giovedì 31 marzo 2011
Da leggere: Giorgio Ficara, Riviera
martedì 29 marzo 2011
Veronica Pesce, Verso l'edizione critica di "Murmuri ed Echi"
Veronica Pesce
domenica 27 marzo 2011
Ricomporre Ipazia
Ricomporre Ipazia
Eredibibliotecadonne
Incontro con le Autrici
Edizioni Tribaleglobale
LA BIBLIOTECA DI VILLAPIANA è APERTA AL PUBBLICO
MARTEDI’, MERCOLEDI’ E GIOVEDI’ DALLE 15 ALLE 18
Da leggere: Mario Novaro, Murmuri ed Echi
Per informazioni:
fondazione.novaro@fastwebnet.it
sabato 26 marzo 2011
Ripensare Marx
La coscienza critica del reale diventa coscienza anticipante, la capacità di cogliere la porzione di avvenire contenuta nel presente, una coscienza che fa di tutto per permettere a questa intuizione d'avverarsi. Le armi della critica, appunto, che si trasformano nella critica delle armi. Il pensiero critico che non si accontenta di interpretare il mondo (come hanno sempre fatto i filosofi), ma pretende di cambiarlo. La critica filosofica che diventa prassi sociale, collettiva. Una prassi che è già prefigurazione del futuro, rottura implacabile col mondo presente. “Chiamiamo comunismo il movimento reale che supera lo stato di cose presente”.
Per Bloch (e per noi) tutta l'opera di Marx è al servizio del futuro e la sua filosofia è la prima che sia davvero fondata su di un avvenire autentico, oggetto non di una contemplazione passiva (il marxismo delle sette che in nome del futuro rinunciano al presente), ma di un pensiero qui e ora orientato verso la trasformazione del mondo, la naturalizzazione dell'uomo e l'umanizzazione della natura.
Tra un empirismo senza prospettive appiattito sul presente e una prospettiva priva di agganci con il reale, Marx ci invita a saper già ora cogliere nel presente i segni del futuro, segni potenziali sia chiaro, ma fondamento di quel principio speranza che da sempre spinge l'uomo alla rivolta.
Speranza nel futuro e critica del presente si fondono in una filosofia della storia che trova il suo elemento agente nel proletariato, principale prodotto dei nuovi rapporti di produzione capitalistici. L'unica classe che nella società non abbia interessi materiali da difendere. L'unica classe che può dunque portare fino in fondo la critica radicale del presente.
“Non la critica ma la rivoluzione è la forza motrice della storia”, il mondo va trasformato per via rivoluzionaria in quanto “non è possibile attuare una liberazione reale se non nel mondo reale e con mezzi reali” (Ideologia tedesca)
La scienza de “Il Capitale” non segna il superamento definitivo di questa afflato utopistico in nome di un materialismo meccanicistico e determinista (come sarà in larga parte il marxismo della II e della III Internazionale), ma offre al contrario a questo pensiero filosofico la sua prima vera possibilità di realizzazione, offre alle anticipazioni dell'utopia una base economica che lo corregge e lo oriente secondo il divenire del mondo reale. Si supera così il dualismo tra essere e non essere, tra realtà empirica e utopia.
A questo punto una domanda diventa inevitabile. E' ancora possibile questa speranza nel mondo attuale dopo Aschwitz e Hiroshima? La risposta è no: Come Dio nella canzone di Guccini, anche il marxismo positivistico e determinista è morto nei campi di sterminio. Così come il crollo dell'URSS e di quella mostruosità chiamata “socialismo reale”, segna la fine di un marxismo che vede il socialismo come onnipotenza dello Stato e crescita costante della produzione. Un pensiero che ha perso ogni criticità, ma diventa mera giustificazione di una realtà in cui il lavoro è sempre più alienato. Tanto alienato da a perdere persino il carattere illusorio di libera compravendita per diventare asservimento totale, schiavitù vera e propria nel sistema del Gulag fondamento di quell'accumulazione primitiva “socialista” teorizzata da Bucharin e da Lenin. Il socialismo che si riduce ai Soviet più l'elettrificazione.
Così come, da un altro lato, il liberismo economico indotto dalla globalizzazione segna il tramonto delle illusioni socialdemocratiche nella trasformabilità per vie interne del sistema di produzione capitalistico. Un marxismo quello della socialdemocrazia incapace di criticare la civiltà capitalistica, di andare oltre il presente e dunque destinato, con il crollo generalizzato in Occidente sotto i colpi della crisi e dell'emergere di nuove potenze di quello stato sociale che ne era stato il principale prodotto, a diventare mera gestione dell'esistente, incapacità di esercitare un'egemonia fosse anche riformistica.
In questo scenario di macerie, Marx ci può ancora aiutare a comprendere ciò che accade e che spesso è tanto irrazionale da sembrare incomprensibile. Un Marx critico della globalizzazione e persino di quella cosiddetta post-modernità che si presenta come livellamento a livello mondiale del prezzo della forza lavoro al suo grado più basso, crescita parallela sia del lavoro salariato sia della disoccupazione strutturale (non legata, cioè all'andamento del ciclo economico), spezzarsi del rapporto fra sviluppo economico e occupazione, generale peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e delle masse popolari, crescita dell'orario di lavoro (o per meglio dire della giornata lavorativa), cioè del tasso di sfruttamento, riduzione progressiva delle garanzie sindacali e sociali, generalizzazione della precarietà. Più in generale, come un inarrestabile imbarbarimento dei rapporti sociali.
Leggere Marx, permette di capire che non di disfunzione si tratta, non di una degenerazione, ma del pieno dispiegarsi su scala planetaria della “razionalità” capitalistica. Con Shakespeare possiamo dire che “c'è una logica in questa follia”. La logica del profitto. La spietatezza crescente delle politiche padronali non risponde da cattiveria o da incapacità a operare le scelte giuste. Alla base stanno mere logiche di sopravvivenza di un sistema economico sempre più in rotta di collisione con l'ecosistema planetario, sempre più incompatibile con la sostenibilità ecologica e dunque con la stessa sopravvivenza della specie.
Anche ad una veloce analisi Marx si rivela dunque un grande pensatore della modernità e delle sue incessanti trasformazioni. Basta un passo del Manifesto a dimostrarlo.
“La continua rivoluzione della produzione, lo scuotimento ininterrotto di tutte le istituzioni sociali, l'incertezza e l'incessante movimento contraddistinguono l'epoca borghese da tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e congelati, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi diventano obsoleti prima di potersi ossificare. Tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria, tutto ciò che è santo viene profanato e gli uomini sono spinti finalmente a guardare con sensi asciutti e assennati le reali condizioni delle loro vite e le loro relazioni con gli altri esseri umani (...). “
“Spinta dal bisogno d’uno smercio sempre più esteso, la borghesia invade il globo intero. Bisogna che dappertutto essa s’impianti, che dappertutto stabilisca e crei dei mezzi di comunicazione. Per mezzo dello sfruttamento del mercato mondiale, la borghesia imprime un carattere cosmopolita alla produzione ed alla consumazione di tutti i paesi. A disperazione dei reazionari essa tolse all’industria la sua base nazionale. Le vecchie industrie nazionali sono distrutte o sul punto di esserlo. Esse vengono sostituite da nuove industrie la cui introduzione di- viene una questione vitale per tutte le nazioni incivilite; industrie che non adoperano più materie prime indigene, bensì materie prime venute dalle regioni più lontane, ed i cui prodotti non si consumano soltanto nel paese stesso, ma in tutti i punti del globo. In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, si sviluppa un traffico universale, una dipendenza mutua delle nazioni. Ciò che avviene nella produzione materiale si riproduce nella produzione intellettuale. Le produzioni intellettuali di una nazione divengono proprietà comune di tutte. L’esclusivismo ed i pregiudizi nazionali divengono ognora più impossibili; e delle diverse letterature nazionali e locali si forma una letteratura universale.”
Nonostante il tempo trascorso la sostanza del discorso marxiano resta intatta. La continua trasformazione degli assetti produttivi, l'estensione su scala sempre più vasta del mercato capitalistico fino alla formazione di un unico mercato globale, fenomeni che Marx aveva saputo leggere in un industrialismo allora ancora ai suoi primi passi, si sono ora completamente realizzati. La globalizzazione, di cui tanto spesso si parla come di un fenomeno qualitativamente nuovo, funziona ogni giorno seguendo proprio questa legge dello sviluppo incessante e distruttivo della natura, delle frontiere nazionali e dei rapporti fra gli uomini che Marx già alla fine del 1847 aveva saputo intravvedere.
Certo Marx non poteva prevedere tutti gli sviluppi della modernità, ma il suo pensiero ci può aiutare oggi a confrontarci con le dinamiche e le contraddizioni del nostro tempo a partire dal concetto stesso di crisi.
“La società borghese moderna che mise in movimento così potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia a quei maghi, che non sapevano più dominare le potenze infernali, che essi stessi avevano evocato. Da trenta anni almeno, la storia dell’industria e del commercio non è che la storia della rivolta delle forze produttrici contro i rapporti di produzione moderna, contro i rapporti di proprietà, che sono le condizioni d’esistenza della borghesia e della sua supremazia. Basta menzionare le crisi commerciali che, per il ritmo periodico, mettono ogni volta più in questione l’esistenza della società borghese. Ogni crisi distrugge regolarmente, non soltanto una massa di prodotti già creati, ma ancora una grande parte delle stesse forze produttrici. Una epidemia colpisce l’umanità, che nelle epoche precedenti sarebbe sembrata un paradosso: è l’epidemia della sopra-produzione. La società si trova subitamente rigettata in uno stato di momentanea barbarie: si direbbe che una guerra di sterminio le porta via tutti i mezzi di vita: l’industria ed il commercio sembrano paralizzati. – E perché? – perché la società ha troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttrici di cui essa dispone non assicurano più le condizioni della proprietà borghese; al contrario, esse divennero troppo potenti per queste condizioni, che si mutano in ostacoli; e tutte le volte che le forze produttrici sociali spezzano gli ostacoli, esse precipitano nel disordine la società intera, e minacciano l’esistenza della proprietà borghese. Il sistema borghese divenne troppo angusto per contenere le ricchezze create nel suo seno. Come fa la borghesia per superare queste crisi? Da una parte con la distruzione forzata d’una massa di forze produttrici, dall’altra con la conquista dei nuovi mercati e lo sfruttamento più perfetto degli antichi. Cioè essa prepara delle crisi più generali e più terribili, e riduce i mezzi per prevenirle.”
Da cosa ripartire allora per tentare di andare oltre le rovine del presente, per riaprire un discorso di speranza?
Come scriveva già nel 1950 Karl Korsch forse davvero occorre abbandonare definitivamente il marxismo novecentesco con la sua idea di Progresso, del socialismo come uscita naturale automatica e ineluttabile della storia; per ripartire da Marx.
Occorre ripensare la storia (come diceva Benjamin) sotto il segno della catastrofe, dal punto di vista dei vinti (superando contraddizione propria di Marx fra denuncia implacabile dei costi umani dello sviluppo e visione comunque positiva dello sviluppo come necessità storica, come fatto in se progressivo). Occorre ragionare su una nuova qualità della vita, ripensare il socialismo come civiltà radicalmente altra, non più fondata sul paradigma dello sviluppo continuo delle forze produttive e dello sfruttamento intensivo della natura. Una civiltà fondata su una diversa e nuova qualità della vita, su una nuova gerarchia dei valori, su un rapporto diverso con la natura, su relazioni egualitarie tra sessi, popoli, razze. Il che significa cambiare rovesciare la linea seguita dal mondo occidentale negli ultimi cinque secoli, abbandonare l'ottimismo ingenuo di un pensiero che si voleva incarnasse il senso della storia, ridare cioè all'idea di socialismo la sua dimensione utopica.
giovedì 24 marzo 2011
Non il denaro, ma l'uomo è il centro del mondo. Ripensare Marx
In realtà non è solo per l'avversione sempre manifestata da Marx di vedersi (o lasciarsi vedere) come fondatore di un sistema, che ciò accade. E' piuttosto una conseguenza della natura stessa della sua opera. La ricchezza, profondità e complessità dell'opera di Marx sfidano qualunque tentativo di semplificazione e pongono nel momento stesso in cui si affronta il suo pensiero problemi enormi: da dove iniziare, da quale angolazione, cosa scegliere fra tanti testi e temi, cosa fare della enorme quantità di interpretazioni, con quali criteri procedere alla selezione e allo studio dei testi.
Occorre preliminarmente dare per scontata l'impossibilità di una lettura neutra, obiettiva di Marx. Una pretesa del tutto estranea proprio a Marx e al metodo marxista. Il che ovviamente immediatamente comporta la necessità di tener conto del pericolo opposto, di far dire a Marx quello che egli non ha mai detto. Di fare di lui un pensatore buono per tutti gli usi, rivoluzionari, riformistici e perfino funzionali al mantenimento dello stato di cose presente. Perchè, nonostante le ricorrenti affermazioni sul superamento del suo pensiero (affermazioni che iniziano ad apparire già pochi anni dopo la sua morte), costante è stato il ricorso a questi, e soprattutto in momenti di crisi o in fasi di passaggio, quando più pressante era la necessità di fare il punto della situazione, a dimostrazione di come al di là di ogni feticismo, di ogni santificazione della parola del “maestro”, di ogni volgarizzazione e persino, se vogliamo, di ogni negazione, l'opera di Marx rappresenti da un secolo e mezzo un lascito ricchissimo a cui attingere non per ricavarne semplicisticamente risposte preconfezionate per l'oggi, ma per trarne indicazioni metodologiche e di percorso ancora capaci di illuminare la ricerca di possibili vie d'uscita alla crisi del presente, che è crisi più complessiva di civiltà prima che di assetti economici.
Considerato tutto questo, pensiamo, dato il contesto in cui questa conversazione si colloca, considerati i tempi ristretti di esposizione, il modo più proficuo di operare sia di dedicare questo iniziale e necessariamente sintetico approccio a Marx ai suoi stessi inizi, a come cioè negli anni fra il 1843 e il 1847 si vengono gradualmente a delineare quelli che resteranno poi per tutta la sua vita (certo non senza contraddizioni e mutamenti) gli assi portanti del suo pensiero. A questo punto occorre esplicitare con chiarezza l'angolazione da cui si parte, la trave che regge l'intero edificio. Crediamo che il pensiero marxiano sia comprensibile solo a partire da una visione unitaria della sua opera che assuma come angolazione visuale una profonda unità concettuale tra il cosiddetto Marx giovane e il Marx maturo, quello per intenderci de Il capitale.
Il che ovviamente non significa che i temi trattati e il livello di elaborazione degli stessi restino uguali per il corso intero della sua vita, e che l'opera di Marx sia un tutto talmente interconnesso che, come nei castelli di carte, toglierne una parte significherebbe far crollare l'intera struttura, in altri termini la cosiddetta invarianza di bordighiana memoria. Niente di tutto questo: l'opera di Marx non è certo priva di contraddizioni e ambiguità e non potrebbe essere diversamente considerata la mole degli scritti, il lungo periodo in cui sono stati prodotti, e soprattutto l'essere stati in parte non piccola bozze e appunti ad uso privato, dei semilavorati (sempre per restare in campo bordighiano) destinati ad essere riscoperti e pubblicati a molti decenni dalla morte del loro autore. Si tratta invece di avvicinarsi a Marx partendo dall'ipotesi che l'insieme della sua opera non conosce fratture temporali, che non è possibile parlare di un prima e di un poi o di fasi e periodi (come si fa con gli artisti, cosa che pure Marx un po' fu). Criticando dunque la visione strutturalista althusseriana tanto in auge negli anni '60 e '70 del secolo scorso che separava nettamente un Marx giovane (umanista e filosofo, pensatore non scientifico) da un Marx maturo (scienziato de Il Capitale). Un'opera che crediamo vada intesa come un cantiere aperto, su cui egli interviene continuamente, dilatandone le dimensioni e gli ambiti, sottoponendola a continua critica, rivedendola alla luce dell'evolversi concreto della economia e della politica.
Non c'è dunque (concordiamo con Bloch, Rubel e ultimo Fusaro) in Marx contraddizione tra materialismo ed umanesimo, né rottura tra l'opera filosofica giovanile e la ricerca scientifica della maturità, poiché l'orientamento “materialista” sempre più accentuato mira con tutta evidenza a rendere più efficace la denuncia “umanistica” dell'alienazione che è l'asse portante delle prime opere. Il che senza tacere che non sempre Marx seppe tenere insieme nel modo migliore i vari aspetti del suo pensiero, ponendo egli stesso le premesse dei fraintendimenti del suo pensiero. A partire dall'amico fraterno Friedrich Engels a cui si deve la costruzione dell'immagine di un Marx “scienziato” che definitivamente abbandonato il campo filosofico, si dedica alla ricerca delle leggi oggettive di funzionamento del modo di produzione capitalistico.
L'insieme della sua opera, dunque, come una riflessione critica in continuo divenire (in stretto rapporto con gli accadimenti economici, politici e culturali del suo tempo) sull'uomo e sulla società. Una riflessione organica e coerente, che si costruisce progressivamente a partire da un nucleo iniziale (le opere giovanili, appunto), diventando ogni volta sempre più approfondita, ma senza mai perdere il suo carattere unitario che consiste prima di tutto in una critica globale del modo di produzione capitalistico. Di qui l'impossibilità di una lettura parcellizzata, per aree (economia, sociologia, filosofia, storia, teoria politica) della sua opera come invece costantemente tentato dai suoi critici borghesi, sempre tesi a valorizzare di volta in volta un aspetto contro gli altri.
Marx definisce tutta la sua attività utilizzando il concetto di “critica” il cui oggetto è l'insieme della società borghese, del modo di produzione capitalistico, criticato in ogni suo aspetto (religioso, politico, culturale, storico sociale) a partire dal modo di funzionamento della struttura economica (che, però, a differenza del marxismo volgare non esaurisce la critica).
Nel 1843 Marx rompe con Feuerbach e i giovani hegeliani che vedevano nell'affrancamento religioso e nella conquista delle libertà politiche l'obiettivo da raggiungere. Egli scopre che è nella sfera materiale dell'esistenza che si annidano le contraddizioni. E' il mondo reale a produrre la religione e non viceversa. Marx vede nel lavoro, nel processo di produzione materiale della vita, il centro delle relazioni sociali, l'attività umana per eccellenza. Ma il lavoro è diventato una forma di schiavitù, di alienazione, di perdita di coscienza di se, un fattore estraneo e ostile.
Il tema centrale nell'opera del giovane Marx è dunque quello dell'alienazione. Marx postula che l'uomo debba recuperare integralmente le sue potenzialità di autodeterminazione e di autorealizzazione, potenzialità nel corso della storia sempre più collocate al di fuori di lui in istanze esterne, estranee e superiori. La Religione e lo Stato. A quest'ultimo gli uomini delegano il compito di regolare i rapporti fra gli uomini.
L'alienazione non va intesa in senso psicologico, ma economico. L'operaio si vede privato del frutto del suo lavoro che “si erge davanti a lui come una potenza indipendente”. Il lavoro da fondamento della vita degli uomini, strumento di realizzazione di se, diventa una merce che il proletario vende in cambio di denaro. Le merci hanno vita autonoma non hanno più alcun rapporto con i produttori. Ciò diventa sempre più reale tanto più il capitalismo sviluppa la parcellizzazione e la meccanizzazione del lavoro: il proletario perde sempre più il senso del suo lavoro. Il lavoro non è più considerato parte reale, ma negazione della vita. Il lavoro diventa fonte di sofferenza psicologica. Aumentano i bisogni, si riducono le possibilità di realizzarli.
“Tanti più oggetti l'operaio produce, tanto meno ne può possedere” e “La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione delle cose”, scrive Marx nei Manoscritti.
L'uomo si caratterizza sempre di più come coscienza infelice. Il proletariato diventa universale e non solo per la generalizzazione del lavoro salariato, ma perchè l'umanità intera tende sempre più a perdere il senso della propria esistenza. La vita diventa un grande vuoto, un nulla, fino a diventare reale soltanto nelle finte vite degli altri osservate sugli schermi televisivi.
L'operaio dice Marx cerca altrove la proprie realizzazione e la trova nella forma più bassa proprio in quelle funzioni che costituiscono la soddisfazione dei bisogni più materiali, il mangiare, il bere, il riprodursi. In tal modo “ciò che è animale diventa umano e ciò che è umano animale”.
Tutta l'opera di Marx sarà dominata dalla denuncia di questo rovesciamento, dalla consapevolezza di vivere in un mondo rovesciato, dell'irrazionalità profonda del reale. In ciò davvero egli rovescia Hegel. Un reale legato all'irrazionalità dell'economia capitalistica. C'è un rapporto complesso tra razionalità e irrazionalità che Marx denuncia. La modernizzazione è al tempo stesso compimento della Ragione (Hegel), ma anche a causa della scissione tra uomo e società il regno della irrazionalità.
Si tratta allora per far diventare il mondo razionale e ciò è possibile solo a patto di vedere la filosofia come critica dell'esistente, come non mera contemplazione del reale. Per il giovane Marx un altro mondo è possibile. Quest'altro mondo è il comunismo. Il comunismo dunque è il tentativo di superamento di questa antinomia, di questa irrazionalità. E' riportare l'uomo alla dimensione della specie, alla sua natura comunitaria, al recupero della propria essenza umana che è prima di tutto relazione con gli altri a partire dal lavoro, cioè dalla riproduzione in forma sociale delle condizioni che permettono la riproduzione consapevole ed organizzata della specie. Marx arriverà a dire che la prima forma di divisione del lavoro avviene fra uomo e donna nell'atto sessuale.
La base su cui poggia tutto il lavoro teorico marxiano è la convinzione che l'uomo sia un essere comunitario, l'emancipazione umana non può essere perciò un processo individuale o la concessione di diritti politici formali, ma un processo collettivo che rivoluzioni alla radici le relazioni fra gli uomini rendendo di nuovo possibile l'edificazione di una autentica comunità umana dove la felicità e la realizzazione di uno sia la condizione per la felicità e la realizzazione di tutti.
“Se presupponi l'uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore, fiducia solo con fiducia, ecc. Se vuoi godere dell'arte, devi essere un uomo artisticamente educato; se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli realmente. Ognuno dei tuoi rapporti con l'uomo, e con la natura, dev'essere una manifestazione determinata e corrispondente all'oggetto della tua volontà, della tua vita individuale nella sua realtà. Se tu ami senza suscitare una amorosa corrispondenza, cioè se il tuo amore come amore non produce una corrispondenza d'amore, se nella tua manifestazione vitale di uomo amante non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un'infelicità.” (Manoscritti)
“Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo, Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l'effetto della bruttezza, la sua forza repulsiva, è annullata dal denaro. Io, considerato come individuo, sono storpio, ma il denaro mi procura venti quattro gambe; quindi non sono storpio. Io sono un uomo malvagio, disonesto, senza scrupoli, stupido; ma il denaro è onorato, e quindi anche il suo possessore. Il denaro è il bene supremo, e quindi il suo possessore è buono; il denaro inoltre mi toglie la pena di esser disonesto; e quindi si presume che io sia onesto. Io sono uno stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di tutte le cose; e allora come potrebbe essere stupido chi lo possiede? Inoltre costui potrà sempre comperarsi le persone intelligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti, non è più intelligente delle persone intelligenti? Io che col denaro ho la facoltà di procurarmi tutto quello a cui il cuore umano aspira, non possiedo forse tutte le umane facoltà ? Forse che il mio denaro non trasforma tutte le mie deficienze nel loro contrario ?
E se il denaro è il vincolo che mi unisce alla vita umana, che unisce a me la società, che mi collega con la natura e gli uomini, non è il denaro forse il vincolo di tutti i vincoli? Non può esso sciogliere e stringere ogni vincolo ? E quindi non è forse anche il dissolvitore universale ? Esso è tanto la vera moneta spicciola quanto il vero cemento, la forza galvano-chimica della società.”
Quando non ho denaro per viaggiare, non ho nessun bisogno, cioè nessun bisogno reale e realizzantesi di viaggiare. Se ho una certa vocazione per lo studio, ma non ho denaro per realizzarla, non ho nessuna vocazione per lo studio, cioè nessuna vocazione efficace, nessuna vocazione vera. Al contrario, se io non ho realmente nessuna vocazione per lo studio, ma ho la volontà e il denaro, ho una vocazione efficace. Il denaro, in quanto è il mezzo e il potere esteriore, cioè nascente non dall'uomo come uomo, né dalla società umana come società, in quanto è il mezzo universale e il potere universale di ridurre la rappresentazione a realtà e la realtà a semplice rappresentazione, trasforma tanto le forze essenziali reali, sia umane che naturali in rappresentazioni meramente astratte e quindi in imperfezioni, in penose fantasie, quanto, d'altra parte, le imperfezioni e le fantasie reali, le forze essenziali realmente impotenti, esistenti soltanto nell'immaginazione dell'individuo, in forze essenziali reali e in poteri reali. Già in base a questa determinazione il denaro è dunque l'universale rovesciamento delle individualità, rovesciamento che le capovolge nel loro contrario e alle loro caratteristiche aggiunge caratteristiche che sono in contraddizione con quelle.
Sotto forma della potenza sovvertitrice qui descritta il denaro si presenta poi anche in opposizione all'individuo e ai vincoli sociali, ecc., che affermano di essere entità per se stesse. Il denaro muta la fedeltà in infedeltà, l'amore in odio, l'odio in amore, la virtù in vizio, il vizio in virtù, il servo in padrone, il padrone in servo, la stupidità in intelligenza, l'intelligenza in stupidità. Poiché il denaro, in quanto è il concetto esistente e in atto del valore, confonde e inverte ogni cosa, è la universale confusione e inversione di tutte le cose, e quindi il mondo rovesciato, la confusione e l'inversione di tutte le qualità naturali ed umane.”
Non il denaro, ma l'uomo è il centro di un mondo che non sia “alienato”, cioè divenuto “estraneo” agli uomini. Una realtà rovesciata e incomprensibile, dunque fonte di sofferenza. “L'uomo è per l'uomo essenza suprema”, “la vera comunità umana”, scriverà nei Manoscritti.
(Continua)
mercoledì 23 marzo 2011
martedì 22 marzo 2011
venerdì 18 marzo 2011
Giornata della memoria e dell'impegno contro le mafie
martedì 22 marzo ore 17
Sala Punto d’incontro Coop di Savona
Centro Commerciale Il Gabbiano - Via Baracca 1, 4°piano
LE MANI IN PASTA
La mafia esiste, ma anche l’Italia
incontro pubblico con Gianluca Faraone, presidente della cooperativa Placido Rizzotto-Libera Terra che nel Corleonese coltiva le terre confiscate ai mafiosi
Al termine, degustazione dei prodotti di Libera Terra
L’incontro pubblico si svolge nell’ambito delle iniziative organizzate in collaborazione con Libera Savona - Associazione Don Beppe Diana, libreria Ubik e Bottega della Solidarietà, con il patrocinio del Comune di Savona.
Saranno presenti anche Carlo Barbieri, autore del libro “Le mani in pasta” sulle cooperative di Libera Terra e dirigente Coop Italia e Matteo Lupi, coordinatore regionale di Libera in Liguria. Interverrà inoltre il vice presidente di Coop Liguria, Mauro Bruzzone, per illustrare l’impegno della cooperativa sul tema della legalità: dal sostegno alle cooperative di Libera Terra, ai cui prodotti il mondo Coop offre un canale preferenziale di commercializzazione, al percorso didattico di educazione alla cittadinanza “Le mani in pasta”, rivolto ai ragazzi delle scuole per indurli a riflettere sul fenomeno mafioso e sull’importanza del rispetto delle regole.
Altri appuntamenti promossi da Libera:
Mercoledì 23 marzo, dalle 17: lettura dei nomi delle vittime di mafia e la successiva conferenza “Mafie al Nord, mafie in Liguria” con Nando Dalla Chiesa.
Mercoledì 30 marzo dalle 9 alle 11 le scuole savonesi incontrano i viaggiatori della Carovana della Legalità. La Carovana, partita da Roma martedì 1 marzo, attraverserà l’Italia in 75 tappe e arriverà a Corleone domenica 5 giugno.
giovedì 17 marzo 2011
Pasquale Stanziale, Ideologie e dissolvenze
Pasquale Stanziale
Abbiamo visto come il manuale di B. Graciàn, un autore-guida di Debord, sia divenuto una lettura classica per i manager USA. Questa è una di quelle situazioni per cui le domande di Debord hanno ricevuto dal capitalismo delle risposte invertite . Allo stesso modo le teorie debordiane sono fatte proprie dal marketing di aziende (Negozi Hollister ecc. - M. D’Ambrosio 2008), la deriva è sperimentata ed istituzionalizzata da Facoltà di Architettura romane e torinesi ed è presente in alcuni format TV nei quali vengono costruite situazioni emozionanti da attraversare. Il gruppo Luther Blisset (oggi Wu Ming), anche, ha fatto la sua parte (P. Stanziale 1998) con le relative denigrazioni e con critiche di cui qualcuna, a nostro avviso, fondata. Che dire poi di quel gigantesco dètournement pervasivo che prende il nome di postmoderno, figurazioni che assemblano stili precedenti secondo un progetto ludico, partecipando ad uno spettacolo globale, ad un immenso “simulacro immaginifico” (F. Jameson 1994) tra stereotipizzazioni e nostalgie.
I parchi a tema, i villaggi disneyani, i villaggi-outlet cos’altro sono se non progetti paradossalmente deturnati dell’urbanismo unitario…
4.3
E le vedette, poi, di cui parla Debord nella Sds, fenomeno che nel tempo si è ampliato fino a riempire, ai nostri giorni, interi pomeriggi di trasmissioni televisive in cui storie ed ambiti privati di veline e di personaggi dello spettacolo vengono scrutati con dovizia di particolari anche creando artificiose situazioni in cui queste persone sono costrette a muoversi ed agire, universi in cui queste vedette spesso perdono ogni forma di decoro personale in nome di un finto realismo spettacolare.
4.4
Queste solo alcuni esempi di risposte invertite della storia alle domande debordiane (vedi anche G. Agamben 1999), un percorso che giunge fino ad una spettacolarità integrata che può assumere varie forme: si va dalla strategia del terrorismo-spettacolo (R. Massari 2002)- che consente alle classi di potere, nei vari paesi dell’imperialismo, di ridisegnare l’ordine mondiale in funzione dell’interesse delle multinazionali- sino a un voyeurismo televisivo generalizzato, in cui la fiction si installa sempre più nella realtà, sotto l’occhio onnipresente delle telecamere, confermando ulteriormente l’Hegel deturnato debordiano per cui “il vero è un momento del falso” (G. Debord 2002).
Ma le intuizioni debordiane- come sottolineato da più parti- avvenivano in un momento in cui anche il capitalismo stesso stava cambiando- secondo quanto aveva scritto Marx sul fatto che il capitalismo è fondato sul cambiamento (innovazioni produttive, produzione di nuove merci, ricerca di nuovi mercati ecc.). Un cambiamento che, facendo sue tutte le innovazioni emerse nelle varie aree della conoscenza, procedeva alla realizzazione di nuovi assetti economico-produttivi (vedi punto 4.8). Rispetto a questo andamento l’IS si trovava in ritardo, come ammesso da Debord stesso, un andamento che vedeva il potere procedere rapidamente nello sviluppo delle sue strategie di dominio corrispondenti ai nuovi meccanismi economici.
4.6
Ne i Commentari del resto Debord prende atto di tutto ciò e sottolinea una serie di fatti :
4.6.a- come in Francia e in l’Italia lo spettacolo integrato sia maggiormente presente rispetto ad altre nazioni, questo per una serie di parametri storicamente determinati; noi aggiungiamo che in Italia più che in Francia, venti anni di televisione commerciale (studi specifici sarebbero utili su questo argomento), hanno contribuito certamente a quella mutazione di cui Debord stesso parla (G. Debord 1997) a proposito di generazioni ormai fortemente sottomesse alle leggi dello spettacolo;
4.6.b- anche i cinque punti che Debord indica nella Tesi V dei Commentari come parametri combinati propri dello spettacolare integrato trovano un’area di verifica proprio nell’Italia degli ultimi decenni: la continuità di un rinnovamento tecnologico, l’alleanza e la combinatoria tra economia e stato nell’ambito di interessi di potere, il segreto generalizzato, affermato anche recentemente da un Presidente del Consiglio italiano, la falsificazione indiscutibile, rilevabile marcatamente in taluni universi di discorso, la scomparsa dell’opinione pubblica di cui si parla frequentemente ai nostri giorni, con le gravi conseguenze politiche connesse (scoperta recente e tardiva di alcuni intellettuali italiani), il vero che diviene, in tali ambiti, una ipotesi;
4.6.c- un presente dilatato, con la rimozione del passato e con l’eliminazione di ogni aspettativa per il futuro, è avvertibile in modo netto nella realtà delle società contemporanee, unitamente al rifiuto della storia ed alla sua manipolazione, situazioni denunciate da Debord e rilevabili nell’Italia di tempi recentissimi;
4.6.d- appare pure evidente il fatto che le democrazie nello spettacolo integrato- come quella italiana- presentano una fragilità di fondo (Tesi VIII) che ha come risvolto l’insofferenza per tutto ciò che è opposizione, domanda di cambiamento, critica alle loro espansioni ed alle loro spettacolarizzazioni mercantili.
4.7
Il monitoraggio debordiano dei Commentari continua con una serie di riflessioni che vanno dalla critica all’eccesso di predominio dell’economia- che tende a perdere di vista l’umano (tema caro a S. Ghirardi - 2005)- alla delineazione di una società della sorveglianza e dell’incertezza, alla mafia che si presenta come modello organizzativo nello spettacolo integrato, al ruolo dei servizi segreti nel terrorismo. Le ultime pagine dei commentari trattano della recente storia europea e di come lo spettacolo abbia cambiato l’arte di governare (Tesi XXXII) e di come ci sarà un ricambio nella classe cooptata che gestisce il potere, nell’epoca della spettacolarità compiuta, verso nuovi sofisticati traguardi di dominio- ciò che si è puntualmente realizzato.
In effetti ci sembra che si possa dire che l’intellettuale d’avanguardia Debord nella seconda metà degli anni ’60, attraverso i percorsi cui abbiamo accennato nei punti precedenti, abbia individuato genialmente l’andamento di alcune direttrici sociopolitiche delle società capitalistiche avanzate - con annesse strategie di nuove e più pervasive forme di asservimento- ed abbia reagito al suo meglio, strutturando con altri compagni di viaggio, un nucleo teorico-critico rivoluzionario nell’ambito di un movimento, quello del ’68, che in varie nazioni contestava il capitale, l’imperialismo e la burocrazia (R. Massari 1998), esigendo cambiamenti radicali dal punto di vista socioculturale e politico.
"Noi pensiamo anzitutto che occorra cambiare il mondo, vogliamo il cambiamento più liberatore della società e della vita in cui siamo compressi. Sappiamo che questo cambiamento è possibile con azioni appropriate. Nostro compito è precisamente l'impiego di certi mezzi d’azione e la scoperta di nuovi, più facilmente riconoscibili, nel dominio della cultura e dei costumi, ma applicati nella prospettiva di un’azione reciproca di tutti i mutamenti rivoluzionari. Ciò che si definisce cultura, riflette, ma anche prefigura, in una data società, le possibilità d'organizzazione della vita.
La nostra epoca è caratterizzata fondamentalmente dal ritardo dell'azione politica/rivoluzionaria sullo sviluppo delle possibilità moderne di produzione che esigono un'organizzazione superiore del mondo. Viviamo una crisi essenziale della storia, in cui ogni anno si pone più nettamente il problema del dominio razionale delle nuove forze produttive e della formazione di una civiltà su scala mondiale. "(G. Debord 1957).
Ciò tenendo presente quanto Marx aveva scritto nel Manifesto delineando profeticamente le future dinamiche del capitalismo. "La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, viene profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio di-sincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti. Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni.
Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi all'industria il suo terreno nazionale, con grande rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo nel paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e di scambio universale, un'interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. "(K. Marx F. Engels (1848) 1998- vedi anche punto 4.5).
Anche se Debord, poi, ammette l’esistenza di una arretratezza dell’azione politica (vedi punto 4.5) rispetto alle mutate forme produttive- ed al loro dominio- è pur vero che le sue teorie certamente rappresentano una delle poche narrazioni dell’epoca contemporanea all’altezza del problema (G. Agamben 1999).
5- Firewall, ideologie e dissolvenze
5.1
Un dato di fatto è che lo scioglimento nel popolo dell’IS si presenta coerentemente con l’inizio e con gli sviluppi dei suoi assunti pur prestando il fianco ad una serie di critiche. Vanno opportunamente considerate alcune situazioni.
5.1.a- La storia dell'IS dal 1957 in poi è storia di scomuniche, di espulsioni, di settarismo: gioca qui il suo ruolo l’eredità surrealista ma anche è necessario tener conto di quanto ha scritto A. Jorn ( 1964 cit. vedi 3.3) a proposito di Debord.
5.1.b- Il Situazionismo si è sempre presentato come una pratica teorica a cui Debord ha posto sempre direttrici analitiche proprie ispirate ad una rigorosa ortodossia.
5.1.c- Sono emerse evidenti scollature fra teoria e prassi, con la palese mancanza di condizioni effettivamente rivoluzionarie dopo il Maggio francese.
5.1.d- Come sostiene Gianfranco Marelli (1996) "L’Internationale Situationniste incarrnò questa sfida sul cambiamento e la condusse sino alle estreme conseguenze."
5.1.e- I Situazionisti spesso scivolarono nell’autocontemplazione tendendo ad esagerare la loro influenza sugli eventi del maggio francese.
5.1.i- L’11 novembre 1970 Debord dichiara di voler lascire l’IS. Vaneigem si dimette tre giorni dopo. Nel 1972 Debord e Sanguinetti, i due soli membri superstiti dell’IS, pubblicano La veritabile scission. (In ogni caso, dopo, Debord continuò poi ad attribuire all’avanguardia IS un ruolo strategicamente valido in senso prerivoluzionario, intendendo con ciò la messa in atto di una pratica teorica di critica radicale delle società capitalistiche moderne anticipatoria di una possibile rivoluzione).
5.1.m.b- Il movimento delle occupazioni, intese come coscienza situazionista della storia, rappresenta, per Debord, l’abbozzo di una pratica della rivoluzione (sulla scorta della lotta di classe in corso, a quel tempo, nelle periferie di Los Angeles), ovvero il momento in cui “una generazione ha iniziato ad essere situazionista” (tesi 7).
5.1.m.c- Debord rileva che "oggi l’inquinamento e il proletariato sono i due lati concreti della critica dell’economia politica. Lo sviluppo universale della merce si è interamente verificato in quanto compimento dell’economia politica, cioè in quanto ‘rinuncia alla vita’ "(tesi 17). E denuncia il fatto che l’economizzazione delle risorse naturali ha mostrato il male economico. Inoltre nocività e malattie connesse con la produzione sono sempre più frequenti e troppo care per il sistema mercantile. L’incompatibilità, infine, tra rapporti di produzione e forze produttive, nelle sue punte massime, comporta un deterioramento sempre più marcato di tutte le condizioni di vita (tesi 17).
5.1.m.e- Nella tesi 43 si afferma che “i situazionisti erano sulla breccia per combattere lo spettacolo, non per governarlo”, ciò contro il fatto che l’attaccamento all’IS e il riferirsi in qualche modo all’ambito situazionista potesse comportare quella che si potrebbe definire una rendita di posizione degna di riguardo particolare: ciò che non ha senso, scrive Debord, nell’azione rivoluzionaria (ma che acquistarà, successivamente, senso referenziale e valore per impieghi in ambito mediocratico).
Pasquale Stanziale è nato a Cascano di Sessa Aurunca in provincia di Caserta, laureato in Filosofia, docente di Storia e Filosofia nei Licei, collabora con Università ed Agenzie di Formazione. Ha al suo attivo un’ampia pubblicistica nel campo delle Scienze Umane. Collabora con la rivista Civiltà aurunca per la parte socioantropologica. Tra le sue pubblicazioni Omologazioni e anomalie (Caserta 1999), ricerca divenuta un classico degli studi locali, Mappe dell’alienazione (Roma 1995), saggio di Filosofia politica, la traduzione del best-seller la Società dello spettacolo di G. Debord (Viterbo 2002). Ha curato anche Il Manuale di saper vivere ad uso delle giovani generazioni di R. Vaneigem (Viterbo 2004) ed una antologia di autori situazionisti (Viterbo 1998). Tra le pubblicazioni più recenti Cultura e società nel Mezzogiorno (Caserta 2007).