Dove il nostro
marinaio comprende che vivere significa prima di tutto accettare se
stessi, le proprie contraddizioni e debolezze. (Ottavo capitolo de Le
illusioni d'Itaca)
Giorgio Amico
Le illusioni d'Itaca
8. Temporale notturno
Si svegliò a metà della
notte. Era madido di sudore. Fuori il tempo era cambiato. Subito dopo
la mezzanotte si era levato un gran vento. Vento di Ponente dalla
Linguadoca lontana, aria di tempesta che portava con se la pioggia.
Così almeno dicevano i vecchi.
Aveva sete. Si alzò a
bere. Poi tornò a letto, si accese una sigaretta e si mise a fumare
nel buio della stanza.
- Cos'era che gli rendeva così difficile accettare il mondo? - si chiedeva aspettando quella pioggia che non arrivava.
Per anni il mare e il
bere erano state il suo rifugio. Poi aveva trovato riparo nella
scrittura. Lo scrivere lo aveva salvato dall' ansia che si portava
dentro. Sulla pagina bianca si erano materializzati i fantasmi che
abitavano la sua mente, che rendevano frenetiche le sue notti. Lo
scrivere era servito a esorcizzarli, ma non per sempre. In quella
notte, mentre fuori il vento si era ancora alzato e faceva
sbattere gli scuri, li sentiva tutti presenti nel buio attorno a sé.
Presenze fastidiose che venivano da lontano.
Sentì d'improvviso
crescere dentro di sé il desiderio di alzarsi e fuggire.
- Subito. Adesso. - si disse - Andarsene via da lì, fuggire da quella casa. Tornare da dove era venuto.
Non ci sarebbe voluto
molto a fare la valigia e ad andare via. Da sempre si era abituato a
muoversi con appena lo stretto necessario. Gli venne di pensare che
era sempre stato pronto alla fuga. Che tutta la sua vita era stato
solo un continuo fuggire da sé stesso. Un eludere i problemi. La
ricerca incessante di un altrove. Il sogno continuo di un domani che
allontanasse il dolore dell’oggi.
Il pensiero improvviso di
Giulia lo trattenne. Il pensiero di Giulia e la consapevolezza che al
termine di quella ennesima fuga non ci sarebbe stata ad attenderlo
(lo aveva ormai ben chiaro nella mente) quella liberazione da sempre
tanto agognata, ma una nuova più feroce servitù, un'insoddisfazione
ancora più grande. E poi, liberazione da chi ? Da cosa ?
Una inquietudine antica
lo aveva ripreso e lo divorava. Smaniava contro le catene che negli
anni si era forgiato con le sue stesse mani. Una cosa di certo
sapeva: questa sua vita erratica e caotica, che pure in qualche modo
aveva fino ad allora amato, non assomigliava in nulla a quella
libertà tanto sognata negli anni brucianti della gioventù. Così
disperatamente cercata anche dopo aver superato quella sottile linea
d’ombra che ad un tratto segna l’ingresso nell’età matura.
Quando giunge il momento delle scelte definitive.
Fu d'improvviso
consapevole che quei pensieri disordinati rappresentavano una muta
richiesta di aiuto, la cosa che più si avvicinava ad una preghiera.
Da tempo non credeva più, ma forse non era mai stato davvero
religioso, neppure da bambino. Il suo, semmai era stato un
cattolicesimo imposto, una religiosità cupa, fatto di rituali
incomprensibili, intessuta di paura. Paura del peccato, paura della
perdizione, paura della morte. Ripensò ai preti della sua infanzia.
Uomini grigi, schiacciati dalla solitudine, sconfitti dalla vita.
Nessuno di loro gli aveva mai spiegato cosa fosse veramente la fede,
ma il senso del peccato, quello si che glielo avevano istillato fino
a schiacciarlo. Non c'era nel loro mondo perdono, né possibilità di
salvezza.
- Siamo testardi nel peccare, vili nel pentimento. - pensò - Il vecchio Baudelaire aveva capito tutto.
Era come se l'incontro
con Giulia lo avesse svuotato di ogni energia. Fino ad allora aveva
avuto la forza di vivere da solo. Di bastare a se stesso. Di andare
avanti, nonostante tutto e tutti se necessario. Adesso non se ne
sentiva più capace e questa sensazione nuova lo faceva sentire
debole, vile. O, meglio, simile nella sua miseria a tutti gli altri
esseri umani. Per anni aveva creduto di aver raggiunto un punto di
equilibrio che ora gli si rivelava niente altro che una pietosa
illusione.
Si ritrovò a pensare che
in fondo l'aveva sempre saputo, anche se prima di quel momento non
aveva mai voluto ammetterlo neppure a se stesso. Tutto il suo
scrivere, i libri pubblicati, la fama, che pure era venuta, non gli
avevano insegnato nulla di più di quello che già dall'inizio
sapeva, che ogni uomo sapeva. Doveva imparare a convivere con se
stesso. Era questo che Giulia aveva cercato di dirgli prima di
lasciarlo.
- É più la gente che odia che quella che ama. - si disse - Questo è il problema. Non siamo più capaci di vivere con gli altri perché non riusciamo più ad accettare noi stessi. Se lo fossimo, la vita non sarebbe poi una cosa così terribile.
Si alzò di nuovo a bere,
ma niente poteva placare la sua sete. Dal bosco dietro la casa
giungevano i rumori della notte. E ancora pensava ai luoghi che aveva
visto, alla gente che aveva incontrato. Povera gente stanca, segnata
dalla vita.
Aucels portats dal vent…
peisses dins la corrent… indians per la colino
Dicevano così i versi di
una canzone di Sergio Berardo, l'ultimo dei grandi cantaires
occitani. Si mise sottovoce a ripeterne una strofa, quella che
ricordava meglio. Nelle orecchie il suono della fisarmonica e della
ghironda.
Mas venarè la reina di
autopistas
e nos fasarè montar
encar
un bot
si vituras coloràas
via d’i prats e la
melia
la promessa d’aquel
temp
sem aucels portats dal
vent
sem de peisses dins
la corrent
(Verrà ancora la regina
delle/ autopiste/ e ci farà salire ancora/ una volta/ sulle macchine
colorate/ via dai prati e dalla meliga/ la promessa di quel tempo/
siamo uccelli portati dal vento/ siamo pesci nella corrente)
- La vita è fatta di opposti – si disse - Amore e odio. Desiderio e indifferenza. Ricordo e oblio. Piacere e sofferenza. Nulla è veramente come appare.
Tante domande gli si
affollavano nella mente. Era questa solitudine la felicità che
cercava? Questo errare inquieto era la vita che voleva? Tante domande
e nessuna risposta. Ma poi, c’era qualcuno davvero in grado di
spiegare il mistero antico dell’esistere? Sottile come una lama, il
dolore cresceva dentro di lui.
Aprì la finestra:
nell'oscurità l'aria era satura di umidità.
- Sta per piovere. - Disse tra sé.
Il vento agitava le
foglie degli alberi dietro la casa. Poi iniziarono a cadere le prime
gocce di pioggia e tutto il bosco d'improvviso prese a risuonare di
quel ticchettio. In breve fu tempesta. I lampi illuminavano la
vallata mentre l'acqua veniva giù a scrosci. Il temporale si faceva
sempre più violento. Ora pioveva a dirotto. Grosse gocce battevano
contro la finestra, tambureggiavano sulle lose consunte del tetto,
scivolano sul terreno arso dall'estate che le assorbiva avido. Più
che la violenza della pioggia o il rombare cupo dei tuoni lo turbava
il rumore dell'acqua che correva giù lungo il sentiero. Aveva la
sensazione di non controllare più il suo corpo, di essere in balia
di quegli elementi scatenati, simile alle foglie che la corrente
trascinava a valle lungo il viottolo divenuto torrente.
Poi, improvvisa come era
sorta, la tempesta cessò. In piedi sull'uscio osservava lampi
lontani rischiarare il cielo oltre la linea dell'orizzonte.
Si addormentò all'alba
che il giorno già si levava.
(continua)