L'anniversario della rivoluzione d'ottobre come occasione per un ripensamento dell'esperienza e della teoria socialista, questo l'invito di Franco Astengo tanto più attuale nel vuoto assoluto di pensiero critico che oggi affligge la sinistra (e non solo in Italia).
Franco Astengo
7 Novembre 1917: non deporre il filo rosso del ragionamento
Scrive Lucio Magri nel suo “Sarto di
Ulm”: sono infatti diventato comunista, per ragioni d’età,
quando la temperie del fascismo e della Resistenza si era chiusa da
un decennio, anzi dopo il XX congresso del PCUS e i fatti d’Ungheria,
e dopo aver letto oltre a Marx, Lenin e Gramsci anche Trockij e il
marxismo occidentale eterodosso. Non posso dunque dire: l’ho fatto
per combattere meglio il fascismo, oppure dello stalinismo e delle
“purghe” non sapevo nulla. Ci sono entrato, perché credevo, come
ho continuato poi a credere, a un progetto radicale di cambiamento
della società di cui occorreva sopportare i costi”.
A 95 anni dalla Rivoluzione d’Ottobre,
da cui giorno che John Reed definì come “ I dieci giorni che
sconvolsero il mondo”, prendo a prestito le parole di Magri per
cercare di argomentare ciò che ho cercato di descrivere nel titolo:
non deporre il filo rosso del ragionamento.
Argomenterò questa mia necessità
seguendo il filone indicato da un grande pensatore marxista, Eric J.
Hobsbawn nel suo “Il Secolo Breve, 1914-1991”, riprendendo
letteralmente dal suo testo una citazione di Marx del 1859 : “
Nella produzione sociale dei loro mezzi di sussistenza gli esseri
umani entrano in relazioni determinate e necessarie, indipendenti
dalla loro volontà, relazioni produttive che corrispondono a uno
stadio determinato nello sviluppo delle forze produttive materiali…In
una certa fase del loro sviluppo le forze produttive materiali della
società entrano in contraddizione con le relazioni produttive
esistenti, ossia, ciò che non è altro che l’espressione legale di
queste, con le relazioni di proprietà entro le quali esse si erano
mosse precedentemente. Da forme di sviluppo della forze produttive
queste relazioni si sono trasformate nelle loro catene. Entriamo
allora in un’epoca di rivoluzione sociale”.
Ecco descritto, profeticamente in
anticipo, il conflitto tra le forze di produzione e la sovrastruttura
sociale, istituzionale ed ideologica che, dalla Rivoluzione d’Ottobre
in avanti, aveva trasformato una economia agraria in una economia
industriale avanzate, dentro alle grandi temperie del ‘900 tra le
quali si è collocata, al centro, la grande tragedia della Seconda
Guerra Mondiale e poi il dipanarsi complesso e difficile di quella
che è stata definita “Guerra Fredda”.
I problemi che “l’umanità” o
piuttosto i bolscevichi si erano posti nel 1917 non erano risolubili
nelle loro circostanze di tempo e di luogo, o lo erano solo molto
parzialmente. Oggi ci vorrebbe un grado di fiducia
molto alto per sostenere che è visibile una soluzione nel futuro
prossimo per i problemi scaturiti dal crollo del comunismo sovietico
o per affermare che ogni soluzione che si offrirà nella prossima
generazione potrà rappresentare un punto di progresso.
La situazione che si trova di fronte a
noi appare chiara: con il crollo dell’URSS l’esperimento del
“socialismo reale” è terminato. Infatti, anche dove sono
sopravvissuti regimi comunisti come in Cina essi hanno abbandonato
l’idea originale di una economia controllata dal centro e
pianificata dallo stato in una società completamente
collettivizzata, oppure l’idea di una economia cooperativa senza
mercato né proprietà privata. Non possiamo però cedere senza
combattere la battaglia delle idee rispetto alle tesi di Huntington e
Fukuyama : la storia non è finita!
Il punto sul quale ragionare ancora,
proprio oggi nella ricorrenza della data della presa del potere da
parte dei bolscevichi, riguarda il fatto che l’esperimento
sovietico non era stato concepito come alternativa globale al
capitalismo, ma come risposta specifica alla situazione peculiare di
un paese come la Russia. Il fallimento della rivoluzione
mondiale, tra la fine degli anni’10 e l’inizio degli anni’20
nell’immediato indomani della seconda guerra mondiale, portò così
all’emergere della linea del “socialismo in un paese solo” e,
quindi, all’assunzione di quel compito di alternativa globale,
sulla base del quale l’URSS ottenne comunque notevoli risultati, a
partire dalla costruzione degli altri Partiti Comunisti e della
vittoria nella seconda guerra mondiale.
L’esito, però, è stato quello già
rilevabile nel vizio d’origine (Plechanov scrisse: che la
Rivoluzione d’Ottobre potrà portare, nel migliore dei casi, ad un
“Impero cinese tinto di rosso”). L’impossibilità di rappresentare, da
parte del comunismo sovietico, una alternativa globale al capitalismo
ha così portato, alla fine, al rivelarsi di una economia senza
sbocchi e ad un sistema politico al riguardo del quale non è
possibile esprimere certamente un giudizio positivo.
Il nocciolo della nostra riflessione
deve però risiedere, oggi come oggi (dopo almeno due decenni di
arresto di qualsiasi tentativo di sviluppo in avanti di un pensiero
“critico”, al di fuori dalle logiche della globalizzazione e
dell’altermondismo, ma considerando tutti gli sviluppi verificatisi
sul terreno dell’economia, dell’innovazione tecnologica, del
ruolo degli “Stati-nazione”, della diversità e complessità dei
livelli di sviluppo nell’ambito del pianeta) nel cercare di
comprendere fino a che punto il fallimento dell’esperimento
sovietico abbia messo in dubbio l’intero progetto del socialismo
tradizionale, cioè il progetto di una economia basata essenzialmente
sulla proprietà sociale e sulla direzione pianificata dei mezzi di
produzione, di distribuzione e di scambio. Si tratta di aprire un vero e proprio
filone di pensiero, tante volte enunciato, ma mai praticato: si
tratta di separare la questione del socialismo in generale da quello
dell’esperienza specifica del “socialismo reale”, con coraggio
e curiosità intellettuale.
Proprio l’incapacità dell’economia
di tipo sovietico a riformarsi in un “socialismo di mercato”,
come pure si è tanto di fare dimostra con chiarezza come il
fallimento del socialismo sovietico non intacchi la possibilità di
esplorare la possibilità di altri tipi di socialismo, intesi –
davvero – come alternativa di società e quindi di espressione di
una cultura politica assolutamente autonoma ed in grado di affrontare
le grandi contraddizioni dell’oggi, dal punto di vista della
difficoltà della condizione sociale delle grandi masse.
Non mi addentro nell’analisi delle
visioni profetiche di cui pure disponiamo (Hilferding sulla
finanziarizzazione, Luxemburg sul “socialismo o barbarie”,
Gramsci sull’egemonia, tanto per fare soltanto alcuni esempi). Concludo ribadendo, appunto: non
deponiamo il filo rosso del ragionamento.