una
molteplicità di piani a dir poco vertiginosa, che cominciano
proprio dal suo enigmatico punto di partenza: l’ingresso,
infatti, si trova, anzi è in diretta continuità, con l’effige
di una conchiglia.
L’evoluzione del
disegno sembra dunque procedere dall’interno delle valve aperte,
quasi dipanarsi lungo il corridoio meandrico, per poi giungere al
suo centro, di fronte all’altare, facendo così sembrare il
luogo di arrivo la meta di una invisibile perla che, espulsa dalla
conchiglia, sia infine rotolata sino a quella locazione. Il
significato di questa immagine è ineffabile, eppure la sensazione
che si ha nel percorrere le volute che prendono le mosse dalla
conchiglia la riporta immancabilmente alla mente.
Altro enigma che
interroga il visitatore è il senso delle tessere triangolari,
vere e proprie frecce direzionali, che procedono nel senso opposto
a quello del cammino di ingresso, quasi a voler indicare con
certezza la via del ritorno. Non esistono altri esempi di questo
binomio labirinto-conchiglia in tutta l’Europa cristiana e, pur
se la presenza disgiunta dei due motivi è storicamente
determinata all’interno delle chiese, risalendo al Medio Evo, la
loro coniunctio simbolica è certo molto più antica, arcaica,
prendendo le mosse dal costruttore stesso della prigione del
Minotauro, il mitico architetto Dedalo.
Come, quando e perché
nasce allora il labirinto di San Vitale, che significati esprime
il congiunto dei due simboli? La datazione della sua origine è
ancora incerta: alcuni sostengono che sia addirittura coevo alla
Basilica stessa; molto probabilmente è stato quantomeno
rimaneggiato nel secolo XVI, più precisamente nella sua metà, in
quanto si ritrova un progetto riferito alla sua ristrutturazione,
con le stesse proporzioni e misure, cioè un diametro di tre metri
e mezzo, all’interno del famoso IV libro de I Sette libri
dell’architettura di Sebastiano Serlio bolognese in cui egli
tratta sul: «disegno delle maniere de cinque ordini, cioè
Dorico, Ionico, Toscano, Corintio e Composito», pubblicato in
Venezia nel 1550.
Ma il labirinto, come
la conchiglia, entrano tra i motivi architettonici sacri al
cristianesimo molto prima, già verso il XII secolo. Dopo aver
vissuto una lunga fase legata, in Europa, al suo mito più
conosciuto, ed essersi nel frattempo, o al medesimo tempo,
disseminato in tutto il mondo, da Cnosso all’Africa australe,
dalla Finlandia alla Nuova Guinea, dall’America latina alle
steppe asiatiche, in varie forme, materiali e funzioni, ecco che
le contingenze storiche legate al Medio Evo lo riscoprono come
protagonista di un cammino sacro che porta, nel microcosmo dei
suoi meandri, il percorso dell’anima individuale verso la verità
eterna del Cristo, il nuovo Teseo distruttore del Male.
La forza simbolica del
labirinto si dispiega in tutta la sua potente suggestione dunque,
proprio nel periodo in cui la Chiesa riprende ed organizza il
dialogo tra micro e macrocosmo sviluppando, in quei secoli
tormentati che porteranno al Rinascimento, un complesso di
cosmologie in cui il Mondo, e l’uomo al suo centro, altro non
sono che il sunto della più vasta creazione divina.
Qui comincia a
dipanarsi il vasto sistema delle corrispondenze, delle analogie,
delle «segnature» tanto care al Medio Evo neoplatonico e che
culmineranno poi nel Seicento nelle grandi wunderkammer dell’epoca
barocca, per poi tramontare sotto i colpi dell’Illuminismo e
della sua separazione tra le discipline scientifiche.
Di quelle «segnature»
dirà Paracelso nel IX libro del trattato De natura rerum, che
appunto si intitola De signatura rerum naturalium. «Nulla è
senza un segno» egli scrive «poiché la natura non lascia uscire
nulla, in cui essa non abbia segnato ciò che in esso si trova»
(Paracelso, III,7,131). Anche Jacob Boheme, nel suo Signatura
Rerum dice che: «La segnatura sta nell’essenza ed è simile ad
un liuto che rimane silenzioso, ed è muto e incompreso, ma se
qualcuno lo suona, allora s’intende […] così anche il segno
della natura è, nella sua figura, un essere muto […].
Nell’animo umano la segnatura sta artificiosamente predisposta
secondo l’essenza di ogni essere e all’uomo manca soltanto il
maestro che può suonare il suo strumento».
Ecco che allora il
labirinto appare agli occhi della sensibilità medioevale come uno
strumento che l’anima inquieta potrà utilizzare per ricavarne
nuova armonia, riconciliarsi con l’assoluto, poiché anche certe
immagini su un pavimento di pietra sono segni dell’interiore
mondo spirituale che chiede di esprimersi, di risuonare.
Ma, essendo la
Cattedrale a sua volta una immagine della Gerusalemme Celeste, il
labirinto non poteva che rientrare appieno all’interno della
cartografia dell’epoca. Un labirinto su pergamena lo troviamo
infatti, come vero e proprio sigillo ecclesiale, di una «Mappa
Mundi» dell’Inghilterra, nella cattedrale di Hereford; risale
al XII secolo. Qui la relazione tra mappa e labirinto suggerisce
il riconoscimento del possibile, anzi certo, errore umano di
fronte alla rappresentazione grafica del Mundus, di cui così
chiaramente parlano Boezio nel suo De Consolatione philosophiae o
ancor più esplicitamente Onorio di Autun nel suo Imago Mundi.
L’immagine del Mondo
come labirinto dunque, il labirinto come immagine del Mondo; se la
forma grafica influenza la forma mentis e viceversa, il gioco di
specchi dello sguardo medioevale, ancora non aperto alla modernità
prospettica rinascimentale, trova nel dedalo la forma
corrispondente perfetta, l’equilibrio tra conoscenza possibile e
mistero insondabile, tra ciò che può e deve essere percorso ed
il cammino impedito dai limiti stessi della comprensione umana che
si arrende di fronte alla potenza del Numinoso. Quando l’uomo
getterà sul globo la sua rete fatta di meridiani e paralleli per
cercare di ingabbiarlo, la dimensione invisibile, la sua «trama
nascosta», si ritirerà in dimensioni ancora più sottili.
L’assunzione del
labirinto come motivo sacro è anche favorita dalla tendenza
naturalmente ludica di quei secoli, in cui si assiste ad una
progressiva cristianizzazione di degenerati riti pagani, molti dei
quali avevano oramai assunto la forma di un semplice gioco, come
bene dice Huizinga nel suo Homo Ludens: «La vita medioevale è
piena di gioco, piena di elementi pagani che hanno perduto il loro
senso sacrale e si sono convertiti in puro scherzo. La cultura
medioevale non era più arcaica, aveva da elaborare in gran parte
un materiale tramandato, di contenuto sia cristiano che classico».
Ed il complesso
mitologico del labirinto, il suo mitologema, era particolarmente
adatto a questa elaborazione: il percorso tortuoso ed oscuro,
decisamente infero, il cammino verso il centro nel quale si trova
una figura mostruosa e maledetta, mostruosa perché maledetta, il
necessario aiuto divino per sconfiggere il Male e tornare così «a
riveder le stelle»; tutti gli elementi strutturali del mito
potevano subire una trasmutazione in chiave cristiana e dunque
porre il labirinto all’interno del luogo di culto,
rinominandolo; finalmente esso verrà ribattezzato Cammino verso
Gerusalemme, come già verso la fine del XII secolo lo troviamo
definito.
Anche René Guénon
nel suo Simboli della Scienza Sacra ci ricorda che: «Se il punto
a cui arriva quel percorso rappresenta un luogo riservato agli
eletti, allora esso è veramente un Terra Santa, nel senso
iniziatico dell’espressione; in altre parole quel punto non è
che l’immagine di un centro spirituale, così come lo è ogni
luogo di iniziazione».
Il significato
iniziatico del labirinto è adesso all’interno di una cornice
microcosmica che vedeva, in quei secoli, l’oggettiva difficoltà
per un pellegrino di recarsi a Gerusalemme, e dunque la necessità
di sostituirla con altri «luoghi santi»: Compostela, Loreto, e
naturalmente la stessa Roma. Non a caso in questi anni troviamo i
labirinti più belli e «funzionanti» all’interno di certe
chiese; quello della cattedrale di Chartres ad esempio, il cui
sviluppo complessivo supera i 250 metri, viene ancora percorso in
ginocchio dai fedeli.
J.B.F. Gérunez scrive
nel suo Descrizione della città di Reims, che il labirinto della
Cattedrale veniva considerato come l’interno del Tempio di
Gerusalemme. D’altra parte la deambulazione circolare, favorita
dalla forma dedalica unicursale, è una pratica potente; nella
Bibbia, ad esempio, gli Ebrei «circuambularono» le mura di
Gerico per farle cadere con una atto di magia evocativa di
svolgimento labirintico. Molte sono la chiese con labirinti, in
Italia ricordiamo quello di Santa Maria in Trastevere che, con i
suoi quattro metri di diametro, doveva essere molto bello in
origine.
La conchiglia ed il
labirinto
Ma la conchiglia che
relazione diretta ha col labirinto? Dove si trova la base
analogica che lega i due simboli? Qui entriamo nell’aura del
fascino che sempre promana dalla permanenza dei significati
attraverso la mutazione dei loro significanti. Conchiglia e
labirinto, abbiamo detto, sono legati sin dagli inizi nella figura
dell’artefice Dedalo. Il mito che riguarda l’autore della
vacca artificiale in cui Pasifae «si imbestiò nelle imbestiate
schegge», come dice Dante (Purgatorio XXVI, 87) per congiungersi
al toro di Poseidone che poi la feconderà dando nascita al
Minotauro, ci dice anche della sua prigionia all’interno del
labirinto stesso, ad opera di Minosse, e della successiva fuga in
Sicilia, precisamente a Camico, ospite di re Cocalo.
Ma il re cretese
voleva a tutti i costi vendicarsi dell’onta subita a causa delle
capacità tecniche dell’architetto e dunque si recò
personalmente sull’isola per scovarlo. A questo proposito
escogitò un trucco che ebbe successo. Presentandosi in incognito
come un ricco mercante disse che avrebbe dato una forte somma di
danaro a chi fosse riuscito a far passare un filo tra le volute di
una conchiglia. Dedalo cadde in trappola vincendo la sfida: fece
passare un filo sottile attorno al corpo di una formica e poi
spalmò di miele le volute di una conchiglia. L’insetto
mangiando il dolce nettare le percorse e così Dedalo venne
riconosciuto da Minosse, ma le figlie del re, o Dedalo stesso,
riuscirono a uccidere il cretese versando acqua bollente nel suo
bagno.
E così la forma del
labirinto e quella della conchiglia si sovrappongono nella mente
di Dedalo e possono essere parimenti manipolate poiché derivano
entrambe dalle stesse figure semplici: il meandro e la spirale,
motivi archetipici che significano da sempre, ed in ogni luogo,
l’eternità della Zoé, della Vita che scorre su se stessa ed in
se stessa senza interruzioni. Come il filo di Arianna scorre nel
labirinto, così un altro filo scorre tra le volute della
conchiglia.
A San Vitale dunque
due labirinti si rispecchiano l’uno nell’altro; la conchiglia
è semplicemente una forma naturale della costruzione artificiale
di Dedalo. Ecco dunque che l’oggetto naturale, sottoposto alle
stesse leggi dell’analogia e della sussunzione da parte del
cristianesimo, scivola nei secoli procedendo dai suoi significati
simbolici originari: prima scrigno della vita, supporto alla
nascita di Afrodite, emblema delle potenze primordiali legate
all’acqua, la fonte di tutte le virtualità, diventa ora
ricettacolo di altre acque salvifiche, benedette, racchiuse nelle
acquasantiere che compaiono nelle chiese in questa forma
esattamente quando vi entra il labirinto.
Secondo la simbologia
cattolica, allora, già descritta da Giovanni Damasceno nel VII
secolo d.C., «Il fulmine divino è penetrato dentro la conchiglia
più pura, Maria, e ne è nata una perla oltremodo preziosa, il
Cristo». Questo rovesciamento lo vediamo compiuto nella celebre
Pala di Brera di Piero della Francesca in cui la conchiglia che
sosteneva l’erotico corpo della Venere di Botticelli è ora
posta alla polarità opposta, sulla testa della Vergine, al sommo
della scena: segno inequivocabile di corrispondenza simbolica.
È oramai diventata la
conchiglia dei pellegrini sulla via di San Giacomo di Compostela,
il viaggio mistico che ancora compiono iniziati e non iniziati
verso la stessa purissima luce, quella da sempre rinchiusa nel
buio più profondo del labirinto.
Ma, in onore alle
divinità delle origini, ogni volta che immergiamo le dita nelle
conchiglie acquasantiere, ricordiamoci come la piccola
increspatura che ne scaturisce è ancora il corpo di una ninfa
acquatica.