TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 23 febbraio 2010

Ricordo di Tullio Mazzotti (Tullio d'Albisola)


F.T. Marinetti e Tullio Mazzotti

Proseguendo nell'omaggio al movimento futurista, la madre di tutte le avanguardie artistiche del Novecento, Vento largo ricorda oggi Tullio Mazzotti ripubblicando ampi stralci di un articolo apparso nell'ormai lontano 1971 su "Liguria, rassegna dell'attività ligure".


Ricordo di Tullio Mazzotti

Tullio S. Mazzotti, albisolese, figlio di Giuseppe, bresciano, era nato ad Albisola nel 1899. cresciuto alla scuola del padre, che nel 1903, dopo le esperienze di Albisola, Spotorno e Napoli, aveva iniziato la lavorazione delle maioliche per suo proprio conto, ed a fianco del fratello Torido, seguace del movimento futurista ed autore di grandi ceramiche, esordì, dopo esser stato anche allievo della scuola di Faenza che conserva sue opere nell'omonimo Museo della Ceramica, alla famosa Esposizione Internazionale di Arti Decorative e Industriali Moderne di Parigi (Grand Palais, 1925), ed alla non meno nota Mostra Internazionale delle Arti Decorative di Monza (Villa Reale, 1925). A Parigi, attraverso la tipica e suggestiva Sala Ligure, vennero messi in luce i suoi boccali ed altri suoi manufatti unitamente alle cose d'arte nostrana degli anni ruggenti o folli, ed a Monza, Attraverso la nutrita Sezione Ligure, i suoi vasi ed ancora i suoi boccali.

Nel suo saggio "Savona Futurista" (Agosto '69) Giovanni Acquaviva testimonia che "Tullio consolida dalle sue ceramiche plastiche forme d'artefici pur futuristi d'altre città: assieme a quelle di Farfa e mie, ceramiche di Munari, Fillia, Prampolini, Diulgheroff". D'altra parte in "Quando la Liguria era diventata futurista" (Settembre 1969) Carlo De Benedetti attesta che Tullio di ritorno dall'Internazionale di Parigi del 1925 "non ebbe più esitazioni e passò il Rubicone: da quel momento fu futurista sin nel midollo delle ossa". Tutto ciò è comunque ampiamente documentato dalle "ceramiche futuriste", notevoli per forma sintetica e geniale decorazione, che il Mazzotti espone alle seguenti principali mostre: Marinetti ed i suoi trentatè Galleria Pesaro, Milano '29: Internazionale delle Arti Decorative, Monza '30; Gruppo Genovese d'Avanguardia a Futurismo Sintesi, Galleria Vitelli, Genova, 1931; Triennale di Milano, 1936; Internazionale delle Arti Decorative, Padiglione Italiano, Parigi, 1937.



N.Diulgheroff e T. Mazzotti

Particolarmente interessante, in proposito, risulta il commento di Gemma Roggero Monti - unica esponente femminile del movimento futurista genovese della seconda ondata, immortalata dal cartopittore e poeta recod Farfa (Vittorio Tommasini), "nelle sintetiche ore passate coi sintetici amici del gruppo Sintesi di Genova ad Albisola il 1° Febbraio 1931", con questo fulmineo profilo: "Sintesi"/con la Roggero-Monti/fiera/alfiera/portabandiera/della grande fiamma - che puntualizza la nuova visione del ceramista e del pittore: "Le sue ceramiche sono nuove: nuove di concezioni e di linee. La guerra, la macchina, l'aviazione furono per Tullio d'Albisola vasti campi ove alla sua fervida e geniale fantasia era facile raccogliere larga messe d'ispirazione".



T. Mazzotti, Boccale

In chiave di completa adesione al futurismo - futurismo considerato ieri come "unico movimento rivoluzionario di marca italiana nel quale, chi abbia veramente talento, può affermarsi con vera originalità" (E. Rossaro), ed oggi come movimento il cui prestigio "è indubbiamente in rialzo e l'operazione si ripercuote sulle ultime generazioni, anche perchè il retroterra storico è ormai riconosciuto: Il futurismo è anzi disputato ed ecco un critico francese (segno buono, anche se irritante) chiamarlo questo movimento francese nato da genitori italiani" (M. Calvesi) - Tullio d'Albisola elabora e realizza il monumentale "Esaltazione plastica dell'Architetto Sant'Elia", i giganteschi pannelli della "Allegoria" e delle "Corporazioni" (in collaborazione con N. Strada); la serie di piatti murali (Della "Primavera", di "Noli", ecc.); la serie dei boccali (del "Bevitore, dell'ingranaggio", ecc.); la serie delle figure caricaturali e delle maschere popolari; la patetica coppia degli oranti del grande calamaio "Cave Adsum"; e tanti altri manufatti minori.

Se Albisola fu centro irradiante della ceramica futurista, che valse a sconvolgere le calme acque della produzione italiana ed a smuovere quelle stagnanti delle nazioni vicine - e qui debbo ricordare le significative parole di F.T. Marinetti e T.S. Mazzotti: "Albisola, capitale ceramica d'Italia dove una doppia velocità di automobili autobotti treni elettrici e motoscafi eccitati dal salto in paese che fa il ponte sul torrente forniscono fantasiosamente il più denso e fusibile blu marino" - Tullio d'Albisola fu veramente il ceramista, anzi l'aeroceramista, che diede forma, con carattere di primogenitura, al multitattilismo ceramico (manufatti palpabili); alla simultaneità ceramica (contrastante o armonizzante); alla suggestione ceramica (accentuazione cromatica).

Dalla tastiera cromatica futurista Tullio d'Albisola trae infatti le note più alte per elevare il suo squillante e travolgente inno. Con l'oroceramico, con l'indacoceramico e col blu marino traduce in realtà i canoni del Manifesto Futurista, materializzando, in cifra coloristica, il "cielo tipo Capri" ed il "mare tipo Portofino", da "vendere o regalare alle funebri gelate fangose città nordiche".

Dalla tastiera poetica futurista Tullio d'Albisola ricava ancora i suoni più netti per innalzare la sua gioiosa e schioppettante lirica. Laureato da Marinetti, con tanto di "casco di alluminio", poeta-record, per aver vinto il circuito lirico di Torino, partecipa, successivamente, alla prima edizione "Lito-Latta" di poesie futuriste in veste metallica con sintesi ottiche, ed anche alla seconda, con testi lirici. Scrive altre opere sintetico-futuriste e, più tardi, stende notevoli articoli e monografie sull'arte ceramica, collaborando anche all'Eniclopedia dei Ceramisti, di A. Minghetti. La sua collana di studi sulla ceramica di Albisola comprende, naturalmente, "La ceramica futurista" (Officina d'Arte, Savona, 1939), e si estende ai ceramisti della rinascita ai presepi d'Albisola, alle ceramiche Mariane, alla ceramica popolare ed ai profili dei ceramisti.

(...)

(Da: Vitaliano Rocchiero, La perdita di Tullio Mazzotti, Liguria, Genova, giugno 1971. Ora in: Carlo De Benedetti, Il Futurismo in Liguria, Sabatelli Editore, Savona 1976)


lunedì 22 febbraio 2010

Astrid Fremin, Sculture da toccare





SCULTURE DA TOCCARE
Astrid FREMIN

Inaugurazione Sabato 27 Febbraio alle ore 17.00

Presentazione della mostra a cura di Giuseppe MAGINI

Galleria d'Arte del Cavallo,
via F.lli Cervi 1
Valleggia di Quilliano, SAVONA



Astrid Fremin,nata in Normandia,si è laureata a Parigi,Ecole du Louvre,specializzandosi in Arti dell'Africa e dell'Oceania,Archeologia Orientale ed Arte Contemporanea.
Ha compiuto viaggi di formazione in Spagna,Germania,Italia,Grecia,Turchia,Stati Uniti,Polinesia.Nel 1986,dopo un soggiorno a New York,ha deciso di diventare scultrice.
La mostra personale dell'Artista ,organizzata da QuilianoArte ha il patrocinio del Comune di Quiliano e della Provincia di Savona.

Ingresso libero.

domenica 21 febbraio 2010

Guido Seborga, Genova




Spesso la scrittura di Guido Seborga viene sbrigativamente etichettata come "realismo". Non siamo d'accordo e crediamo che il testo proposto oggi, straziante dichiarazione d'amore e di sofferenza per una città difficile da comprendere, testimoni come in Seborga la descrizione di uomini e luoghi sia prima di tutto viaggio alla scoperta di un paesaggio interiore lacerato e dolente.


Guido Seborga

Genova


In una curva spezzata Genova appare con le sue case alte e grige. Un sole invernale illumina le colline. Il fumo delle fabbriche e del porto blocca il sole nel cielo e in alto mare; non permette ai raggi di penetrare nel porto, le vecchie case dell'angiporto di sottoripa sono nere. In porto l'acqua è dominata dai ponti dalle banchine dalla calate, le navi stanno nell'acqua pigre e stanche; le grues svettano al cielo. In questa grande sacca nera dall'acqua stagnante melmosa, non c'è riposo. Silos, vagoni, carrelli, rotaie, opifici, bar, cassoni, sacchi, balle, ceste; ed in mare chiatte, e rimorchiatori, vapori, navi, petroliere; e tanti uomini in lavoro.
(…)
Ogni sezione del porto con la sua specialità. Industriale per le riparazioni alle navi, più a levante ancora il mercato del pesce, più a ponente la darsena, la stazione marittima per i grandi viaggi romantici o d'affari, vicino alla Lanterna il carbone, poi la legna, e le cisterne per i carburanti e olii, e il materiale grezzo, il ferro d'ogni genere e forma per la Sinigalia.




Porto e fabbriche, altiforni e laminatoi, metalmeccaniche. E i casoni alti e grossi di Genova, sporchi, sono luoghi tristi, dove gli uomini si rifugiano dopo tanto lavoro. Genova tenace che lavora duramente, che spende poco, ricchezze dentro palazzi antichi e i nuovi grattacieli, e traffico immenso nelle poche strade mai larghe, tamponamenti continui, si dovrà fare la sopraelevata.
(…)

Nei casoni popolari sulla brulla e triste collina del Belvedere, dove i prati non riescono più a diventare verdi, e squallidi sono i grigi cimiteri dagli alberi secchi; nelle catapecchie lungo la riva del mare a Voltri a Pegli, dove almeno si comincia a respirare aria migliore, sino a Ravecca umida e colpita dal vento, nei vicoli e nelle strette di Prè e del centro; in ogni dove una mancanza ancora di vita realmente moderna, una lotta crudele, una contraddizione straziante tra la ricchezza e la miseria.
(…)



I lavoratori genovesi sono rudi ma aperti come tutti i marittimi e portuali, trattenuta e violenta è la vita nel groviglio di queste case nere e fumose, solo nei dintorni appaiono le meravigliose e antiche ville liguri, splende la luce e anche l'erba diventa smagliante. Genova è qualcosa di molto di più o di molto meno bello della Liguria.
(…)
Genova con il suo porto gobbo, Genova scarna, con la sua disperazione di pietra nera. E tra i vichi stretti o i corsi più larghi e dai pochi alberi secchi, in riva al Bisagno dalla poca acqua e dalle molte pietre, dal Polcevera alla Foce, dopo la giornata attiva, riprese violente della malavita, coltello e gancio. Qui ci si può veramente sentire un uomo da recuperare, un uomo perduto, un uomo ferito.

(Da: Ergastolo, 1963)

Guido Seborga
Morte d'Europa/Ergastolo
Spoon River, Torino 2009




sabato 20 febbraio 2010

Sull'incerta linea dell'onda, poesie di Adriana Romano



Adriana Romano

Sull'incerta linea dell'onda



“C'è in questi versi il segreto dell'ordine e dell'anarchia, dell'idillio mentale, del sogno fallito, della finitezza sensibile, del riconoscimento della fretta, dell'indugio, della maturazione.
C'è potenza di respiro nel gioco delle analogie interiori, come nella dialettica di una sensualità, così naturale, da identificarsi con lo spirito puro dell'esistenza...”

(Dalla Prefazione di Angelo Calabrese a “Sull'incerta linea dell'onda”)

PRESENTAZIONI

- “Piacere, caro, sono io!”

Così potessi presentarmi
- come un'estranea farebbe -
a te, pronunciando – ben sillabato il suo nome.

E spiegarti chi sono e raccontarti di me
come si fa certe volte sul treno
durante un lungo viaggio
per ingannare il tempo
parlando con un compagno
che mai più rivedremo
e di cui non ci importa.


MA ESISTONO?

“Ma esistono le donne serene
fatte di dolcezza, prive di noia,
ignare d'inquietudine?” Ti chiedo,
mentre camminiamo fra le foglie cadute
e respiriamo il primo freddo d'autunno.

Tu mi guardi, sospiri e un po' sorridi,
e non parli, amica, ed alzi gli occhi a seguire
altre passanti, frettolose o quiete,
eleganti o trascurate, che per la città
si muovono come noi,
a noi estranee, o forse sorelle.



INVIDIA

Invidio
la leggerezza della nuvola
che incanta i miei occhi,
li distoglie da terra,
dalla strada di casa,
dai sassi e dal freddo

e quel cielo di luce, ad oriente,
poco prima dell'alba,
con una falce di luna
che regge il globo brillante
come ad offrirlo a chi,
da molto in alto,
lo può ricevere in dono.

C'è una stella raggiante: ed io
sempre meno pesante,
sempre meno opaca vorrei
sgusciar via da qui
e da me stessa, per tornare
cristallo e diamante
e ubriacarmi di aria
e vertigine.


PAROLE
La mareggiata
fuori stagione
si è mangiata
quasi tutta la spiaggia.

La terra e il mare hanno
di queste
parole.


Adriana Romano, insegna Lettere presso il Liceo Scientifico “O. Grassi” di Savona. Da anni segue un suo personalissimo percorso poetico di cui sono testimonianza le raccolte Sull'incerta linea dell'onda (Firenze, 1999) e Chiocciola e Conchiglia (Savona, 2003).

IN-EC-CESSO una bomba per cintura


"Kamikaze non si nasce. Forse si diventa.
E non e' vero che non importa come: importa sempre come.
Ma importa a pochi".

Un operaio


“(…) Ci sono vicende che accadono solo per essere conosciute. Perché altri le sappiano. E questo succede sia a vicende reali sia a vicende inventate. Quando qualcuno conosce queste vicende, senza accorgersene perde un pezzo di carne. Ma ne nasce subito un altro. Conoscere una di queste storie vuole dire rinnovare un pezzo della propria carne. Sono storie che hanno a che fare con la carne di chi le conosce nella misura in cui esistono per essere conosciute. Ecco. Questo è il senso: la carne. E' qualcosa di incomprensibile. Ma c'entra la carne. (…) Questa storia è una di un quelle lì, di quelle che c'entrano con la carne.


IN-EC-CESSO
Una bomba per cintura


luci
Simona Gallo

testo e recitazione
Marco Gobetti

direzione
Anna Delfina Arcostanzo, Simona Gallo, Marco Gobetti


Martedì 23 febbraio 2010 h 21
Cinema Teatro Ambra
Viale Brigata Ravenna 8 Alessandria

Informazioni 0131.252079


Le basi e l’urgenza del dire

Ad un secolo dalla conquista delle otto ore lavorative, è in atto nelle fabbriche una subdola rigenerazione degli atti di potere, di quel silenzioso e logorante mobbing che è il terrorismo psicologico fatto di sguardi, urla - o "non sguardi" e silenzi - e meccanicistiche disumanità. Atti di potere taciuti e sottovalutati, che l'ingresso dell'informatica nell'industria ha definitivamente offuscato, creando robot perfettamente mascherati: semidei imbellettati competenti e rassicuranti da una parte e uomini sani saggi tranquilli e felici dall'altra.
Oggi accade spesso che per gli operai, i pensieri e i sogni - nell'attimo stesso in cui nascono - si trasformino rispettivamente in peccati gravi ed illusioni.
Le fabbriche sono specchio fedele della società occidentale contemporanea, fiera dei suoi due fondamentali ingredienti:
- una classe dirigente spaccona impreparata ed arrancante, manovrata da uno stato maggiore furbo sprezzante e interessato;
- una cittadinanza licenziata da anestetici ora dolcissimi ora amarissimi, vittima e artefice del proprio inarrestabile precariato culturale.
Fra i due ingredienti un muro pesantissimo, reso perfettamente invisibile ad arte, da forze superiori molto terrene.
Occorre smettere di bere spettacolo e di dare spettacolo: urge diventare spettacolo, per ritornare ad esistere.
Recuperare passato e presente, per agire pacificamente ma intelligentemente. Lavorare non per sopravvivere, ma per vivere guadagnando futuro.


"E' opera di fantasia ma del tutto verosimile e alquanto sconvolgente questo curioso monologo di Marco Gobetti, attore ed autore che nel suo percorso dosa saggiamente esperienze in compagnia o in solitudine.
Queste ultime però sono sempre marcate da una strenua esigenza narrativa. Vuole raccontare, e lo sa fare bene, certe storie. Come questa di un operaio barricatosi nel cesso di una fabbrica, esasperato dal mobbing, vessato da innumerevoli grandi e minute violenze; ha un palmare e un cellulare, comunica con l'esterno tramite e-mail e qualche furente risposta a un telefonino dotato di buffa suoneria, che sdrammatizza, perché il contesto è tragico. Appiccicata al busto, il protagonista ha una cintura di esplosivi.
Si farà saltare in aria se la direzione non accetterà le sue richieste, che sono di poter andare a funghi qualche mattina, di avere insomma una vita più libera, scardinata dalla produzione. Quasi dialoga con il pubblico; su un palchetto rettangolare traccia limiti di carta igienica. Screzia di ironia un'attesa snervante, snocciolando un soliloquio di ottima fattura. "

Maura Sesia - La Repubblica, 15 settembre 2007

venerdì 19 febbraio 2010

Prolegomeni per il "Manifesto Costitutivo per l'Arte del Superamento"


Nell'universo spettacolare del Capitale diventato totalità l'Arte diventa uno strumento potente di sovversione, a patto che se ne superi il carattere reificato di merce. Il superamento dell'Arte come fattore di alienazione diventa allora l'Arte del Superamento.



Lucio Vasta

Cronopio Cervellatore


Prolegomeni per il “Manifesto Costitutivo per l’Arte del Superamento”


Il fallimento del superamento dell’arte è forse dovuto all’equivoco di aver voluto far coincidere il termine superamento col termine abolizione. Essendo l’Arte nelle sue forme e dalle sue origini, manifestazione identificativa dell’Uomo, entità biologica immaginativa, l’abolizione dell’Arte equivarrebbe all’eliminazione dell’Uomo.
Per superamento dell’Arte occorre invece intendere l’abolizione dei meccanismi che rendono l’Arte schiava della cultura/civiltà/società dominante, che se n’appropria fagocitandola e digerendola, di fatto, immunizzandosi.
La posizione e l’obbiettivo dell’Internazionale Situazionista erano quindi - almeno in un primo tempo- di operare questo superamento non eliminando l’Arte ma l’oggetto artistico in quanto tale. L’artista non deve più produrre oggetti artistici, bensì se stesso. I situazionisti ritenevano che l’oggetto artistico in quanto “cosa” non potesse sfuggire suo malgrado e al di là delle intenzioni dell’artista, alla propria mercificazione; ma, anche se così non fosse, l’atto creativo, che pone l’artista nella condizione di oggettivarsi nella propria creazione, produce alienazione. Alienazione che per i situazionisti può essere evitata soltanto se l’artista produce se stesso e l’ambiente in cui opera e vive, in altre parole producendo una nuova società in perenne trasformazione. In questo modo, l’artista è sia soggetto sia oggetto realizzato in un continuo rinnovamento di esperienze costruite chiamate situazioni.
L’Arte a questo punto non potrà più intendersi come ornamento/trofeo culturale elitario, ma come personale e collettiva rivoluzione continua.
Parrebbe a prima vista che la Performing Art e la Body Art, forse anche inconsapevolmente, perseguano questa strada ma in realtà anche per queste forme d’Arte il limite sta nella ricerca di una comunicazione estetica concettuale che prevede ancora un soggetto/oggetto (artista) ed un
destinatario (fruitore).
Le “Situazione”, immaginata dall’I.S., invece prevede la costruzione intelligente di momenti e manifestazioni giocose collettive in grado di portare alla luce i reali desideri di ognuno e di farne nascere di nuovi e genuini.
L’Urbanistica Unitaria, le derive e i detournament erano gli strumenti per portare allo scoperto le contraddizioni della società capitalista, della cultura borghese con le sue forme di propaganda, di irregimentazione e di coercizione.
Tutto questo con lo scopo dichiarato di lavorare alla costruzione cosciente di una nuova civiltà.
Un così ambizioso progetto, per la sua intrinseca essenza “rivoluzionaria” avrebbe avuto bisogno di tempo per raccogliere adesioni e per raggiungere una massa critica tale da poter registrare, se non un successo, almeno un segno tangibile di modificazione della percezione della società da parte di larga parte di popolazione. Pur teorizzando le necessarie fasi temporali il pensiero dei situazionisti accellerò fortemente e Guy Debord, in particolare, preoccupato di dogmatizzare il concetto fondativo rivoluzionario, con un rigore inconciliabile, fece sì che l’esperienza situazionista stessa bruciasse le tappe, così che dalla fondazione dell’Internazionale Lettrista - sua progenitrice più diretta - allo scioglimento dell’I.S. passarono pochi anni (dal 1952 al 1972). Anni trascorsi tra litigi, espulsioni e radicalizzazioni.


1972-2010
A distanza di quasi quarant’anni dalla fine dell’I.S. qual è l’attuale stato delle cose? L’I.S. e i suoi adepti avevano visto lontano ma si erano probabilmente sbagliati nel valutare la reale decomposizione della società borghese. Forse in anticipo sui tempi Debord ha lucidamente e ferocemente criticato la così detta società del benessere del dopo guerra, poi sfociata in quella consumistica più spinta che ha visto auge a partire dagli anni 80; da quando, cioè, la mercificazione e arrivata alla svendita delle speranze e dei desideri dell’Uomo con bisogni sempre più artificialmente indotti.
L’attuale crisi finanziaria/economica globale sta però mostrando in toto la vera faccia del “sistema” che si sbarazza senza esitare di quanto è superfluo per la propria sopravvivenza e cioè della forza lavoro che non è più in grado, per sopragiunti limiti di povertà, di consumare a sufficienza. I governi statali da una parte proteggono il sistema, dall’altra se stessi, Con gli - più o meno efficaci - ammortizzatori sociali fanno passare milioni di persone dallo stato di consumatori a quello di assistiti. Quella d’assistiti è, per i più fortunati che ne godono, una condizione momentanea e gli ammortizzatori hanno lo scopo non di arrestare la caduta ma di renderla silenziosa e pertanto innocua per i governi ed il sistema stesso, facendo, di fatto, regredire una larghissima parte della popolazione dalla schiavitù comoda dei falsi bisogni alla schiavitù drammatica dei bisogni fondamentali: il cibo e un riparo. Ideali necessità di libertà e giustizia non sono più elusi ma addirittura seppelliti dalla situazione contingente.
Spesso, anzi continuamente, si sente proclamare dagli organi di informazione/disinformazione ufficiali che la situazione non è catastrofica, perché lo stato sociale sta reggendo. Nel frattempo la povertà dilaga e la forbice si apre sempre di più e ci sono ricchi sempre più ricchi, ricchi diventati
poveri e poveri sempre più poveri. Se il sistema non regge sarà catastrofe e verrà il tempo dei lupi ma se il sistema regge sarà dramma e verrà comunque il tempo dei lupi: infatti, se prima della crisi il 20% della popolazione godeva dello 80% delle risorse, dopo la crisi è probabile che il 2% della popolazione avrà messo le mani sul 98% delle risorse, lasciando il 98% della popolazione in uno stato di guerra permanente per la evidente insufficiente spartizione del restante 2% della torta.
Proviamo ad abbandonare i catastrofismi e ad essere ottimisti; immaginiamo invece che tutto andrà a posto e che nel giro di poco tempo si tornerà ad una visione di un mondo quale era quello prima della crisi. Che cos’ è che a quel punto vedremmo? Bene, l’ambiente circostante non potrà che apparire ai più smaliziati come se fossimo all’interno del ventre materno, immersi nel liquido
amniotico, suggenti linfa vitale in una passività assoluta. In questa “poetica” visione metaforica il ventre materno rappresenta il “sistema tecnologico finanziario economico e sociale”; il liquido amniotico rappresenta lo “spettacolo diffuso”, che ci protegge e c’impedisce di venire in contatto con la realtà del sistema, e noi, ancora non nati, che siamo allo stesso tempo la necessità del sistema e la sua causa. Siamo noi che abbiamo generato il sistema che ci alimenta come una madre.
Pensare oggi, all’attuale situazione, in termini di lotta di classe e di proletariato può sembrare ridicolo; le classi sociali, lungi dall’essere state superate, si sono modificate esteticamente e la lotta di classe in questo modo elusa; merito del “benessere” elargito, e dello spettacolo diffuso. Esiste ancora un “capitale”, esiste ancora una “borghesia” ed esiste ancora un “proletariato”, inteso come salariato e reso sempre più “precariato”, ma tutto è confuso non si riesce più bene a capire a colpo d’occhio chi sta da una parte e chi dall’altra. Tutti sono affascinati dallo spettacolo. E’ la “struttura” ad essere cambiata, ad essersi reticolata ed il reagente è divenuto dominatore inquinante, ed è un “Sistema Automatico”. Tutti sono ormai schiavi del sistema, sia il capitale sia la borghesia, il proletariato il sottoproletariato ecc. E gli scarti, le aberrazioni, della “società civile”, e cioè le mafie e le tirannie ora sono i cani da guardia del sistema.
S’impone la necessità di smantellare o almeno di contrastare questo “sistema” che a patto di una piccola rinuncia d’apparente libertà e giustizia, promette felicità e, un presto ritrovato, benessere, ma generando guerre, oppressioni, genocidi, catastrofi ambientali e infinite sofferenze nelle popolazioni più deboli e indifese. Un sistema nascosto agli occhi della gente che è massa ipnotizzata dallo spettacolo diffuso e non riesce a percepire il disastro, e se qualcosa percepisce, volta lo sguardo, preoccupato di perdere quel poco o tanto in cui si è oggettivato: il lavoro, la casa, i beni, la famiglia, gli amici ... - senza comprendere che senza reagire prima o poi perderà tutto comunque, se non lui i suoi discendenti -.
In quest’oggettivazione è lo spettacolo diffuso; lo spettacolo che è l’oppio dei popoli.
Ci s’impone di smantellare questo sistema ed il nostro impegno artistico dovrà essere “per una ri-creazione futuribile dell’universo”: la costruzione di un futuro possibile che ha bisogno per effettuarsi che il nostro sforzo sia per la decrescita, per la salvaguardia della natura, per la salvaguardia dell’Umanità.
Questo è quanto la Storia c’impone oggi, ed intendiamo agire, per quanto ci compete.
In qualità di artisti, consapevoli del lungo cammino che sarà necessario percorrere, senza rinunciare alla meta finale ma guardando ad essa come alla Stella Polare, riteniamo che il primo passo per l’eliminazione della nostra alienazione consiste nel rimanere proprietari delle nostre opere sfuggendo, di fatto, e giuridicamente al mercato. Nei contenuti delle nostre opere, il principale obbiettivo sarà lo smascheramento dello spettacolo diffuso, per far sì che un numero sempre più grande di persone possano vedere l’invisibile, il ventre, la caverna dove vegetiamo, la gabbia che c’imprigiona e della quale siamo noi stessi le sbarre: il Sistema Tecnologico Finanziario Economico Sociale. E lo faremo gratis, utilizzando gli strumenti che ci hanno mostrato i situazionisti ed inventandone di nuovi. Le derive, i detournament le situazioni saranno le nostre armi. Poi verrà quel che verrà!
Poiché, quando si tratta di rivolta, ciascuno di noi ha bisogno di posteri!
L’Arte deve essere tensione dialettica e quindi un percorso e non un fine
L’Arte deve distinguersi dall’artigianato e non deve necessariamente- anzi è sconsigliabile – dar vita a produzioni a regola d’Arte.
L’Arte deve essere aperta concretamente e non astrattamente, deve interrogare più che proclamare, non può essere dominata dalla bellezza ma deve perseguire l’efficacia.
L’Arte deve essere libera, ed al di fuori di qualsiasi mercato; deve pertanto liberarsi dai formalismi, dagli schemi, dagli stili e dalle catalogazioni. Deve mutare continuamente per evitare il formarsi di gabbie e catene anche culturali.
L’Arte deve essere autonoma espressione del pensiero critico senza essere sottomessa al gusto.
L’Arte per essere libera deve essere per tutti e per nessuno. Non deve avere fini di lucro e non può prestarsi a speculazioni se non intellettuali. Tutti possono, ed è auspicabile, dichiararsi artisti e produrre opere d’Arte.
L’opera d’Arte non deve avere né padroni né servi ma un unico perenne proprietario e cioè l’artista che l’ha prodotta. Deve essere sempre liberamente accessibile per tutti e non può essere sottomessa ad alcun diritto d’autore.
Noi vogliamo cantare l’amore per la giustizia e per l’abitudine al dissenso.
Il coraggio, il dono, la ribellione saranno elementi essenziali della nostra Arte


ARTISTI DI TUTTO IL MONDO SCATENATEVI


11 febbraio 2010

giovedì 18 febbraio 2010

L'Orso di segale, Carnevale alpino di Valdieri






Carnevale alpino di Valdieri
Domenica 21 Febbraio 2010

Protagonista del carnevale di Valdieri è lo straordinario orso di segale. Una figura simbolica nella cui rappresentazione ci sono la rincorsa e la lotta con il domatore il quale cerca di "strappare" all'animale tutti i saperi e i poteri possibili dalla sua forza fisica a quella sessuale.
Risvegliatosi dal letargo, l'orso esce dal suo nascondiglio e va in giro per il paese in cerca di cibo, spaventa o corteggia le donne e cerca di liberarsi dai domatori. Al suo seguito canti e fracasso segnano la fine dell’inverno e l’inizio della primavera
Nel carnevale vi sono poi altre figure protagoniste tra cui i simpatici "Frà" che cantano epistole ironiche su personaggi e genti delle valli.

Programma:

Alle ore 15, in piazza della Resistenza
Apparizione, cattura e sfilata dell'Orso di paglia di segale. Musica occitana con "I Jouvarmoni" diretti da Silvio Peron.
Dalle ore 10.30, per tutto il giorno presso il Museo della Resistenza
La Maschera dell'Orso
Costruzione di maschere animali di cartapesta con gli animatori dell'associazione Inventa
Ai piedi delle montagne
Visite guidate alla mostra "Ai piedi delle montagne" dedicata alla necropoli protostorica di Valdieri
Dalle ore 11, per tutto il giorno in piazza della Resistenza
I giochi del tempo che fu
Animazione e divertimento per i bambini con i giochi di una volta di legno di Luisella e Livio
Informazioni: Parco Alpi Marittime, Tel. 0171/97397

mercoledì 17 febbraio 2010

Giallo d'Autore alla SMS "Aurora" di Quiliano





19 FEBBRAIO ORE 20.45

IO TI SALVERO’
DI
ALFRED HITCHCOCK

(per la rassegna Giallo d’autore)

VALLEGGIA (QUILIANO) –SMS AURORA

INGRESSO GRATUITO




OSCAR NEL 1945 PER LA MIGLIOR COLONNA SONORA (ma le nomination furono 6:miglior film, attore non protagonista, regia, fotografia, effetti speciali).
PREMIO DELLA BIENNALE PER SPECIALI MERITI ARSTISTICI AD INGRID BERGMAN ALLA MOSTRA DI VENEZIA DEL 1947.
"Alla notizia di un film di Hitchcock che affronta la psicanalisi ci si aspetta qualcosa di completamente folle, di delirante e invece è uno dei film più ragionevoli, con molti dialoghi. Mi sembra proprio che Io ti salverò manchi un po' di fantasia."
Questo è il giudizio molto severo espresso da Francois Truffaut, condiviso da molti critici e persino dal regista stesso della pellicola.
Si tratta tuttavia di giudizi ingenerosi che dimenticano che il film costituisce una tappa necessaria all'interno della filmografia hitchcockiana. È infatti il primo film del regista ad affrontare direttamente il tema della psicanalisi, la prima collaborazione con Ingrid Bergman, una delle attrici hitchcockiane per eccellenza ed infine, il primo contributo di Ben Hecht per la sceneggiatura che ha pochi momenti di "stasi" e che invece è un continuo susseguirsi di misteri ed enigmi.
Inoltre, da non dimenticare è indubbiamente l'apporto artistico di Salvator Dalì che ha ideato le scenografie per l'incubo del personaggio interpretato da Gregory Peck.
Hitchcock ha voluto rompere nettamente con il modo tradizionale in cui il cinema presentava i sogni, con la nebbia che confonde i contorni delle immagini e lo schermo che trema. Come dichiarò successivamente la scelta di Dalì fu determinata dal segno netto e affilato della sua architettura, le ombre lunghe, le distanze che sembrano infinite, le linee che convergono nella prospettiva, i volti senza forma …
Inoltre c’è il tocco visonario dato ad alcune scene (le metaforiche porte che si aprono dopo il primo bacio fra i due portagonisti, le sbarre delle celle che si chiudono dopo l'arresto di Gregory Peck) e dalla scena finale, con la pistola in primo piano che "segue" Ingrid Bergman, per poi girarsi verso lo spettatore e sparare, in una sorta di suicidio della cinepresa (o omicidio dello spettatore?).
Dal punto di vista tecnico il Maestro gira il film in maniera abbastanza convenzionale, eppure, nonostante questo, non mancano alcuni veri e propri colpi di genio.
"Un altro film unico. Si tratta di una pellicola che non ha termini di paragone, nè prima, nè dopo. Il grande regista era in grado di creare visioni assolutamente inimitabili, non importa quale fosse il soggetto. Era tipico di Hitchcock girare "piccoli film" come questo, ed ottenere un risultato semplicemente grandioso. In Hitchcock, c'è un senso dei punti culminanti che afferra e trascina. Seguiamo momento per momento i tentativi di Ingrid Bergman di ricostruire la vita di quest'uomo tormentato, e sentiamo su di noi il tormento dell'uomo.
Il punto culminante del film è potente e perfetto, magistralmente sottolineato dal commento musicale di Rosza, assolutamente esaltante. Il punto culminante, il momento della verità... Hitchcock non lo sbaglia mai!
Bella l'idea che Irene Bignardi esprime nell'intervista: c'è identità tra intrigo poliziesco e intrigo psicoanalitico, i percorsi sono paralleli, e si rinforzano a vicenda. "Fuga verso la Verità": bellissime parole della Bignardi, definiscono benissimo non solo "Io ti salverò", ma tutto il cinema di Hitchcock.
Un grande film, uno dei più memorabili della storia del cinema”(Leonard Maltin)

Tutte le proiezioni della rassegna sono ad ingresso gratuito con tessera ficc gratuita. Ogni visione sarà introdotta da un critico cinematografico che guiderà il dibattito a post-proiezione e che consegnerà materiale analitico sulle pellicole oggetto della rassegna.
L’iniziativa è patrocinata dal Comune di Quiliano.

Che sta succedendo alla scuola italiana?


Dire che la scuola italiana sia in sofferenza è ormai quasi una banalità. Crediamo sia importante non fermarsi alla constatazione di un fenomeno sotto gli occhi di tutti, ma cercare di capirne il perchè. La pacata ma ferma riflessione di Luigi Vassallo, uomo di scuola e per molti anni preside innovatore, è un buon modo di iniziare questa discussione.

Luigi Vassallo

CHE STA SUCCEDENDO ALLA SCUOLA ITALIANA?


Alle notizie che si rincorrono sui giornali o nei notiziari televisivi le famiglie (in particolare quelle che si apprestano a iscrivere per la prima volta i figli a scuola o a iscriverli in una scuola superiore) restano frastornate e confuse, mentre chi lavora nella scuola è tentato sempre di più di gettare la spugna (andandosene se ha i requisiti per la pensione) o tirando a campare (cercando di resistere al sussulto della propria coscienza che lo esorta all’ennesimo sacrificio dalla parte degli studenti).

Si va dalla riduzione delle ore di lezione e dalla scomparsa di materie o parti di materie nella cosiddetta riforma delle scuole superiori alla impossibilità di assumere supplenti in caso di assenza dei titolari perché le scuole non hanno soldi e hanno saputo che i crediti che vantano nei riguardi del Ministero dell’Istruzione (per aver pagato le supplenze negli anni scorsi anticipando soldi che avevano in cassa per altre esigenze) molto probabilmente non saranno saldati, a una circolare della direzione scolastica regionale (tardiva perché arriva in corso d’opera e dopo che per anni si è lasciato credere che le scuole avessero il diritto, peraltro condiviso dagli studenti se non dalle famiglie, di aggiungere altri giorni di vacanza a quelli definiti nel calendario scolastico) che richiama le scuole alla necessità di offrire agli allievi comunque attività formative alternative in caso di decisione di interruzione delle lezioni normali (cosiddetto stop didattico).

Di fronte a questo scenario, che fa pensare a uno stato di fallimento strisciante dell’ “azienda scuola”, è necessario – se ancora si crede alla funzione formativa della scuola pubblica – favorire la sinergia tra tutte le persone e gli organismi che nella scuola vogliono continuare a credere. A cominciare da una riflessione non umorale su quello che sta accadendo. A questo tende il contributo che qui si propone.

Dello tsunami che a partire dallo scorso anno scolastico si abbatte sulla scuola italiana si possono dare due letture. Anzitutto una lettura in chiave economica (o economicistica):

a) Chi promuove o sostiene i provvedimenti di riduzione della nostra scuola legittima gli interventi nel nome della assoluta necessità di ridurre e contenere la spesa pubblica, manifestando una concezione aziendalistica per la quale il rapporto costo-benefici è una delle due variabili (insieme con l’entità del profitto) da prendere in considerazione per decidere l’ampliamento o la riduzione della produzione o del servizio con il conseguente aumento o taglio dei posti di lavoro. D’altra parte a queste stesse persone non sfugge il dramma dei precari della scuola condannati a perdere ogni possibilità di lavoro o quello dei giovani che stanno oggi studiando per diventare insegnanti, ai quali si chiudono in buona parte gli spiragli sul futuro. Ma di questo dramma non possono farsene carico perché – proclamano – la scuola non è un ente di beneficenza né un ammortizzatore sociale e dietro questo loro apparente buonsenso celano una concezione malthusiana della società, per la quale è bene che lo Stato non intervenga a sostenere i poveri, perché così questi saranno spazzati via dal mercato e dalla società e la popolazione attiva (cioè con un lavoro) potrà vivere meglio e spartirsi la ricchezza sociale: concezione questa che da duecento anni viene continuamente sbugiardata dal fatto evidente che i poveri (proprio in assenza di radicali interventi degli Stati contro la povertà) continuano ad aumentare e ad inghiottire nella loro voragine ceti medi progressivamente declassati, mentre la ricchezza continua ad essere spartita da una minoranza sempre più ristretta.

b) Chi si oppone ai suddetti provvedimenti protesta che, anziché tagliare i posti di lavoro, bisogna aumentare l’occupazione per non far crollare i consumi e che bisogna contenere e ridurre la disoccupazione per non accrescere i costi sociali che la stessa comporta: questa protesta, legittima sicuramente, rivela però anch’essa una concezione economicistica e l’assunzione del Prodotto Interno Lordo come misura indiscutibile della crescita sociale, laddove nel PIL figurano grandezze quantitative (come la produzione, gli scambi commerciali e i consumi), ma non figurano gli aspetti qualitativi della vita, quelli che fanno la differenza tra una concezione della vita aziendalistica – autoritaria e una concezione partecipativa – democratica.

Ma accanto o oltre la lettura economicistica si può tentare e rivendicare una lettura politica, se non altro alla luce della catastrofe finanziaria dello scorso anno che, partendo dagli USA, ha contagiato il mondo intero e che (in un’ironica eterogenesi dei fini) ci ha fatto già assistere alla “conversione” della passata amministrazione Bush che, dopo essersi schierata a difesa del più sfrenato liberismo, si è dovuta mettere in ginocchio davanti al Congresso per ottenere un intervento politico (definito dagli stessi sostenitori di Bush “di stampo socialista”) nel disperato tentativo di porre rimedio ai disastri provocati da un’economia lasciata senza guida politica e autorizzata ad autogovernarsi con le sue leggi (profitto, costi – benefici ecc.).

Ebbene, non si tratta di invocare interventi eccezionali della politica quando le cose dell’economia vanno male. Si tratta, piuttosto, di tornare alla chiara consapevolezza di Platone che le tecniche (come l’economia) sanno sempre come procedere ma non sanno se è bene o male procedere: questo può provare a dirlo solo la politica.

E allora la domanda, in termini politici, non è se la scuola costa troppo ma se la scuola serve e a che cosa serve.

La risposta su cui gli opposti schieramenti dell’Italia di oggi sembrano essere d’accordo è che la scuola serve a garantire il “diritto di cittadinanza”. Sì, ma quale cittadinanza? Quella della Constitutio Antoniniana con la quale nel 212 Caracalla riconobbe cives tutti i sudditi dell’impero romano, parificandoli sul piano giuridico, senza, però, intaccarne le differenze economiche, sociali, culturali? O quella prefigurata dall’art. 3 della nostra Costituzione che, alla proclamazione della pari dignità di tutti i cittadini, accompagna l’impegno per le istituzioni della Repubblica (e, quindi, anche per la scuola) a rimuovere gli ostacoli che impediscono l’effettiva parità?

Un progetto di cittadinanza che non mi piace. Non mi piace il progetto di cittadinanza che sta dietro la scuola che si sta delineando in Italia dalla fine del 2008: meno tempo scuola, meno cose da studiare, meno insegnanti e meno ATA al lavoro, meno classi di scolari e studenti, meno plessi (cioè luoghi fisici dove fare scuola), meno soldi per funzionare; progetti di integrazione (per la convivenza tra le diverse abilità o tra le diverse culture; per la lotta al bullismo e alle altre forme di disagio giovanile) messi a rischio o cancellati o messi alla berlina come spese inutili e peregrine rispetto al compito della scuola che, nelle intenzioni degli attuali sedicenti “riformatori”, dovrebbe essere – come nella mia infanzia – insegnare a leggere, scrivere e far di conto … e basta; il problema della devianza giovanile e quello dello scarso rendimento affrontati solo in termini di repressione (voto di condotta e bocciatura) senza che questi strumenti (che pure a volte sono necessari) possano essere inseriti in azioni coordinate e significative di recupero (impossibili in classi sempre più numerose e con risorse professionali e finanziarie continuamente ridotte). Non mi piace una scuola ridotta ai servizi essenziali, perché questi sono sufficienti solo per una cittadinanza buona per le esigenze del consumismo e non per la partecipazione consapevole e critica al complicato mondo nel quale ci tocca vivere oggi. Non mi piace, insomma, la disarticolazione dello Stato che procede con la de pauperizzazione dei servizi pubblici che, privati di risorse professionali e finanziarie, inevitabilmente funzionano come possono, cosa che rende credibile agli utenti la favola che se i servizi fossero privatizzati funzionerebbero meglio.

Un progetto di cittadinanza che mi piace. Nella nostra giovinezza abbiamo subito il fascino di teorie antiautoritarie che parlavano di descolarizzazione della società, ma, ora che gli entusiasmi giovanili per rivoluzioni fatte più di slogan che di sostanza sono svaporati, abbiamo chiaro (quelli della mia generazione) che, se il patrimonio genetico (quello che garantisce la nostra identità biologica) si trasmette con un atto di cui sono capaci anche gli animali, il patrimonio culturale (quello che garantisce l’identità di una società e, dentro di essa, l’identità dei cives) si trasmette solo per via culturale, con un atto intenzionale che richiede la consapevolezza di chi lo compie e di chi lo riceve, oltre ovviamente un luogo e un tempo istituzionali in cui quest’atto possa compiersi. Questo luogo e questo tempo istituzionali sono quello che chiamiamo “scuola”. Ed è nella scuola che si trasmette il patrimonio culturale identitario della società e cioè l’insieme di saperi, abilità, nuclei valoriali e, con essi, il ripensamento critico e consapevole degli stessi di fronte alle esigenze del proprio tempo: solo questo patrimonio garantisce il diritto di cittadinanza nella sostanza, al di là delle parità formali. La scuola che serve, allora, è quella che si radica nell’art. 3 della Costituzione, quella che assume come orizzonte di cittadinanza la convivenza di sessi diversi, di lingue diverse, di religioni diverse (diversità che, quando entrò in vigore la nostra Costituzione, erano solo di principio, mentre oggi esplodono nelle nostre strade nella loro corposa consistenza) e riconosce come propria ragion d’essere l’impegno a rimuovere gli ostacoli alla realizzazione matura e consapevole di tale convivenza. In una scuola del genere possono incontrarsi le esigenze di chi oggi vi lavora o rischia di non lavorarvi più e le esigenze di chi, per se stesso o per i propri figli o comunque per gli altri, rivendica il diritto a un percorso di crescita personale e sociale. Questa scuola è un valore per tutti, perché fonde valore di scambio (cioè le esigenze economiche di chi vede minacciate le proprie possibilità di lavorare) e valore d’uso (cioè l’esigenza di chi frequenta la scuola di diventare cittadino a pieno titolo per non soccombere come suddito del consumismo e burattino nelle mani di un demagogo di turno).

Serve un forte consenso sociale. Quaranta anni fa la Federazione Lavoratori Metalmeccanici comprese che non bastava più battersi per migliorare la condizione dei lavoratori nelle fabbriche senza intaccare la condizione di quegli stessi lavoratori fuori delle fabbriche, in particolare quando usufruivano della scuola per i loro figli o dei servizi sanitari per se stessi e le loro famiglie. E così fu grazie alla minaccia di sciopero dei metalmeccanici al fianco dei lavoratori della scuola che ottenemmo nel 1974 i “decreti delegati”, che oggi ci possono sembrare poca cosa ma che all’epoca furono fortemente innovativi. Io credo che sia necessario ricostruire un nuovo analogo consenso sociale sulla scuola e che a questa ricostruzione debbano contribuire le organizzazioni politiche, sindacali e sociali, nonché i cittadini senza appartenenza, che al progetto di destrutturazione della scuola italiana intendono opporre un forte progetto di ricostruzione come pilastro, nella sua autonomia, di una rinnovata società democratica.


(Da: Ipse dixit)

martedì 16 febbraio 2010

Danze basche ed occitane

Kant e l'Alzheimer

Il ciliegio fiorirà ancora, storie di donne nella rivoluzione


Eleonora Fonseca Pimentel

Vento largo è un piccolo blog, nato da poco. Parliamo di cose che forse interessano a pochi e ogni tanto ci viene da chiederci se non stiamo diventando come gli "uomini-libro" del film di Truffaut. Poi ci arrivano pagine come quelle di Armida Lavagna e il vento largo, il vent-di-damo (come lo chiamano gli Occitani), riprende a soffiare leggero.
Armida Lavagna

Il ciliegio fiorirà ancora, storie di donne nella rivoluzione


Un saggio talvolta tentato dalla narrativa, breve per necessità: anche in quella pagina di storia, infatti, come in tutte le altre, le donne godono di poco spazio e poca attenzione. Sono inquadrate di sfuggita, compaiono per sottolineare con maggior enfasi azioni di uomini; qui, talvolta, compaiono per lo stupore di un uomo che le ha viste comportarsi come uomini. Più spesso, compaiono come vittime di uomini.

L’autore spesso arricchisce lo scarso materiale a disposizione amplificando, dilatando le poche notizie storiche in quadri. In immagini nitide, dai colori forti, violenti come le scene rappresentate. Al centro, sempre, le donne: una o tante, coro anonimo o individui. Caratterizzate anzitutto “in negativo” da una nota esistenziale ovvia: non sono uomini. Eppure il motivo per ritrarle è questo, in ultima analisi; del resto, la storia dell’emancipazione femminile passa attraverso la tensione fra due opposte rivendicazioni: le donne sono uguali agli uomini (quanto a diritti), le donne sono diverse dagli uomini (quanto a identità). Così, in questi quadri accade di trovare donne (tra)vestite da uomini, con i capelli corti, nell’atto di svolgere il compito il mestiere che più di ogni altro è sempre stato maschile: combattere (in una guerra diversa da quelle cui erano abituate: quelle affrontate quotidianamente per non soccombere alla violenza, ai parti, alla fame propria e dei figli...). E l’immagine con la quale l’opera si apre e si chiude è infatti quella delle tre ragazze morte nel fortino di Vigliena, confuse tra gli uomini. Indossavano l’uniforme civica. Indossavano l’uniformità dei soldati, per definizione maschile, e che avrebbe dovuto garantire loro la stessa sorte dei loro compagni, i quali hanno subito “solo” l’oltraggio della morte. Ma “essendosi conosciute spogliandole (...) di esse si fece strazio dai soldati”: private di quell’uniforme, sono restituite alla loro identità sessuale, alla sventurata anomalia di essere donne, e per questo catalizzatrici della violenza di chi le riconosce senza conoscerle, o di chi pensa di conoscerle e non le riconosce, come a tante altre donne capitò in altri contesti, a donne streghe, sante, suffragette.

In questi “quadri” la natura non trova posto, neppure nelle campagne, evocate senza essere descritte; talvolta, il mare fa da opaco sfondo alle azioni, un mare presente non come elemento del paesaggio ma come via di comunicazione: solcato da navi amiche ed ostili, attraversato da esuli che partono e tornano a volte senza ritrovarsi, a volte senza più conciliarsi con quei luoghi dove hanno subìto violenze, dove hanno visto delusioni sostituirsi ad aneliti; a volte trovando una riconciliazione che simbolicamente passa attraverso il matrimonio di ex-detenuti politici con le donne che li hanno aiutati.

L’unico elemento naturale – trasfigurato e assurto a simbolo – è l’albero della libertà. Il ciliegio fiorito, ma anche il fusto bruciato destinato a rinascere e fiorire nuovamente nelle speranze di chi si ostina a credere che un altro modello di società sia possibile. Emblema della rivoluzione, assiste ai suoi successi e ai suoi eccessi, ai suoi entusiasmi e alle sue ingenuità; percepisce il fremito di chi la libertà non l’aveva mai neppure annusata e per un giorno o un mese se ne ubriaca, l’entusiasmo delle coppie che si sposano improvvise girando allacciate intorno ad esso come in un antico rito pagano che sostituisca la pianificata compravendita in cui spesso consisteva il matrimonio tradizionale. Poi, come ad un cambio di stagione, privato di linfa, quell’albero diventa muto testimone di stupri ed esecuzioni, di violenza e ludibrio, di falò che bruciano speranze corpi spasimi ed infine vittima esso stesso del fuoco.

Ritratti di donne e inevitabilmente di uomini che con loro s’incontrano e si scontrano, dunque. Ma con le donne in primo piano. Eleonora anzitutto, come nel quadro – reale, questo - scelto per la copertina. Impressionante. Al centro esatto della composizione, il suo sguardo severo, il suo profilo deciso; sotto, una scollatura prepotentemente femminile ma disadorna, e poi mani grandi, non adatte alle “opre femminili”, ma alle carte che maneggia o protegge, fiera. Intorno, uomini che le parlano, che la guardano, che s’inchinano; ma che lei non vede neppure. Lo sguardo è altrove, il pensiero è altrove. Politica, letteratura, lotta, articoli da scrivere, denunce da fare, posizioni da sostenere. Una vita sociale intensa, eppure il prezzo pagato è la solitudine. Una solitudine voluta e necessaria, in un contesto in cui l’essere donna – anche tra i rivoluzionari - significava comunque essere in relazione all’ uomo, essere funzionale all’uomo (molle che richiamano gli uomini alla virtù, calamite che fanno “operar de’prodigi” agli uomini): legittimate a ispirare l’azione, non ad agire. Donne pericolose, tuttavia, già solo per questo, dunque necessitanti – sono le parole di un giacobino... - di un’educazione che diriga “verso il retto scopo gli sforzi delle loro passioni”. Termine fuorviante. Più che e-ducere, in-ducere. Ma Eleonora non si fa educare, indurre, sedurre. Si rende inaccessibile, pur in mezzo a salotti, a eventi mondani, a uomini. Gli unici uomini ai quali la vediamo rivolgere uno sguardo sono i rivoluzionari uccisi ai piedi del patibolo sul quale sale a sua volta. Uno sguardo che si immagina di com-passione, di rispetto, di fratellanza. Nella morte, in quella morte, Eleonora probabilmente sente davvero raggiunta l’égalité con quegli uomini, mentre altri uomini cercano di umiliarla come donna, mentre altre donne la deridono o ne provano pena, o magari, in fondo in fondo, la invidiano.

Eleonora e le altre. Le altre non sapremo mai se avevano personalità altrettanto forti, le altre non sono entrate nella Storia da protagoniste ma da comparse, non hanno avuto il riflettore puntato addosso così a lungo e con luce così chiara; di molte il ritratto non ci mostra neppure il viso, ma solo un gesto, un atto che spesso è l’ultimo compiuto, come nel caso della quattordicenne improbabile eroina che cerca scampo invano sotto al letto dai suoi carnefici, come una bambina terrorizzata da un incubo. Eppure alcune non possiamo che immaginarle simili ad Eleonora, pur se non hanno la sua consapevolezza, la sua cultura, il suo coraggio. Ci piace immaginarle simili a lei nello slancio radicale – meditato o impulsivo - dell’adesione ad un progetto o ad un sogno, simili a lei per il loro coraggio nel perseguirlo, simili infine per la sorte che le attende, che non è la stessa per tutte, ma è comunque, nella maggior parte dei casi, la condanna al silenzio: con la morte, con la violenza, con la reclusione in un convento, con umiliazioni e sofferenze tali da portare persino alla pazzia o al suicidio.

In fondo, Eleonora e le altre sono tutte accomunate dall’essere donne. Dal non essere uomini. Dal sentirselo ricordare sempre dagli uomini, tranne in qualche momento di euforica libertà ai piedi di quell’albero. Donne che cuciono da panni logori e vecchi cappotti bandiere di speranza. Una speranza tradita, una libertà che per loro, soprattutto per loro, era ancora lontana (e che ancora adesso lo è, in modi diversi, a diverse latitudini...). A ricordare quanto lo fosse, i reazionari – uomini - innalzano un’altra “bandiera”, orripilante e degradante, intrisa del loro sangue: il marchio della disuguaglianza e dell’ipocrisia, il lenzuolo macchiato esposto in trionfo dopo la notte nuziale, la “prova” esibita a mo’ di certificato di garanzia, di Denominazione d’Origine Controllata. In mancanza della quale, si reclama la sostituzione del “prodotto”. Una bandiera esibita ancora a lungo, più a lungo di tante altre. Qui esposta non solo come dovuto tributo alla consuetudine – percepita ed accettata come tale da innumerevoli donne, ancora un secolo dopo – ma come schiaffo crudele al tentativo compiuto da alcune di loro di farsi padrone del proprio corpo e del proprio destino, in nome della libertà e dell’uguaglianza.



Pietro Gargano
“Eleonora e le altre. Le donne della rivoluzione napoletana”
Magmata, Napoli, 1999




lunedì 15 febbraio 2010

Cortocircuiti e linguaggio globale 1990 e poi...

Campagna pubblicitaria Nike 2008 - agenzia Wieden & Kennedy



I Poeti del Mercato
Quando la cultura incontra la pubblicità


Il progetto, ideato dalla Fondazione Mario Novaro in collaborazione con il Teatro Stabile di Genova, si è sviluppato nel corso di cinque incontri, nel Foyer del Teatro della Corte (Piazza Borgo Pila), al venerdì, ore 17.30.

Venerdì 19 febbraio,
a cura di Marco Vimercati, si terrà il quinto e ultimo incontro che ha per titolo:


cortocircuiti e linguaggio globale
1990 e poi...

Negli ultimi decenni del novecento la pubblicità sviluppa tecniche comunicative indipendenti dalla cultura.
L'efficacia di queste tecniche comincia a permeare anche lo scenario letterario, artistico e i media, orientati prevalentemente alla ricerca di vendite, di audience, di share e in definitiva di "successo".
E mentre l'industria culturale assume logiche e linguaggi più pubblicitari, la pubblicità diventa sempre più ideologica, sempre più svincolata dal prodotto e legata ai desideri e alle aspettative del pubblico.
Lo scenario attuale sembra traghettarci da prodotti generati dalla cultura a culture generate dai prodotti.

La conferenza sarà accompagnata dalla proiezione di immagini
Ingresso libero


Vescovi, Magistrati e Logge nella Liguria del Settecento



Sulla scia del successo dei romanzi di Dan Brown, Templari e Massoneria sono oggetto di un crescente interesse soprattutto fra i giovani. Anche senza ricorrere ad effetti romanzeschi, è una storia affascinante, come dimostra questo articolo con cui Giuseppe Carli inizia a collaborare a Vento largo.


Giuseppe Carli

Vescovi, Magistrati e Logge nel primo Settecento ligure


Nel 1717 nasceva la Gran Loggia d'Inghilterra,madre della Massoneria moderna. Immediatamente le idee massoniche si diffusero in tutta Europa e l'Italia non fece certo eccezione.
Frequenti furono nei primi tre decenni del XVIII secolo i contatti tra i più vivi ambienti della cultura e della società civile italiana ed esponenti anche di primissimo piano della Libera Muratoria inglese. Nel giro di pochi anni, dal 1724 al 1729, soggiornarono in Italia personaggi del calibro del duca di Wharton, ex Gran Maestro della Gran Loggia di Londra, del cavalier de Ramsey, creatore degli alti gradi, e di Thomas Howard, duca di Norfolk e nuovo capo dei massoni inglesi.
E' molto probabile, ed alcuni storici soprattutto di area tedesca ne fanno cenno, che proprio da questi contatti prendessero vita in numerose città fra cui Genova le prime logge italiane.
Per avere notizie certe e documentate sulla Libera Muratoria in Liguria dobbiamo tuttavia attendere fino al 1747, quando il 25 maggio Pier Maria Giustiniani, vescovo di Ventimiglia, in una lunga pastorale diretta ai fedeli della sua diocesi lamenta con termini accorati che “in un luogo non molto lontano da noi, nel venerdì della prima settimana di quaresima nelle logge dei Francs Maçons si mangiò da tutti i congregati carne in un solenne convito”. (1)
Questa notizia che attesterebbe la presenza di una o più logge massoniche operanti nell'estremo Ponente ligure già nella prima metà del Settecento, trova una ulteriore conferma nelle dichiarazioni rilasciate nove anni più tardi dinanzi al tribunale dell'Inquisizione di Milano dal capitano austriaco Beniamin Obbel. L'ufficiale, messo sotto inchiesta per la sua appartenenza alla Massoneria, dichiarò in quell'occasione ai giudici che lo interrogavano di essere stato iniziato nell'anno 1745 a Novi Ligure in una loggia composta da militari delle truppe austriache di stanza nella piazzaforte piemontese e di avere successivamente partecipato ai lavori di una loggia a Bordighera, la stessa con tutta probabilità a cui si riferiva la pastorale del vescovo di Ventimiglia.
Pochi anni più tardi, nel 1752, tocca al vescovo di Sarzana il compito di denunciare, con toni più politici che religiosi, i pericoli derivanti per la società del diffondersi di una società perniciosa come quella dei liberi muratori, dedita al sovvertimento dell'ordine costituito allo scopo di “sottrarre il genere umano alla dipendenza dal Principe e dal Sacerdozio” (2)






Parole destinate anche questa volta a restare inascoltate se, all'incirca in questo periodo, almeno due logge lavorano con buon successo a far proseliti negli ambienti intellettuali della stessa Genova, come si evince con certezza dagli stessi Atti ufficiali del governo della Repubblica oligarchica ligure. Accadde, infatti, che la magistratura genovese, preoccupata dal diffondersi degli ideali di libertà e fratellanza professati dai massoni, si occupasse con una allarmata solerzia del moltiplicarsi delle logge in città. Dagli esiti dell'inchiesta veniamo così a conoscenza dell'attività di due logge, probabilmente istituite da ufficiali delle truppe francesi accorse in aiuto della Repubblica durante la guerra di successione austriaca. Al termine dell'inchiesta gli inquirenti decretarono la proibizione sul territorio della repubblica di ogni attività massonica, le logge genovesi furono chiuse dalla polizia e numerosi cittadini stranieri furono espulsi dalla città.
In quel periodo qualcosa doveva muoversi anche a Savona, almeno secondo una nota del Leti (uno dei principali studiosi dell'attività della Massoneria nel Risorgimento) in cui si accenna alla costituzione di un Gran Capitolo di Lombardia a cui avrebbe fra l'altro aderito anche una loggia savonese. (3) L'affermazione non è sostenuta da alcun documento, né ci risultano esistere altrove altre attestazioni di una tale presenza che tuttavia, sulla base di un ragionamento più complessivo che per motivi di spazio non riportiamo, non ci appare cosa improbabile.
I tempi stavano comunque rapidamente cambiando e le idee di libertà, fratellanza e tolleranza trovavano sempre nuovi seguaci all'interno degli ambienti intellettuali anche in una realtà chiusa come quella ligure di metà Settecento. Prova ne fu il fallimento nel1762 di una nuova inchiesta penale contro “l'Unione dei Franchi Muratori” a Genova. Lanciata con clamore, nonostante una pesante intromissione delle autorità ecclesiastiche che pretendevano la consegna dei massoni in quanto eretici al tribunale dell'Inquisizione, l'inchiesta si risolse in un nulla di fatto. Le sanzioni risultarono minime e il processo si chiuse con un sostanziale proscioglimento degli imputati.
Con ogni evidenza nel decennio intercorso fra i due processi la Libera Muratoria aveva saputo radicarsi a fondo nella società ligure, tanto da risultare ormai inestirpabile.

1) C. Francovich, Storia della Massoneria in Italia dalle origini alla rivoluzione francese, Firenze 1974, p. 117
2) Ivi, p. 164
3) G. Leti, Carboneria e Massoneria nel Risorgimento italiano, Genova 1924, p. 42

domenica 14 febbraio 2010

Guido Seborga, Lettere a Claudio


Vent'anni fa, il 13 febbraio 1990, moriva Guido Seborga. Lo ricordiamo con un inedito fornitoci dalla figlia, Laura Hess Seborga che ringraziamo ancora una volta per la disponibilità sempre mostrata verso Vento largo. Sono brani delle lettere che nei suoi ultimi anni lo scrittore dedicò al nipotino Claudio: ideale bilancio di una vita, riaffermazione di valori a cui restare fedeli contro venti e maree, testamento spirituale e insieme indicazione di un cammino.

Da: LETTERE A CLAUDIO

di GUIDO SEBORGA



(quaderno inedito)

…………………..
E' lunga la strada
per capire la vita e
se stessi.
Ma è una via - spesso
verso l'ignoto - che
dobbiamo per intuizione
intraprendere - è la
via che porta alla
conoscenza della realtà terrestre e
cosmica.
Non dimenticarlo mai!
... Ma
sempre
nella libertà
deve avvenire lo
scambio tra generazioni,
scambio che crea
la storia.
.......................................
E' sempre bene
non ignorare
la storia.
Come base culturale
farei
studiare e
imparare a conoscere
in modo particolare
Bruno Campanella
Gli stilnovisti
Dante Ariosto Leopardi
Pisacane
Colombo
Garibaldi
Matteottl
Granisci
Gobetti
e quanti
altri!
Capirai da quale
enorme
civiltà
sei nato!
E certi punti storici
La rivoluzione francese
La Comune parigina
La rivoluzione d'ottobre.
.......................................
Guai non avere profondamente
capito la vita
l'umanesimo greco
il rinascimento italiano
l'illuminismo parigino.
Qualsiasi attività sarà la tua
sempre occorre prima conoscere le origini,
le basi fondamentali
della civiltà per superare
le barbarie.
.......................................
Nelle alternative dure
di una società
quasi priva ormai
di ogni civiltà - ti
renderai conto che
il tuo animo
potrà sempre
essere libero
e il tuo slancio vitale,
manifestarsi,
perché
siamo
riusciti anche tra guerre
e dittature a rivelare
la vita.
.......................................
...Oggi il pianeta
può venir distrutto.
Penso che é la generazione
giovane di tutto il
mondo che può con intelligenza
e azione morale e politica
salvare la
terra e il .... cielo.
E' questo un compito
Preciso. E la vita
- sia pure con i suoi
non pochi mali e
difetti- potrà
continuare.
.......................................
La società nei secoli ci dimostra
che l'uomo é purtroppo
un insieme confuso
di contraddizioni . Il primo
compito negli anni della
maturazione è di superare
questa condizione. Questo
superamento è poi indispensabile
per trovare la tua identità,
te stesso.
Se vinci te stesso sarai uomo……..ma
cosa vuoi dire essere uomo?
Superare la società mediocre
per creare la civiltà.
.......................................
Spesso quello in cui abbiamo
sperato e voluto non
lo vediamo realizzarsi
nella realtà quotidiana.
Riusciamo a non disperarci
troppo se manteniamo
vivo in noi il nostro
pensiero, la nostra visione
. .......................................
Tendere alla
libertà collettiva
ma non farci mai soffocare
dalla schiavitù per seguire gli errori
dei pochi falsi dominatori
(in politica in economia)
di tutti gli uomini.
Libertà è la sola
non-legge che crea la vita.
.......................................
.... trova te stesso
sii vivo - intelligente
puoi creare per te e per tutti.
.......................................
Negli anni dell'adolescenza
è importante
trovare
capire
se
stessi
la propria natura
la propria intelligenza
capire la storia
interrogarla
vivere la realtà
.......................................
e ama sempre
la libertà
la libertà è indispensabile
per la tua formazione
umana
.......................................
ma è chiaro che
devi farti leggendo
studiando,
un'idea chiara
del passato.
Senza una piena conoscenza del
passato storico
s'ignora il presente
e non si crea
l'avvenire.
E' indubbio
che imparerai nella scuola
nelle università
nel dialogo e nel dibattito
con i tuoi coetanei,
con i tuoi insegnanti,
con quelli che saranno più giovani
di te.
Abbi sempre molta
cura del tuo
fisico
come della
tua intelligenza.
Leggi moltissimo
.......................................
persino gli esami servono
per superare le
difficoltà passo a passo
gradualmente
importante è avere
ottimi maestri
e lo scambio e il dialogo fra generazioni
.......................................
La mia generazione
è passata attraverso
guerre infami
Non credo che esistano guerre
giuste....
La Resistenza è nata
per amore di pace,
per riconquistare le fondamentali
libertà,
la democrazia è
imperfetta, ma
avendo vissuto
anni di dittatura,
possiamo meglio tollerare
i difetti della democrazia,
e apprezzare le sue
intrinseche qualità
umane,
certo la democrazia non
è perfetta per la
semplice e reale ragione
che è formata da noi uomini...
.......................................
Conoscendo quello che sei
puoi migliorare
e trovare
una vita
che sia
quella
più giusta
più
conforme
al tuo
modo
di voler
vivere
di essere
.......................................
a te
Claudio
carissimo
auguro

PACE
LIBERTÀ'
GIUSTIZIA

occorre sempre
conquistarsele
e mai perderle

sabato 13 febbraio 2010

Guido Seborga, mio padre



Il 13 febbraio 1980 moriva a Torino Guido Seborga, una delle poche voci di respiro europeo della letteratura italiana del secondo dopoguerra. Romanziere, poeta, drammaturgo, giornalista, pittore, Guido Seborga ha rappresentato, assieme a Francesco Biamonti, l'animo più autentico di quell'estremo Ponente ligure che fin da giovanissimo aveva scelto come terra d'adozione. Ma più che lo scrittore e l'artista noi oggi vogliamo ricordare l'uomo Guido Seborga, e lo facciamo pubblicando questo ricordo scritto per Vento largo dalla figlia, Laura Hess Seborga.


Laura Hess Seborga

Guido Seborga, mio padre


Qualche mese fa ho scoperto il blog “Vento largo” nel quale Giorgio Amico aveva inserito diversi post riguardanti mio padre, cosa di cui gli sono molto grata. Ora mi ha chiesto, in occasione dei vent’anni dalla sua morte, un ricordo. Lo faccio molto volentieri, anche perché lavorando al libro (Laura Hess, Massimo Novelli, Guido Seborga. Scritti, immagini, lettere – Spoon River 2009), ho ritrovato lettere cartoncini d’invito tessere moltissime foto che mi hanno riportato alla memoria episodi vissuti da me o raccontati da mio padre da cui emerge la sua vitalità e la sua forte carica umana.
Il mio è il ricordo dell’uomo, ma nel corso degli anni e più che mai oggi mi è difficile separare il padre dal personaggio.


Padre impetuoso, affettuoso, sensibile, generoso che mi coccolava che era pieno di attenzioni nei miei confronti, mi portava sulle spalle a scoprire l’entroterra, mi insegnava ad aver confidenza col mare a non averne paura ma anche padre di umore imprevedibile, presente - assente ( chiamava il Pennello il molo di Capo Ampelio e faceva lunghissime nuotate emergendo all’improvviso in fondo al lungomare dove io mi trovavo in spiaggia con la mamma ).
Quando c’era, perchè in quegli anni spesso era a Parigi, Roma, Milano, mi raccontava di quei luoghi ma Parigi, da cui mi portava collanine fatte di perline colorate, per me bambina era diventato un luogo mitico che evocava attraverso le parole di mio padre, personaggi strani, africani e orientali, musiche film e canzoni su cui lavorava la mia fantasia.
Intanto io andavo regolarmente a scuola, scuola che lui mi ha sempre invitato a non prendere troppo sul serio, raccontavo di Parigi, di Sartre, Vercors, Artaud e Breton, il “Deux Magots”, Juliette Greco i bistrots: tutti nomi che stupivano i miei compagni e i miei insegnanti come li stupivano i nomi di Gramsci, Gobetti, Svevo, Alvaro, Sbarbaro, Jaier…
Appassionato di cinema e critico cinematografico, mandava me e la nonna al cinema a vedere film che regolarmente erano vietati ai bambini!
Questa mia vita di bambina e ragazzina era abbastanza diversa da quella di molte compagne ed amiche che vedevano il padre alla sera a cena. Il mio scriveva tutto il giorno e alla sera usciva.
A tavola si discuteva degli avvenimenti politici, del Fronte popolare, per il quale papà a Roma si era occupato della propaganda, dell’invasione dell’Ungheria, di Tambroni, di Togliatti e di Nenni, della vita sotto la dittatura fascista, del periodo partigiano nelle Valli di Lanzo o del mitico viaggio da Bordighera a Torino l’8 settembre attraverso la val Roya, prima che i tedeschi facessero saltare i ponti. Mi sembra di rivedere mio padre infervorato raccontare che, scesi a Trofarello, la mamma salì su di un tavolo e improvvisò un comizio ai soldati sbandati invitandoli alla resistenza.
E ogni 25 aprile si andava alla manifestazione in piazza Carlo Felice a Torino: i discorsi contro la guerra e un suo certo fastidio nel vedere sfilare carri armati e cannoni.
Esaltanti racconti sulle passeggiate notturne da una parte all’altra di Parigi con Mastroianni e Franchina (li chiamavano i tre cammelli), lo studio e la povertà di Severini, le lamentele di Savinio contro il fratello De Chirico, ma anche il silenzio in casa quando lavorava, il carattere ribelle, impetuoso poco incline alla cultura ufficiale hanno connotato la mia vita: ricordo scenate, discussioni piuttosto violente per strada sotto i portici di Torino o sui marciapiedi di Bordighera, quasi sempre con persone che non amava, ma a volte anche con amici, che mi creavano un certo imbarazzo.


Collerico ed istintivo era capace però di grandi e profonde amicizie. In quest’anno d’incontri e celebrazioni me lo sono sentita ripetere molte volte soprattutto da quelli che, come Elio Lanteri o Giorgio Loreti, erano i suoi giovani amici e allievi di cui ha condiviso con entusiasmo le esperienze culturali (l’Unione culturale democratica di Bordighera) e le incertezze, incoraggiandoli nell’andare avanti dando consigli libri, mettendo a disposizione i suoi i suoi scritti con attenzione e disponibilità.
Giorgio Loreti, intervistato nel video “Guido Seborga, ritratto d’artista” girato da Gabriele Nugara in occasione del centenario della nascita dice “era sempre entusiasta delle nostre iniziative non era mai un pompiere diceva sempre “bravi andate avanti””
In casa passavano grandi personaggi, ma anche pescatori, camalli, operai, passeurs…gli stessi che erano i protagonisti dei suoi scritti.
Ricordo l’insistenza con cui aveva convinto il giovanissimo Biamonti a partecipare con un racconto al premio “Cinque Bettole”. Per molti anni a Bordighera il suono del campanello di sera tardi annunciava che Francesco veniva a discutere e a parlare dei suoi romanzi, a leggerne dei brani.
Papà si occupò a Bordighera delle “mostre di pittura americana”, di cui non ricordo molto, ma un periodi di grande agitazione in casa era quello dell’organizzazione del premio “Cinque Bettole” e ho un ricordo indelebile delle serate della premiazione nel paese vecchio di Bordighera nei cui vicoli , bambina, ho preso parte insieme a papà al documentario girato da Vladi Orengo.
In famiglia siamo stati tutti contagiati dal suo entusiasmo, non solo per le rappresentazioni del “Teatro della realtà” nelle strade di Vallebona e altri paesi dell’entroterra negli anni ‘50, ma anche per un’altra delle sue avventure, la mitica rappresentazione nel ‘46 del Woyzek nell’appena riaperto Teatro Gobetti con Raf Vallone giovane giornalista de “L’Unità”:
“Subito dopo la guerra a Torino nel teatrino Gobetti non ancora riscaldato e freddissimo Raf Vallone provava per ore, vicino a lui una bellissima ragazza fuggita di casa per recitare. Era un inverno gelido e si provava in cappotto e non riuscivamo a scaldare i nostri corpi ancora denutriti dagli anni di guerra; c’erano Ciaffi e Menzio animatori, quel piccolo teatro che diede come primo testo il Woyzek di Büchner, fu una manifestazione di ripresa di vita dopo anni di silenzio”. (dal diario, “Occhio folle, occhio lucido”, Ceschina 1968)


Romanzi, racconti, poesia, teatro, cinema, giornalismo, organizzazione di mostre e attività culturali….. tante passioni che però non gli bastavano e verso la metà degli anni 60 , complice anche il non essersi genuflesso al mondo editoriale, una nuova avventura: la pittura.
Rivedo ancora, in un viaggio in macchina attraverso la Val Roya tra una curva e l’altra, la sua mano tracciare su una vecchia busta dei segni, che noi non avevamo preso molto sul serio, e che sono poi diventati i primi ideogrammi, le prime tempere.
Il risultato: la ricerca di un altro se stesso le molte frenetiche ore di lavoro e di schizzi preparatori nei suoi studi sempre troppo piccoli.

“…. prendevo luci­damente atto che la valle delle meraviglie rinasceva in me dalle origini e che la mia psicosi di cui ero ormai abbastanza consapevole si urtava con questo mondo delle origini, i segni ideografici incisi su quel­le rocce tra l'incanto del silenzio e delle forme mate­riali mi si rivelarono come non mai, la mia matita disegnava come se avessi sempre disegnato …../Provavo una felicità rara e una ricchezza straor­dinaria per fantasia. Sapevo di ricavare improvvisa­mente ogni mia facoltà da un mondo antichissimo che in me non s'era ancora rivelato. Ma questo non veniva fuori dalla volontà, ma da un dono singolare..…./Concentravo la bellezza, tutto quanto avevo vissu­to e vivevo nel quadro che trovavo. Non perdevo un istante e anche nelle poche ore di sonno ero in ve­glia, come un indiano... non dormivo mai cioè non perdevo mai completamente coscienza di me/ la mia realtà si estendeva nel sogno/il sogno nella realtà /la materia fenomenica mi alleggeriva e davvero mi sembrava che avrei potuto volare oltre l'orizzonte quella demarcazione instabile che mi aveva sempre (prima) fermato ora non mi ossessionava più./La pittura fisicamente più viva della parola più difficile mi liberava./Ero meravigliato di questa nuova possibilità che non avevo voluto. /Ho sempre riso della volontà. Non facevo nessuna fatica a lavorare dieci ore al giorno. /Quattro ore in mare tre ore di sonno ed ero ri­posato desideroso di rimettermi al quadro che mi stu­piva per tutte le possibilità che mi offriva./Il mondo esterno non esisteva più……./Dal segno passavo al disegno poi a forme specifi­che e ai colori. /La pittura di « realtà ideografica » era nata….. Mi sono singolarmente arricchito. Prima la mac­china da scrivere. /Ora pennelli e macchina da scrivere……” (dal diario, “Occhio folle, occhio lucido” Ceschina 1968)

Le molte mostre in italia e all’estero riempirono gli ultimi anni della sua vita prima della malattia e di una difficile vecchiaia la sua mano vissuta con il continuo sostegno di mia madre di pochi grandi fedeli amici e giovani a cui era ancora in grado di comunicare entusiasmi ed interessi e con l’ultima preoccupazione e gioia: il tenero rapporto con il nipotino, la cui maturazione umana è stata l’impegno dei suoi ultimi anni.