TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 29 marzo 2012

Guido Seborga (1909-1990)



Giornalista, scrittore, poeta, drammaturgo, pittore, ma soprattutto uomo libero, schierato dalla parte degli ultimi, degli "innocenti" schiacciati da un sistema che vede nel profitto e nel potere valori assoluti a cui tutto va sacrificato. Un autore attualissimo che aiuta a comprendere il presente.


Guido Seborga (1909-1990)

Non si sceglie dove nascere, ma dove vivere si. Per questo Guido Hess, più noto come Guido Seborga (adottò questo pseudonimo nel dopoguerra), nato a Torino nel 1909, resta la voce più autentica dell'estremo Ponente ligure. Ma la Liguria di Seborga non è un paesaggio disabitato, una cartolina. A Seborga interessavano gli uomini e le donne, soprattutto gli invisibili, quelli di cui nessuno parla, quelli che non interessano a nessuno: Quinto lo scaricatore, Milano l'operaio cacciato dalla fabbrica, Desdemona la bella immigrata calabrese vittima della violenza brutale del potere.

Seborga studiò nella Torino antifascista di Augusto Monti (di cui era stato allievo) e Felice Casorati, di Gobetti e poi di Mila e di Bobbio, ma la sua insofferenza all’ordine lo spinse a nuovi ambienti, conoscenze ed esperienze a Berlino, poco prima dell’avvento del nazismo, poi a Parigi, luogo amatissimo in cui tornò con frequenza lungo tutta la sua vita. L'esperienza parigina, che lo mise in contatto diretto con il movimento surrealista, fu fondamentale nella sua formazione e segnò fra le altre cose l'inizio del suo amore per la pittura. Il biennio 1938-39 rappresenta un periodo centrale nel percorso artistico ed umano di Guido Seborga. Tornato da Parigi, dove ha potuto conoscere e frequentare Tristan Tzara e altri esponenti di punta del movimento surrealista, nel 1938 entra in contatto con Ezra Pound che lo incoraggia a perseguire nella sua ricerca espressiva. Il 1939 è segnato, poi, da tre eventi cardinali della sua vita: il matrimonio con Alba Galleano, l'inizio della stesura del suo primo romanzo, L'uomo di Camporosso, la rottura definitiva con il fascismo e l'inizio dell'attività cospiratoria.


“So di essere nato nel 1939 – scriverà molti anni dopo – quando mi ribellai al fascismo, presi netta posizione, organizzai la lotta clandestina, mi lasciai prendere dalla collera in tutto il mio sangue...”.

La matrice antifascista torinese lo indusse all’azione, alla diserzione dalla guerra fascista e alla partecipazione alla guerra partigiana, prima col Partito d’azione, poi nelle brigate socialiste “Matteotti”. Nel primo dopoguerra di dedicò all’ attività politica nel Partito Socialista. A Roma con Basso diresse la rivista “Socialismo” e collaborò con la direzione del partito occupandosi della politica culturale.



Già presente dagli anni ‘30 sulle principali riviste culturali italiani (Circoli, Campo di Marte, Prospettive, Letteratura, Maestrale), nel dopoguerra contribuì alla riapertura della redazione torinese del ” Sempre Avanti” poi ridiventato “Avanti”, scrivendo su quotidiani e riviste della sinistra italiana e internazionale. Partecipò con Ada Gobetti, Franco Antonicelli, Felice Casorati, Massimo Mila ed altri alla fondazione dell’Unione Culturale di Torino, fu tra gli organizzatori dell’allestimento del Woyzeck di Buchner rappresentato nel ‘ 46 al teatro Gobetti.

A Parigi, dove fu direttore di “Italia Libera” e collaborò a “Europe” e alle ”Editions des Minuit” fu parte dell'ambiente culturale e artistico dei surrealisti, del Cafè Flore, di Sartre, Vercors, Artaud, Eluard, Tzara, di Severini, Franchina e Magnelli, scrivendo di teatro, cinema, musica, letteratura, pittura.



Nel 1948 Mondadori pubblicò nella prestigiosa Medusa degli italiani “L’uomo di Camporosso”, nel 1949 “Il figlio di Caino” accolti con grande interesse dalla critica. Scrittore di forte intonazione realista Seborga racconta di un mondo di diseredati che combattono per la sopravvivenza e per la dignità in una terra ligure aspra e dura. Fu alla sua scuola che si formò il giovane Francesco Biamonti.

Nei primi anni Cinquanta segue come giornalista la grande lotta dell'Ilva di Savona, ne ricaverà materiale per "Gli innocenti" il romanzo della Savona operaia, omaggio grandioso alla città e alla sua gente coraggiosa e fiera. Qualche anno dopo è la volta di "Ergastolo", una storia ambientata nel porto di Genova in cui Seborga descrive la condizione dei lavoratori negli anni del boom economico. Ancora la storia di una lotta, il racconto drammatico di una battaglia per il lavoro e per la difesa della propria dignità di uomini liberi.



Guido Seborga affiancò all’attività di scrittore quella di poeta, presente fin dagli anni giovanili e approdata nel 1965 alla prima di tre raccolte ” Se avessi una canzone” in cui dominano il mare, il sole, il vento, le aspre valli di confine di una terra di ulivi e viti, selvaggia come i suoi abitanti.


Fin da bambino fu affascinato dalle incisioni rupestri della Valle delle Meraviglie, che costituiscono il legame ideale fra poesia e pittura: dagli anni ‘60 riprese a disegnare e dipingere creando nelle “ideografie” una forma di pittura originale che unisce il segno dinamico e le nere silouettes di figure arcaicizzanti alle contrastanti accensioni cromatiche degli sfondi in cui esse si profilano.


Il suo amore per la città di Bordighera si è manifestato negli anni anche con una concreta e attiva partecipazione alla vita culturale del ponente ligure. Seborga partecipò attivamente all’organizzazione negli anni ‘50-’60 del premio di letteratura e pittura “Cinque Bettole” insieme a personaggi di rilievo quali Calvino, Vigorelli, Accrocca,Betocchi, Natta, Balbo; per poi negli anni ‘60 - 70 contribuire alla creazione e allo sviluppo dell’Unione Culturale Democratica di Bordighera nei cui locali con il suo contributo furono organizzate mostre, dibattiti, conferenze, opere teatrali.


Morirà il 13 febbraio 1990, dopo una lunga malattia, all'ospedale Mauriziano di Torino nell'indifferenza quasi generale di stampa e critica.

Un silenzio durato fino al 2003 quando il giornalista torinese Massimo Novelli fa uscire il volume L'uomo di Bordighera, che è al contempo inchiesta giornalistica, tentativo di biografia e appassionato tributo ad uno dei più significativi scrittori del secondo dopoguerra. Da allora l'interesse verso Guido Seborga è andato crescendo: convegni, mostre (Seborga fu anche apprezzato pittore), ricerche, ristampe. Un doveroso risarcimento per un silenzio durato troppo a lungo.






Nel 1961 esce presso l'editore Ceschina di Milano "Gli innocenti" il romanzo in cui Guido Seborga ricostruisce la grande lotta dell'Ilva di Savona del 1950. Il romanzo della Savona operaia, un omaggio sincero e intenso ai suoi lavoratori coraggiosi e tenaci nella difesa dei loro diritti e dell'avvenire economico della loro città.


Lunedì 2 aprile alle ore 17.30 presso il MAP (Museo delle arti Primarie) di Savona, al piano superiore del Mercato Civico in Corso Mazzini, Giorgio Amico, direttore editoriale della Fondazione TribaleGlobale, introdurrà e coordinerà l'incontro:



Identità perduta, la Savona di Guido Seborga



Sarà presente Laura Hess Seborga



"Savona era lucente nella fredda mattina invernale. Pochi giorni prima era caduta la neve sulle colline e montagne intorno. La cittadina si sviluppava stretta alle spalle dalla montagna, di dove scende la ferrovia che viene dal Piemonte, di fronte il mare con le sue insenature, il sacco blu chiuso del porto con la torre di Leon Pancaldo, che fa ricordare in piena vita moderna un mondo antico diventato posticcio in quell’atmosfera di navi di depositi di fabbriche. Le case si allungano sulla costa sino a Spotorno che appare ridente dopo il Capo. Ma dalla parte di Savona la costa è brulla, severa, coi comignoli delle fabbriche; e non c’è demarcazione tra Vado e Savona, ma un susseguirsi ininterrotto di casoni grigi e tristi. Quando verso sera le sirene delle fabbriche lacerano l’aria, le strade e i filobus cominciano a riempirsi di frotte di operai, e anche le biciclette compaiono numerose, e si coglie forse meglio che in ogni altra ora, la qualità della città, durante il giorno le grandi strade sono quasi deserte, solo l’Aurelia mantiene sempre il suo traffico.
Questo è un centro industriale, dove l’organizzazione nazionale e internazionale ha impresso un suo segno, che ha sollevato non pochi drammi umani. Molti uomini anche dai paesi vicini erano venuti qui con la speranza di realizzare degnamente la loro vita nel lavoro. Era una sera fredda e lucente, e gli operai terminato il lavoro uscivano dalla fabbrica...

Da “ Gli innocenti ” 1961

venerdì 23 marzo 2012

Identità perduta. La Savona di Guido Seborga




Lunedì 2 aprile 2012
Ore 17.30
nei locali del MAP (Museo Arti Primarie)
c/o Mercato civico
Corso Mazzini, Savona

Giorgio Amico
parlerà su
Identità perduta. La Savona di Guido Seborga

La rivoluzione del '900 e quella del social network

martedì 20 marzo 2012

Savona: sabato 24 marzo consegna del Premio Nazionale di Poesia “Camillo Sbarbaro” a Franco Loi




Premio nazionale di poesia per l’inedito “Camillo Sbarbaro – Resine 1911”
Sabato 24 marzo 2012
Sala Rossa del Comune di Savona
ore 10.30





Savona: sabato 24 marzo consegna del Premio Nazionale Poesia “Camillo Sbarbaro” a Franco Loi

Cento anni fa, nel 1911, grazie ad una sottoscrizione tra i suoi amici e compagni di classe del Liceo “Chiabrera”, un giovane poeta destinato a diventare una delle voci più importanti della lirica novecentesca italiana, Camillo Sbarbaro, stampava la sua prima raccolta di poesie, Resine. Per celebrare quell’evento e quel libretto, da cui prende il nome, la rivista savonese “Resine” ha bandito, due anni fa il Premio nazionale di poesia per l’inedito “Camillo Sbarbaro – Resine 1911”, vinto da uno dei più noti poeti italiani viventi, Franco Loi, con la raccolta I Niül (Le Nuvole).

Con la pubblicazione della raccolta di Loi, cui si accompagnano il volume di Flavio Baroncelli Alfabeto, recentemente presentato qui a Savona e quello, anch’esso postumo, di Arrigo Bugiani, intitolato Soprappensieri dell’età senile, la rivista “Resine”, fondata da Adriano Guerrini, docente del Liceo “Chiabrera” dal 1953 al 1964, celebra i suoi quarant’anni di vita varando i “Libri di Resine”, pubblicati in collaborazione con la casa editrice “Interlinea” di Novara.

La raccolta di Franco Loi I Niül, l’ultimo fascicolo della rivista Resine (e dintorni) e il volume di Arrigo Bugiani Soprappensieri dell’età senile verranno presentati in Sala Rossa, sabato 24 marzo alle ore 10.30 da Silvio Riolfo Marengo, Pier luigi Ferro e Stefano Verdino della redazione di “Resine”, nonché dal prof. Orso Bugiani, figlio dello scrittore toscano, e da Franco Loi, vincitore del premio Sbarbaro – Resine 1911.

Durante la cerimonia il prof. Bugiani farà dono alla Biblioteca Civica “Barilli” di Savona della preziosa collezione dei libretti di Mal’aria, realizzati da Arrigo Bugiani tra il 1960 e il 1994, composta da 568 fogli 20 x 30 cm. piegati due volte e stampati sui più diversi tipi di carta, con impresse poesie e testi di celebri letterati (Sbarbaro, Firpo, Caproni, Rafael Alberti, Prezzolini, Papini, Quasimodo ecc.) illustrate dalle immagini, confezionate per questa singolare edizione, da artisti di rango quali Casorati, Rosai, Guttuso, Annigoni, De Pisis e altri.



martedì 13 marzo 2012

Tra chinotto e farinata: "Made in Savona", il cd ironico e dissacrante dei Funkestein


Uscita da decenni di crisi industriale senza più quelle fabbriche che ne avevano tanto fortemente segnato l'identità da ispirare artisti e scrittori, come Guido Seborga de "Gli Innocenti" solo per citare il caso più noto, Savona fatica ancora a trovare una sua identità e non riesce a scrollarsi di dosso l'immagine di città grigia, poco aperta al nuovo. L'affermazione è forse esagerata, probabilmente come in tutte le cose c'è del vero e del falso, ma certo la città non brilla per vivacità culturale e artistica.

Per questo ben vengano iniziative come la mostra in corso di svolgimento di Carin Grudda che ha trasformato il centro cittadino in una splendida galleria d'arte dominata da un gigantesco gatto blu che volta ironicamente le terga al Palazzo Comunale e preferisce diventare oggetto di gioco e di curiosità per i bambini che si rincorrono fra le sue zampe.

Ma se l'ironia è la cura del male di vivere di questa città, allora "Made in Savona" il cd di esordio dei Funkestein rappresenta una felice sorpresa. Sei pezzi, scanzonati e allegri, che assemblano in un sound trascinante funky, rock, e una sana dose di ironia non priva di lirismo.

Panissa Funky, Lascia che nevichi belin, il vento del Letimbro questi alcuni dei pezzi raccolti dai tre artisti savonesi dai nomi improbabili, il Barone Von Funkestein, Nick Caya e Phil Pialla, in un tentativo in larga parte riuscito di coniugare in modo convincente rock e nostalgia, musica e territorio, tradizione e modernità.

"Made in Savona" è un cd che sa di vento e di mare, di chinotto e di farinata.

Il Cd è ascoltabile a questo sito

http://www.myspace.com/580878227





venerdì 9 marzo 2012

La città come una galleria d'arte: il mondo fiabesco ed ironico di Carin Grudda


Rendere più umana la città affermando il valore d'uso dell'opera d'arte che diventa oggetto familiare, da utilizzare al solo fine del godimento immediato. Nessun piacere estetico "colto", ma esperienza fisica, tattile, visiva. E i bambini, da sempre i migliori esperti d'arte contemporanea proprio perchè privi di pregiudizi, hanno subito colto l'occasione, utilizzando come giocattoli le grandi e colorate sculture della Grudda.


La città come una galleria d'arte: il mondo fiabesco ed ironico di Carin Grudda


Mercoledì' 7 marzo 2012 è iniziato per le vie e le piazze di Savona il posizionamento dei bronzi di Carin Grudda. Le opere dell'artista tedesca rientrano nel progetto culturale espositivo realizzato dalla galleria Conarte con il Comune di Savona. Le opere saranno dislocate all'aperto, mentre la sezione pittorica si aprirà sabato 10 marzo alle ore 17 nella sede della galleria Conarte in via Brignoni 26r, alla presenza dell'artista che, contestualmente, si recherà poi nelle varie locations delle opere in Savona. Tra le opere spicca il grande Gatto Blu, intitolato “Blau Miau”, alto oltre 4 metri, che è già posizionato in Piazza Sisto IV davanti a Palazzo Civico.

Nata a Gudensberg in Germania nel 1953, l'artista si diploma a Kassel e prosegue poi gli studi di arte e filosofia. Pittrice dal 1982, inizia a realizzare grandi sculture in bronzo dal 1998, destinate in particolare a spazi urbani.

Come afferma il critico C. Wolfgang Muller, si tratta di una vera e propria riconquista degli spazi da parte dell'arte:

“La connessione fra mondo infantile e modernizzazione dello spazio della vita quotidiana, nata ed evolutasi con le innovazioni del XXI secolo, può diventare un obiettivo per gli artisti contemporanei. Essi, in realtà, pur guardando verso il futuro, possono accettare la sfida di volgere uno sguardo al passato dove ha inizio la propria storia, che è infinita così come la ricerca di un incerto avvenire. ´Back to the roots` (ritorno alle radici) era un salutare invito non solo della psicoanalisi. ´Back to the rooms` (ritorno agli spazi) potrebbe essere un salutare invito alle attuali correnti dell’arte visiva, che si è lasciata alle spalle la dicotomia fra “interno” ed “esterno” e ricerca la connessione fra la familiarità della casa della nostra infanzia e l’estraneità della vita successiva, tra l’intimità delle mura paterne e la lontananza dei luoghi nei quali tutti noi dobbiamo tentare di trovare una nuova casa. Ci sono artisti, come Carin Grudda, che si sono dedicati a questo compito. E ci danno speranza.”

Luciano Caprile nel suo testo critico afferma:

“Con la Grudda si compie sempre un ideale percorso labirintico che ci conduce alla medesima fonte ispiratrice: guarda caso è proprio la fonte da cui noi stessi, più o meno inconsapevolmente, abbiamo attinto quella capacità di meravigliarci appresa nei primi anni di innocente consapevolezza esistenziale quando la realtà circostante era una fantastica scoperta da cogliere passo dopo passo, sguardo dopo sguardo. E che abbiamo smarrito nel momento stesso in cui ci siamo illusi di conoscere questo mondo manipolandolo quindi a nostro uso e consumo. Con lei il dono ci ritorna intatto, nella sua impagabile freschezza dichiarativa, in una speculare innocenza da non vanificare con un errato approccio contemplativo dedicato solo all’apparenza, alla semplice piacevolezza concessa dall’immagine. Nella magica sostanza delle cose, nel rapporto stesso tra racconto e forma, risiede la chiave del nostro recupero esistenziale”.


giovedì 8 marzo 2012

Fine del postmoderno?



VENERDI 9 MARZO ALLE 17.45
NEL SALONE DEL MINOR CONSIGLIO DI PALAZZO
DUCALE A GENOVA SI TERRA’ LA TAVOLA ROTONDA

FINE DEL POSTMODERNO?

Nel 1979 Jean-François Lyotard pubblica il libro “La condizione postmoderna” con l’obiettivo di “designare lo stato della cultura dopo le trasformazioni subite dalle regole dei giochi della scienza, della letteratura e delle arti a partire dalla fine del XIX secolo”. Il termine postmoderno era già stato utilizzato nell’ambito dell’architettura e della critica letteraria sin dal 1970 ma il filosofo francese gli attribuisce lo statuto di categoria epocale. Negli ultimi mesi tale categoria è stata ancora una volta rimessa in discussione, storicizzata, e molti intellettuali si stanno interrogando sulla sua praticabilità nel modo attuale.

Partecipano: OMAR CALABRESE, ALESSANDRO DAL LAGO, GIULIANO GALLETTA, SIMONE REGAZZONI.

A cura del Museo del caos in collaborazione con la Fondazione per la cultura Palazzo Ducale. Info tel. 010 5574064/065 -



Un dibattito davvero interessante. Tanto per ragionarci sopra proponiamo questo intervento di Edward Doxs, apparso il 3 settembre 2011 sulle pagine genovesi di "La repubblica".

Edward Doxs

Addio postmoderno


Ho delle buone notizie per voi. Il 24 settembre potremo ufficialmente dichiarare morto il postmoderno. Come faccio a saperlo? Perché in quella data al Victoria and Albert Museum si inaugurerà quella che viene definita la "prima retrospettiva globale" al mondo intitolata Postmoderno - Stile e sovversione 1970- 1990.

Un momento.... Vi sento urlare. Perché dichiarano ciò? Che cosa è stato il postmoderno, dopo tutto? Non l'ho mai capito. Come è possibile che sia finito? Non siete gli unici. Se esiste una parola che confonde, irrita, infastidisce, assilla, esaurisce e contamina noi tutti è "postmoderno". E nondimeno, se lo si capisce, il postmodernismo è scherzoso, intelligente, divertente, affascinante. Da Madonna a Lady Gaga, da Paul Auster a David Foster Wallace, la sua influenza è arrivata ovunque e tuttora si espande. È stata l'idea predominante della nostra epoca. Allora: di che cosa si è trattato, esattamente? Beh, il modo migliore per iniziare a capire il postmodernismo è facendo riferimento a ciò che c'era prima: il modernismo. A differenza, per esempio, dell'Illuminismo o del Romanticismo, il postmodernismo racchiude in sé il movimento che si prefiggeva di ribaltare.

A modo suo, il postmodernismo potrebbe essere considerato come il tardivo sbocciare di un seme più vecchio, piantato da artisti quali Marcel Duchamp, all'apice del modernismo tra gli anni Venti e Trenta.

Di conseguenza, se i modernisti come Picasso e Cézanne si concentrarono sul design, sulla maestria, sull'unicità e sulla straordinarietà, i postmoderni come Andy Warhol e Willem de Kooning si sono concentrati sulla mescolanza, l'opportunità, la ripetizione. S(segue dalla copertina) e i modernisti come Virginia Woolf apprezzarono la profondità e la metafisica, i postmoderni come Martin Amis hanno preferito l'apparenza e l'ironia. In altre parole: il modernismo predilesse una profonda competenza, ambì a essere europeo e si occupò di universale. Il postmodernismo ha prediletto i prodotti di consumo e l'America, e ha abbracciato tutte le situazioni possibili al mondo. I primi postmodernisti si legarono in un movimento di forte impatto, che mirava a rompere col passato.

Ne derivò una permissività nuova e radicale. Il postmodernismo è stato una rivolta apprezzabilmente dinamica, un insieme di attività critiche e retoriche che si prefiggevano di destabilizzare le pietre miliari moderniste dell'identità, del progresso storico e della certezza epistemica.

Più di ogni altra cosa il postmodernismo è stato un modo di pensare e di fare che ha cercato di eliminare ogni sorta di privilegio da qualsiasi carattere particolare e di sconfessare il consenso del gusto. Come tutte le grandi idee, è stato una tendenza artistica evolutasi fino ad assumere significato sociale e politico. Come ha detto il filosofo egiziano-americano Ihab Hassan, nella nostra epoca si è affermato un "forte desiderio di dis-fare, che ha preso di mira la struttura politica, la struttura cognitiva, la struttura erotica, la psiche dell'individuo, l'intero territorio del dibattito occidentale".

Il postmodernismo apparve per la prima volta come termine filosofico nel libro del 1979 dell'intellettuale francese JeanFrancois Lyotard intitolato " The Postmodern Condition ", nel quale si affermava che gruppi diversi di persone utilizzano il medesimo idioma in modi differenti e ciò implica che possano arrivare a vedere il mondo con occhi alquanto differenti e personali. Così, per esempio, il sacerdote utilizza il termine "verità" in modo assai diverso dallo scienziato, che a sua volta intende la medesima locuzione in modo ancora diverso rispetto a un artista. Di conseguenza, svanisce completamente il concetto di una visione unica del mondo, di una visione predominante. Se ne deduce - sostenne ancora Lyotard - che tutte le interpretazioni convivono, e sono su uno stesso piano. Questo confluire di interpretazioni costituisce l'essenza del postmodernismo. Purtroppo, il 75 per cento di tutto ciò che è stato scritto su questo movimento è contraddittorio, inconciliabile, oppure emblematico della spazzatura che ha danneggiato il mondo accademico della linguistica e della filosofia "continentale" per troppo tempo. Non tutto però è da buttar via.

Due sono gli elementi importanti. Il primo è che il postmodernismo è un'offensiva non soltanto all'interpretazione dominante, ma anche al dibattito sociale imperante. Ogni forma d'arte è filosofia e ogni filosofia è politica. Il confronto epistemico del postmodernismo, l'idea di de-privilegiarne un significato, ha pertanto condotto ad alcune conquiste utili per il genere umano. Se infatti ci si impegna per sfidare il ragionamento prevalente e predominante, ci si impegna altresì per dare voce a gruppi fino a quel momento emarginati. Così il postmodernismo ha aiutato la società occidentale a comprendere la politica della differenza e quindi a correggere le miserabili iniquità ignorate fino a quel momento. Il secondo punto va maggiormente in profondità. Il postmodernismo mirava a qualcosa di più che pretendere semplicemente una rivalutazione delle strutture del potere. Affermava che noi tutti come esseri umani altro non siamo che aggregati di quelle strutture. Sosteneva che non possiamo prendere le distanze dalle richieste e dalle identità che tali discorsi ci presentano. Adios Illuminismo. Bye bye Romanticismo. Il postmodernismo, invece, afferma che ci muoviamo attraverso una serie di coordinate su vari fronti - classe sociale, genere, sesso, etnia - e che queste coordinate di fatto costituiscono la nostra unica identità. Altro non c'è. Questa è la sfida fondamentale che il postmodernismo ha portato al grande convivio delle idee umane, in quanto ha cambiato il gioco, passando dall'autodeterminazione alla determinazione dell'altro.

Eccoci però giunti alla domanda trabocchetto, la più subdola di tutte: come sappiamo che il postmodernismo è alla fine, e perché? Prendiamo in considerazione le arti, la linea del fronte. Non si può affermare che l'impatto del postmodernismo sia minore o in via di estinzione. Anzi, il postmodernismo è esso stesso diventato il sostituito dell'ideologia dominante, e sta prendendo posto nella gamma di possibilità artistiche e intellettuali, accanto a tutte le altre grandi idee. Tutti questi movimenti in modo impercettibile plasmano la nostra immaginazione e il modo col quale creiamo e interagiamo. Ma, sempre più spesso, il postmodernismo sta diventando "soltanto" una delle possibilità che possiamo utilizzare. Perché? Perché tutti noi siamo sempre più a nostro agio con l'idea di avere in testa due concetti inconciliabili: che nessun sistema di significato possa detenere il monopolio sulla verità, e che nondimeno dobbiamo riformulare la verità tramite il nostro sistema scelto di significati.

Forse, il modo migliore per spiegare le ragioni di questo sviluppo è usare la mia forma d'arte, il romanzo. Il postmodernismo ha influito sulla letteratura sin da quando sono nato. In effetti, il modo stesso col quale ho scritto questo articolo - mescolando parzialmente a livello di consapevolezza tono formale e tono informale - è in debito verso le sue stesse idee. Stile alto e stile basso coesistono allo scopo precipuo di creare occasioni di stupore, sorpresa, introspezione. Il problema, però, è quello che potremmo definire il paradosso del postmodernismo. Per qualche tempo, quando il Comunismo crollò, la supremazia del capitalismo occidentale parve messo a dura prova proprio ricorrendo alle tattiche ironiche del postmodernismo.

Col passare del tempo, però, si è presentata una nuova difficoltà: tenuto conto che il postmodernismo se la prende con qualsiasi cosa, ha iniziato ad affermarsi una sensazione di confusione, finché negli ultimi anni è diventata onnipresente. Una mancanza di fiducia nei dogmi e nell'estetica della letteratura ha permeato la cultura e pochi si sono sentiti sicuri o esperti a sufficienza da riuscire a distinguere la spazzatura da ciò che non lo è.

Pertanto, in assenza di criteri estetici attendibili, è diventato sempre più conveniente stimare il valore delle opere in rapporto ai guadagni che esse assicuravano.

Così, paradossalmente, siamo arrivati a una fase nella quale la letteratura stessa è ormai minacciata, prima dal dogma artistico del postmodernismo, poi dagli effetti involontari di tale dogma, l'egemonia dei marketplace. Esiste inoltre un paradosso parallelo, in politica e in filosofia. Se deprivilegiamo tutte le posizioni, non possiamo affermare alcuna posizione, pertanto non possiamo prendere parte alla società e quindi, in definitiva, un postmodernismo aggressivo diventa indistinguibile da una specie di inerte conservatorismo. La soluzione postmoderna non servirà più da risposta al mondo nel quale ci ritroviamo a vivere. In quanto esseri umani, noi non desideriamo esplicitamente essere lasciati in compagnia del solo mercato. Perfino i miliardari vogliono essere collezionisti di opere d'arte.

Certo, internet è quanto di più postmoderno esista su questo pianeta. Il suo effetto più immediato in Occidente pare essere stato la nascita di una generazione che è maggiormente interessata ai social network che alla rivoluzione sociale. Tuttavia, se sappiamo guardare oltre scopriamo un secondo effetto negativo indesiderato: una smania a conseguire una sorta di veridicità offline. Desideriamo essere riscattati dalla volgarità dei nostri consumi, dalla simulazione del nostro continuo atteggiarci. Se il problema per i postmodernisti è stato che i modernisti avevano detto loro che cosa fare, allora il problema dell'attuale generazione è esattamente il contrario: nessuno ci sta dicendo che cosa fare.

Questo crescente desiderio di una maggiore veridicità ci circonda da tutte le parti. Lo possiamo constatare nella specificità dei movimenti food local, per i cibi a chilometro zero. Lo possiamo riconoscere nelle campagne pubblicitarie che ambiscono ardentemente a raffigurare l'autenticità e non la ribellione. Lo possiamo vedere nel modo col quale i brand stanno cercando di prendere in considerazione un interesse per i valori dell'etica. I valori tornano ad avere importanza.

Se andiamo ancor più in profondità, ci accorgiamo della crescente rivalutazione dello scultore che sa scolpire e del romanziere che sa scrivere. Jonathan Franzen ne è un esempio calzante: uno scrittore encomiato in tutto il mondo perché si sottrae alle evasioni di genere o alle strategie narrative postmoderne, cercando invece di dire qualcosa di intelligente, di autentico, scritto bene, sulla propria epoca. Ciò che conta, dopo tutto, non è soltanto la storia, ma come è raccontata.

Queste tre idee - specificità, valori, autenticità - sono in aperto conflitto con il postmodernismo. Stiamo dunque entrando in una nuova era. Potremmo provare a chiamarla "l'Età dell'Autenticità". Vediamo un po' come andranno le cose.

(Le immagini sono tratte dal film Blade Runner)

martedì 6 marzo 2012

"Ricomporre Ipazia", presentazione a Vezzano Ligure (SP)



Storie di Donne. Donne di storia

Incontri letterari - 2a edizione

Primo incontro


giovedì 8 marzo, ore 17.30

Sala del Consiglio Comunale di Vezzano

Silvia Aonzo, Betti Briano,

Vilma Filisetti, Gabriella Freccero

presentano

RICOMPORRE IPAZIA

Ed. Tribaleglobale,2011

In occasione della Festa della Donna e in collaborazione con Pro Loco di Vezzano Ligure