Niente troppo significa riconoscere il valore del limite. Il limite è un vincolo, perché non mi consente di fare ciò che proibisce. Ma il limite è anche una risorsa, che mi consente di fare quello che posso fare. Kant, per spiegare che la conoscenza umana non può andare oltre i limiti delle proprie possibilità, ricorre alla bella immagine della colomba che, mentre vola, si illude che, se le sue ali non incontrassero l’attrito dell’aria, potrebbe volare più liberamente e più facilmente; e invece, se non ci fosse l’attrito dell’aria, non potrebbe volare affatto.
Quindi, mentre l’animale non si pone domande sul senso della vita né deve preoccuparsi di capire quali siano i suoi limiti e quale debba essere il suo progetto di vita, dal momento che tutto è inscritto nel suo dna e nel suo corredo di istinti, l’essere umano, proprio perché potenzialmente è fuori (oltre) ogni limite prestabilito dalla natura, il limite se lo deve dare da solo. Limite per l’essere umano è riconoscersi nella propria storia individuale.
Questa storia, con tutte le sue varianti, è inscritta nello spazio temporale tra la nascita e la morte. Questo spazio temporale viene a volte o spesso rimosso dalla nostra coscienza: ad esempio quando si tenta di “rendere eterna” la giovinezza, a dispetto della propria età, scimmiottando abbigliamento, costumi, modi di parlare, comportamenti tipici dei giovani; oppure quando si cerca di allontanare il termine naturale della vita, esorcizzando le modificazioni del corpo dovute all’età con rifacimenti estetici o con cure ossessive delle malattie. Oppure quando si affastellano ansiosamente esperienze le più varie, per saggiare tutte le possibilità della propria esistenza, ignorando che fare esperienza del possibile non è la stessa cosa che collezionare i tanti possibili. Fare esperienza del possibile significa riconoscere valore al possibile dentro il proprio progetto di vita che è unico e irripetibile e si costruisce sulla memoria ovvero sul confronto critico e consapevole tra quello che posso fare e quello che faccio. Affastellare esperienze disparate solo perché ho i mezzi tecnici per farlo significa frantumare l”io” in una pluralità di soggetti.
Hanno senso ancora questi discorsi sul limite (come vincolo e risorsa) nel mondo contemporaneo occidentale, nel quale la tecnica da strumento governato dall’uomo è progressivamente diventata il fine che fonda il nuovo ordine del mondo, sulla base del principio che tutto quello che tecnicamente si può fare si fa? E’ questo principio a giustificare, ad esempio, l’accumulo di nuove armi di distruzione di massa, anche se quelle che già esistono bastano a distruggere più volte il pianeta terra; oppure la produzione e la messa in consumo di nuove applicazioni tecnologiche, anche se usiamo quelle che già abbiamo per una percentuale minima delle loro capacità (come usare una Ferrari solo per andare a fare la spesa a un kilometro da casa).
Come applicare la massima greca Niente troppo in un mondo caratterizzato da un dominio “smisurato” da parte della tecnica, un dominio senza misura? E’ un dominio che alla domanda Cosa possiamo fare con la tecnica? sostituisce la domanda Cosa sta facendo (o ha già fatto) la tecnica di noi?
Se la pratica filosofica ai suoi inizi ha assolto il compito di liberare gli uomini dal terrore dell’imprevedibilità, offrendo loro una visione ordinata del mondo secondo principi unificatori, la pratica filosofica oggi, per avere ancora un senso, deve liberare gli uomini dal convincimento che l’ordine imposto dalla tecnica al mondo sia l’unico ordine possibile. Alla filosofia oggi, come terapia della rassegnazione, spetta il compito di indicare che ogni ordinamento, anche quello attuale che sembra indiscutibile e immodificabile, ha i suoi limiti e di riaffermare che l’humanitas si realizza nell’apertura allo spazio del possibile, alla “navigazione verso l’isola che non c’è”. Perché uomo si diventa.
Star bene con gli altri, stare a proprio agio con gli altri. Ma chi sono gli altri? Solo alcuni o tutti? I “miei” altri sono quelli che pensano come me, che mangiano come me, che si comportano come me o anche quelli che non fanno e non pensano come me?
Riconoscere gli altri, per star bene con loro, significa tollerare che conservino i loro stili di vita nel loro recinto (purché non invadano il mio recinto) o assimilarli al mio stile di vita (riconoscendoli nella misura in cui sono diventati specchio di me stesso) o assimilandomi io al loro stile di vita (in una sorta di provincialismo che mi induce a vedere nelle culture diverse dalla mia una cultura superiore, come accade con certe mode orientaleggianti) o ancora accettare di “contaminarmi” con loro?
Star bene con gli altri: staticamente (ognuno al posto suo) o dinamicamente (integrando le nostre diversità e arricchendole reciprocamente)?
Posso vivere pienamente il mio progetto di uomo restando indifferente alla dimensione pubblica in cui storicamente, che lo voglia o meno, sono inscritto? Una dimensione pubblica che è caratterizzata dalle sue istituzioni storiche e dal modo in cui esse sono fatte funzionare di volta in volta.
Dal dí che nozze e tribunali ed are diero alle umane belve esser pietose di se stesse e d’ altrui scrive il Foscolo nel carme I Sepolcri: le “umane belve” diventano “pietose di se stesse e d’altrui” grazie all’istituzione di “nozze, tribunali ed are” cioè grazie alla fondazione dello spazio pubblico della città che si articola nel riconoscimento e nell’amministrazione, nella città e da parte della città, del matrimonio, della giustizia, della religione.
Sono le istituzioni che fanno dell’uomo possibile un uomo storicamente determinato, cioè un cittadino.
Chiedersi quale sia il mio posto nel mondo significa chiedersi quale etica debba seguire per orientare la mia vita, cioè per dare un senso al mio spazio temporale compreso tra la mia nascita e la mia morte. A prescindere dal riferimento o meno a una divinità e al riconoscimento di questa come compimento del proprio progetto umano, l’etica tradizionalmente seguita da coloro che si sono interrogati sul proprio posto nel mondo è stata l’etica delle intenzioni.
Etica delle intenzioni cioè sono responsabile solo di ciò che avevo intenzione di fare: se ho fatto del male senza avere l’intenzione di farlo non sono responsabile; questo principio è alla base della legge penale, ma anche del catechismo cattolico che molti di noi hanno appreso da ragazzini.
Questa etica, però, dopo le grandi tragedie che hanno funestato il secolo XX e che trovano la loro espressione più raccapricciante nella Shoah, risulta insufficiente: dire che sono stato fascista sì (o nazista) ma non ho partecipato direttamente alla persecuzione degli ebrei non mi assolve dall’aver sostenuto un’ideologia che ha consapevolmente prodotto quello sterminio. Di fronte alla costernazione della popolazione tedesca per la distruzione della Germania nel 1945 il filosofo tedesco Karl Jaspers disse che tutti i tedeschi erano responsabili di ciò che i nazisti avevano fatto, per il semplice fatto di essere rimasti vivi.
All’etica delle intenzioni è così subentrata a poco a poco nella coscienza di chi si interroga l’etica della responsabilità: al di là delle mie intenzioni sono responsabile o corresponsabile delle conseguenze di una mia azione nella misura in cui queste siano prevedibili. Se mi ubriaco o mi drogo, e so bene che alcool e droga alterano le mie percezioni sensoriali, e dopo mi metto al volante, mi serve a poco dire che non volevo investire nessuno e che perciò non sono responsabile; sono responsabile, invece, dell’incidente (talvolta mortale) proprio perché ho deliberatamente fatto una cosa che poteva comportare quella conseguenza. Su questa strada anche la legge penale (tradizionalmente fondata sul principio dell’intenzione) comincia ad aprire nuovi spiragli, con qualche Procura della Repubblica che comincia a mettere sotto inchiesta i pirati della strada per omicidio volontario. E così pure il Parlamento che comincia a ipotizzare di inserire nel codice il reato di omicidio stradale.
Eppure, anche l’etica della responsabilità rischia di essere insufficiente in un mondo in cui la “dittatura” della tecnica e i rapidi cambiamenti di scenari prodotti dalla globalizzazione rendono impossibile prevedere tutte le conseguenze di una mia azione.
Si profila così l’opportunità di elaborare un’etica del viandante, dove il “viandante” si distingue dal “viaggiatore” perché non è tanto interessato alla meta del viaggio quanto al percorso del viaggio.
Il “viandante” osserva il suo percorso nel mondo, l’osserva con curiosità e disponibilità a interagire con esso, sentendosi di volta in volta partecipe del percorso stesso e della sua conservazione. Il “viaggiatore”, invece, è interessato solo al percorso più rapido possibile per raggiungere la propria meta.
In questa chiacchierata abbiamo parlato di malattia e di salute, di conoscere se stessi e gli altri, di orientamento nel mondo. Si tratta di temi tra i quali ci si può muovere inconsapevolmente, ripetendo per abitudine percorsi tracciati da altri e magari credendo di averli scelti autonomamente oppure ci si può muovere tentando di assumere consapevolmente una bussola per orientarci.
La bussola può essere costituita dall’adesione a una verità assoluta oppure dal riconoscimento del valore di verità relative.
Verità assoluta significa “verità a prescindere” cioè verità sciolta (in latino absoluta) da qualsiasi vincolo relazionale. Verità relativa significa “verità relazionata a un individuo o a una condizione storico-sociale”.
La verità relativa non è mai “a prescindere”, è sempre una verità “incarnata”, per la quale è necessario un atteggiamento di “interesse” (dove etimologicamente “interesse” significa inter esse, cioè “esserci in mezzo”). Secondo me il racconto dell’incarnazione da parte del cristianesimo è una verità relativa, perché istituisce una relazione tra Dio e gli esseri umani, grazie alla quale Dio sperimenta la condizione degli esseri umani “essendoci in mezzo” e gli umani fanno esperienza di Dio, quel Dio così lontano nella tradizione ebraica, “tenendolo in mezzo”.
In ogni caso, per orientarsi, ognuno scelga la bussola che vuole. L’importante è che sappia che tipo di bussola ha scelto e, soprattutto, sia consapevole di quanto sia autonoma la sua decisione di scegliere quella bussola e di percorrere quel cammino.
Le parole veicolano idee e comportamenti. Perciò, come tutti i veicoli (dalla bicicletta all’auto all’aereo ecc.) devono ogni tanto essere revisionate e sottoposte a manutenzione. Perché, altrimenti, può succedere quello che succede quando un’auto frena di botto sull’asfalto bagnato.
Le parole, come tutti i veicoli, si usurano col tempo ma anche perché vengono a volte usate male. Non solo quando vengono violentate nella grammatica, nella sintassi o nella semantica (per fare un esempio, pensiamo a “piuttosto che” ormai diffusamente e abusivamente usato nel significato di “oppure”), ma soprattutto quando da giornali e TV vengono “urlate” senza misura (“catastrofe”, “guerra” ecc. per parlare di fenomeni climatici o di scontri politici sul terreno economico-sociale e così via). Ci vuole, dunque, un po’ di sana e sensata manutenzione.
Una manutenzione del genere la faceva nell’antica Atene (V – IV secolo prima di Cristo) Socrate, il quale si era dato la missione (o credeva di averla ricevuta da una voce divina nella sua coscienza) di avvicinare tutti coloro che credevano di sapere qualcosa e di interrogarli sui fondamenti del loro sapere. Il dialogo si concludeva sempre con la scoperta che chi credeva di sapere non sapeva proprio niente di ciò che conta e questa era per Socrate una grande conquista, perché sapere di non sapere è il primo passo per mettersi a cercare la verità. Socrate finì condannato a morte con l’accusa di corrompere i giovani con questo suo mettere in discussione le certezze acquisite.
Un’analoga manutenzione potrebbe farla la scuola se accettasse di essere un luogo di ricerca aperta (dove si pongano domande di senso) più che un luogo dove si ripetono e si tramandano risposte precostituite.
In ogni caso ci sono parole che hanno bisogno urgente di manutenzione, altrimenti continueranno ad ammalarci. Penso a parole come io, libertà, diritti, giusto, sbagliato, natura, contro natura, bene, male. Parole che ci sono familiari quanto a uso e suono ma che, messe in manutenzione, potrebbero riservarci la sorpresa di significati contrari a quelli che noi crediamo usandole (o abusandole).