Giorgio Amico
Il 23 aprile le unità partigiane della 2^ Zona Liguria ed in particolare la Divisione Garibaldi "Gin Bevilacqua" si attestano alla periferia di Savona. Alle ore 15 del giorno 24 dal comando di zona, sito in via Crosa lunga, parte l'ordine di attaccare con ogni mezzo a disposizione tedeschi e fascisti. Il 25 aprile la città è liberata dopo duri combattimenti. Non cessano però le morti, da una parte e dall’altra. Qualcuno anni fa ha sollevato il problema delle uccisioni «al di fuori della logica dello scontro armato» con argomentazioni largamente riprese poi in modo totalmente acritico da Giampaolo Pansa nel suo ultimo lavoro Il sangue dei vinti.
Non condividiamo il taglio di queste opere che ci paiono storicamente molto approssimative, ma non comprendiamo neppure il silenzio imbararazzato o i distinguo incerti di chi si è affannato a dichiarare che tutto questo con la Resistenza non c’entra e che al massimo si è trattato di deviazioni. Le cose non stanno proprio così: l’insurrezione non è stata per nulla una festa, ma giornate di aspra battaglia per le strade, di feroce caccia alle spie e ai cecchini che ancora due giorni dopo sparavano dai tetti, di vendette a lungo covate, di rabbia popolare contro chi incarnava fisicamente venti mesi di paura e di oppressione.
Nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile a Savona come in tutto il Nord si continua a morire. È il destino di tutte le guerre civili. La resa dei conti inevitabile e sanguinosa, alimentata dalla rabbia popolare, dall’ebbrezza della vittoria, dal ricordo delle sofferenze patite, che si trasforma da atto di giustizia in vendetta sui vinti. L’attribuzione di tali azioni ai soli comunisti, proposta nell’immediato dopoguerra dai neofascisti e ripresa oggi da un revisionismo senza più pudori, non ha in realtà alcuna consistenza storica perché, come riconosce uno studioso non schierato, “le esecuzioni sono state fatte da tutte le componenti del movimento resistenziale”i. Certo a Savona, dove largamente predominano i partigiani comunisti, si fucila molto. La provincia con 311 morti è ai primi posti della lugubre statistica stilata nel novembre 1946 dal ministero dell’ Interno. Ma prima di Savona vengono città come Treviso (630), Cuneo (426), Udine (391) dove il movimento partigiano è egemonizzato dai cattolici, dagli azionisti, addirittura dai monarchici.
Volendo si può anche tentare una più precisa definizione dell’accaduto che vada al di là delle banalità o dei luoghi comuni sulla ferocia dei comunisti. Molto va ascritto alla confusione del momento, al fatto che quando il regime nazifascista collassa un gran numero di persone raggiunge il movimento partigiano. Elementi che si sono arruolati nelle formazioni all’ultimo momento, che non hanno appreso la dura disciplina della montagna o della lotta clandestina nelle città. Sono proprio questi neofiti della lotta armata i più spietati nella repressione dei fascisti.
Molto deriva dall’accanita resistenza di fascisti irriducibili che non cedono le armi e continuano disperatamente a combattere. Dal verbale della seduta del 3 maggio del CLN ligure risulta come nell’entroterra ci siano ancora consistenti sacche di resistenza da parte di fascisti e tedeschi, concentrate soprattutto nel Sassellese , nella zona del Turchino, nella Val d’Aveto e nel Chiavarese, tanto consistenti da dover richiedere col consenso delle autorità militari alleate l’invio in queste zone di distaccamenti partigiani (1600 uomini) per condurre operazioni di rastrellamento e disarmo.
La moralità della Resistenza
Una pagina di certo non esaltante, ma che comunque è parte della Resistenza, così come parte integrante della Resistenza sono gli scioperi «selvaggi» non sempre patriottici degli operai. Pagine di cui per troppo tempo non si è parlato da parte chi voleva far dimenticare la natura rivoluzionaria di quegli eventi e trasformare la storia di una guerra civile lunga e feroce, che è stata al contempo guerra di liberazione nazionale, ma anche aspra guerra di classe, nel mito fondante di una repubblica per molti aspetti in diretta continuità con quel passato che pure si dichiarava radicalmente e per sempre cancellato. Pagine di cui oggi si parla troppo e male da parte chi vorrebbe riscrivere la storia di quei venti mesi come una «stagione del sangue», combattuta da minoranze ideologizzate sulla pelle della grande maggioranza del popolo italiano.
Proprio per questo in un momento di così grande confusione come l’attuale, dove tutto pare rimesso in discussione e nulla pare più sicuro, di una cosa sola dobbiamo essere serenamente certi: che nulla va mai veramente perduto. In questo sta la lezione di moralità che la Resistenza ancora ci offre, come ha scritto Italo Calvino, nel passo forse più bello di quel libro straordinario che è Il sentiero dei nidi di ragno dove con con estremo rigore è definitivamente chiarita la diversità fra «noi» e «loro», fra i partigiani e le brigate e nere. Diversità, sia chiaro, che non consiste nell’essere più o meno compiutamente uomini come pensava Vittorini, chè l’umanità di fondo di entrambe le parti è comune nelle atrocità come negli eroismi. No. Calvino rimanda ad una alterità di fondo, che trascende il singolo, per investire il piano grande e terribile della storia. Se la morte rende tutti uguali, la differenza allora consiste nel perché si muore, ma questo rimanda immediatamente al senso profondo che attribuiamo alla vita degli uomini. Scrive Calvino:
[…] Quindi , lo spirito dei nostri… e quello della brigata nera… la stessa cosa? - La stessa cosa, intendi cosa voglio dire, la stessa cosa… - Kim s’è fermato e indica con un dito come se tenesse il segno leggendo; - la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. Quel peso di male che grava sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finche dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni […] Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utlizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l‘uomo contro l’uomo.
(Da: Giorgio Amico, Operai e comunisti, Milano 2005)