Libia, Afghanistan, Irak, Kossovo, Bosnia.... mai la riflessione sui temi della pace (e della guerra) è stata tanto attuale. Proponiamo questa testo di Gianluca Paciucci che riprende l'intervento tenuto il 23 maggio 2010 a un convegno su Alexander Langer ad Amelia-TR.
Gianluca Paciucci
Inevitabilità della violenza e suo superamento
Simone Weil, Alexander Langer, le guerre “jugoslave” e noi.
“...La forza che uccide è una forma imprecisa e grossolana della forza. Quanto più varia nei suoi metodi e più sorprendente nei suoi effetti è l'altra forza, quella che non uccide; cioè quella che non uccide ancora...” (Simone Weil, in Iliade o il poema della forza, 1940 - 1941).
“...la lingua, come espressione di ogni tipo di linguaggio, non è né reazionaria né progressista; è semplicemente: fascista; poiché il fascismo non è il divieto di dire, ma è la costrizione a dire...” (Roland Barthes, in Lezione, 1977).
“...cosa ci può realmente motivare?...” (Alexander Langer, in “Domande”, 1990).
Come poter “tenere un discorso senza imporlo” è argomento ancora irrisolto, dai tempi di Barthes a oggi: la moltiplicazione degli infiniti “io” si batte e convive con la presunta sparizione del “soggetto”, e si traduce in una serie di convinzioni armate capaci di erigere immediatamente un muro di metafore e di stili aggressivi, anche quando predichiamo la non violenza e il rispetto dell'altro. La non imposizione di un discorso, inoltre, deve però tener conto dell'irrinviabile assunzione di responsabilità di chi “dice”, per evitare che l'assunzione dell'altro/dell'altra nel proprio orizzonte non diventi alibi per melensi ecumenismi o banale condivisione di contenuti minimi, sotto la superficie dei quali si agita la vera vita, ovvero la vita della violenza, della forza e della realtà che preme.
Nel 2005 a ricordare dolorosamente il 10° anniversario della scomparsa di Alexander Langer, eravamo a Sarajevo, con amiche e amici, in un'occasione importante, quegli “Incontri europei del Libro” che il Centre “André Malraux” della capitale bosniaca organizza da diversi anni. Grazie all'Ambasciata d'Italia in Bosnia Erzegovina (allora guidata da persone illuminate) e alla Fondazione Alexander Langer, grazie alle donne e agli uomini che vi lavorano, riuscimmo ad alzare bicchieri di grappa o di succo di frutta per brindare ritualmente alla vita bella di Langer, nel luogo che aveva visto una delle infinite recenti sconfitte della ragione e dell'umano, le “guerre jugoslave” degli anni Novanta del secolo scorso. Langer si era battuto per sconfiggere quella sconfitta, non riuscendoci, anche perché le vie del bene sono nascoste da una fitta vegetazione malata, e la miseria del realismo politico non può che prevalere, nei tempi brevissimi del presente continuo. Miseria della fine dei “socialismi reali”, persino in quella Jugoslavia che una via autonoma era riuscita a percorrere, dopo la rottura tra Tito e Stalin nel 1948; miseria del trionfo del “capitalismo reale”, altrettanto venefico e oppressivo, su scala locale e planetaria. Una fine e un trionfo accomunati dall'identità del fine, ovvero il dominio sull'essere umano, la sua infantilizzazione, la sua strumentalizzazione sulla via di efficienze e record da superare in una corsa senza traguardo: il fine è proprio questa assenza di traguardi, di linea d'arrivo, è la meritocrazia, è l'impossibilità della tregua, nella continua tensione imposta dalle convergenti follie di quello che Guy Debord chiamava “leviatano concentrato [il sistema sovietico] e leviatano diffuso [il sistema capitalistico]”, perfettamente fusi nelle costruzioni politiche dell'oggi, come in quella Cina dal 'capitalismo a partito unico', che è il prodotto più inquietante e straordinario degli ultimi anni. “Invenzione della povertà”, potremmo chiamarla servendoci della categoria proposta da Wolfgang Sachs, imposizione dello status di poveri a creare frustrazioni e desideri, sogni che si sa non potranno mai divenire reali ma che tengono miserabilmente in vita masse di vecchi e nuovi poveri con il miraggio di un possibile irraggiungibile standard “occidentale”, norma di vita e pace, su tappeti di cadaveri. Che i due sistemi di prima dell'89, socialismo e capitalismo, fossero nemmeno troppo segretamente alleati lo dimostrano le biografie di tanti sgherri dell'impresentabile socialismo di Stato, divenuti in un batter d'occhio cinici imprenditori, a Danzica come nell'Emilia “rossa”, a salvarsi pelle e privilegi, oppure a reinvestirsi nei nuovi nazionalismi e militarismi assassini, in Russia come nella bella terra degli Slavi del sud.
Si era speso tanto Langer per questa terra, scontrandosi con opposte ottusità e anche scontando la difficoltà dei Paesi dell'Europa del dopo '89 di capire l'implosione di quel mondo, per la quale pure essi avevano lavorato con accanimento. Opposte ottusità: innanzitutto dei Paesi dell'Unione Europea, avidi e ignoranti, con la Germania nell'impresa di una difficile riunificazione; del Vaticano, teso a riguadagnare terre in terra d'ateismo praticato; degli Stati Uniti nell'era Clinton, a sperimentare sul campo la dottrina degli interventi militar-umanitari; dell'Italia in mano a ex fascisti ed ex comunisti, nei vari schieramenti, che sulla cancellazione della storia fondarono e fondano la loro mediocre rispettabilità politica, in revanscismo e/o buonismo; dei nuovi movimenti politici italiani, come la Lega nord, che intrattenne rapporti eccellenti con l'“Hitler dei Balcani”, quel Milošević prima esaltato e solo in ultimo ripudiato, dopo la sconfitta e la morte -nel 2006- di questi; dei comunisti qui in Italia, alcuni dei quali erroneamente videro nel piccolo e criminale satrapo di Belgrado l'erede di Tito; di tanti politici-imprenditori che vollero aprirsi fette importanti di mercato nella popolosa Serbia. Su questo caos e sulle colpe oggettive di una classe politica jugoslava illusa, delusa e/o corrotta, nacque il disastro: opposte tifoserie scesero in campo, e permisero/permettemmo ciò che non sarebbe mai più dovuto succedere, nel cuore dell'Europa, né altrove: guerre, deportazioni, stupri come armi, campi di concentramento, etc. I bosgnacchi (cittadine e cittadini bosniaci di famiglia, di cultura e/o di fede musulmana), in particolare, sono stati vittime di crimini ancora da narrare: gli opposti fascismi si misero in marcia, combattendosi e comprendendosi. Riapparizione potente delle destre estreme, sul naufragio dell' “unità e fratellanza”, slogan titoista. Sangue e suolo, identità e tradizioni, e religioni assassine: pope preti imam a predicare l'odio sgozzatore (le buone e dolci eccezioni sono nel cuore di tutte e di tutti, ma non discolpano il 'dio degli eserciti' all'opera su fronti opposti).
Simone Weil
Bosnia Erzegovina anni Novanta, e Spagna 1936: bivio forte, messo in luce già dal celebre racconto di Ivo Andrić “Lettera del 1920”. Max Levenfeld, figlio di un medico austriaco di famiglia ebrea e di una duchessa triestina, dopo aver abbandonato Sarajevo a causa dell'odio che vi regnava (ma dove non regnava, l'odio, in quegli anni, e oggi...), e aver lavorato come medico in Francia, allo scoppio della Guerra in Spagna si arruola come volontario nell'esercito repubblicano, e muore in un ospedale di guerra in Aragona sotto le bombe fasciste. “Così terminò la vita di un uomo che era fuggito dall'odio”, conclude Andrić. Antifascisti di tutto il mondo si recarono in Spagna a difenderla dalle orde franchiste, spesso trovandovi la morte, a volte anche per mano sedicente amica (la violenza del comunismo staliniano si esercitò con accanimento contro anarchici e comunisti antistalinisti); ma pochissimi antifascisti si recarono a Sarajevo a difendere la Bosnia Erzegovina contro le orde serbo-nazionaliste (il pensiero va a Adriano Sofri, a un gruzzolo di altri e altre, giornalisti coraggiosi, militanti della verità). L'antifascismo profondo di chi difendeva Sarajevo non fu capito dai colpevoli servi di una terminale ideologia internazionalista (i nemici dei nostri nemici capitalisti sono nostri amici, Milošević come Saddam); di una deformata ideologia dell'autodeterminazione dei popoli (elogio delle “piccole patrie” e delle secessioni, “leghismo” che promette ovunque “padroni a casa nostra”); e della trionfante ideologia della “guerra umanitaria”, il tutto condito dall'insopportabile puzza sotto il naso di chi, anti o filoimperialista/antirazzista/pre o postfascista/ex comunista/imprenditore apolitico, etc., ma inguaribilmente “occidentale”, guardava ai fatti di Jugoslavia come a un'ennesima dimostrazione della barbarie di quei popoli, di genti geneticamente e culturalmente votate all'odio reciproco. Erano, e sono, gli anni del “noi non uccidiamo così” , dei bravi italiani nel mondo, integerrimi e generosi, ideologia fondata, ripeto, sulla voluta ignoranza dei crimini perpetrati da italiani in mezzo mondo (Libia, Etiopia, Jugoslavia, etc.) contro i “barbari”, e dei crimini attuali. Questa puzza sotto al naso era ben visibile anche sotto ai nasi di certi altermondialisti con la kefiah, indignati perché in Bosnia non usano la mozzarella di bufala, nella pizza...
E poi l'ideologia umanitaria, devastante. Ne ha scritto benissimo Luca Rastello, in quel formidabile libro che è La guerra in casa : “...L'ideologia umanitaria ha fornito spesso un avallo alla confusione fra carnefici e vittime. Senza togliere valore al coraggio di tanti e alle migliaia di vite salvate dalle carovane bianche, sarebbe forse onesto e utile aprire una futura analisi dell'intervento umanitario in Jugoslavia con la categoria del fallimento. Nessuna delle iniziative di pace ha avuto il valore di interposizione fra le parti in armi. Alla luce di questo fallimento politico (non caritativo), è forse possibile recuperare il valore delle idee di quanti hanno impegnato, rischiato e talvolta perso le loro vite in soccorso delle popolazioni travolte dalla guerra. L'azione umanitaria acquista, credo, tanto più valore quanto più si sgancia dall'ideologia umanitaria, da quell'immaginario nutrito di carità e supplenza che non riconosce la dignità e la responsabilità delle vittime. A volte, uno sguardo innocente è disposto a qualche delitto per preservarsi...” (pag. VII, nella “Premessa”). Non mi scuso per la lunga citazione. Tutto questo fascio di ideologie, perdenti o vincenti, andò a costituire la duplice remora di “superiorità occidentale” (vs barbarie dei popoli slavi) e di “impotenza” che impedì ogni azione e favorì il crimine, condita dalla gioia di mercanti d'armi e di geopolitica. Sarajevo sotto le bombe e il tiro dei cecchini, e il solito dilemma, stavolta non solo dei “pacifisti”: intervento o non intervento (armato, si intende), dinanzi all'orrore estremo? Questo stesso fu il dilemma di Simone Weil dinanzi alla Guerra di Spagna e poi al Secondo conflitto mondiale. Mentre il segretario del Partito Comunista Francese, Maurice Thorez, pur fedele alla politica di non intervento del governo del Fronte Popolare, rivendicava la necessità di togliere l'embargo sulle armi verso i repubblicani spagnoli perché essi potessero “procurarsi liberamente aerei da combattimento, cannoni e munizioni”, Simone Weil nell'inverno 1936-'37 si dice d'accordo con un non intervento assoluto perché questo, “lungi dal ristabilire l'ordine in Spagna, avrebbe incendiato tutta l'Europa”. Inoltre le sue esperienze al fronte spagnolo (brevi, tra l'agosto e il settembre del 1936) la portarono a riflettere, in una lettera del 1938 indirizzata a Georges Bernanos, sulla violenza esercitata dai “giusti”, nel campo repubblicano, e soprattutto su atti di violenza inutile e arbitraria. Dopo aver riportato le vicende di falangisti o presunti tali uccisi, per banale vendetta o per puro divertimento, da miliziani repubblicani e anarchici, Simone Weil scrive: “...Ho avuto l'impressione che quando le autorità temporali e spirituali hanno messo una categoria d'esseri umani fuori da quelli la cui vita ha un prezzo, per l'uomo non c'è niente di più naturale dell'uccidere. Quando si capisce che è possibile uccidere senza rischiare né castighi né rimproveri, si uccide; o almeno si regalano sorrisi d'incoraggiamento a chi uccide. Se forse all'inizio si prova un po' di disgusto, lo si mette a tacere, soffocandolo per paura di dar prova di scarsa virilità. (...) Si parte come volontari, con l'idea del sacrificio, e ci si ritrova in mezzo a una guerra che rassomiglia a una guerra di mercenari, con in più molte crudeltà e, in meno, il senso del rispetto dovuto al nemico...”. Fin qui siamo in un dibattito interno al pacifismo/antifascismo classico, che solo figure come Virginia Woolf contestarono, pur spaventata dagli orrori della guerra, riflettendo a partire da quella che oggi chiamiamo “differenza di genere”, da lei in qualche modo “fondata”; è anche vero che la morte del nipote Julian Bell nella Guerra di Spagna, nel luglio del 1937, la segnò fortemente.
Pablo Picasso, Guernica
E' a ridosso dello scoppio del Secondo conflitto mondiale che le posizioni di Simone Weil mutarono profondamente, e tale cambiamento è visibile nel testo “Riflessioni in vista d'un bilancio” (1939) in cui giunge a una rottura definitiva con il pacifismo: l'analisi del momento storico, la forza smisurata del nemico e la debolezza dello Stato francese, la portano a scrivere che “una certa forma di politica offensiva ci è indispensabile” e che “se non si lotta con tutto il coraggio che si ha per conservare almeno ciò che al momento attuale è ancora in piedi, a maggior ragione si lotta male per quel che vediamo sgretolarsi sotto i nostri piedi”. Ancora più netta sarà in una nota del 1943, con la morte vicina: “Meccanismo indiretto d'un crimine. Il mio errore criminale di prima del 1939 sugli ambienti pacifisti e la loro azione proveniva dall'incapacità causata da troppi anni di spaventoso dolore fisico. Non essendomi possibile seguire da vicino la loro azione né frequentarli e discutere con loro, non mi sono accorta della loro predisposizione al tradimento...”. Parole che non potevano essere più chiare. Qui si chiude, con la constatazione che il pacifismo passivo persino dinanzi a un male estremo sia un male in sé, a due passi dal tradimento -e senza un possibile buon uso del tradimento-, dall'essere una sorta di 'quinta colonna' atta a sabotare lo sforzo bellico antifascista.
Negli anni Novanta, terminato nel 1989 il ciclo apertosi nel 1945, si riproposero drammi e scelte che sembravano appartenere a un passato sepolto, a due passi da casa, alle porte di Trieste e del Friuli Venezia-Giulia, o subito al di là dell'Adriatico. Langer non poteva volgere lo sguardo altrove, e non lo fece, negli ultimi anni della sua vita, con passione e metodo, con dispendio e spreco di sé. Spossate sono già le parole del 4 marzo 1990, alla fine del testo “Domande”: “...Tu che ormai fai il “militante” da oltre 25 anni e che hai attraversato le sperienze del pacifismo, della sinistra cristiana, del '68 (già “da grande”), dell'estremismo degli anni '70, del sindacato, della solidarietà con il Cile e con l'America Latina, col Portogallo, con la Palestina, della nuova sinistra, del localismo, del terzomondismo e dell'ecologia – da dove prendi le energie per 'fare' ancora?” Ma le “guerre jugoslave”, lo chiamano, lo interpellano, come avrebbero dovuto chiamare ed interpellare ciascuna e ciascuno di noi: rispondere a una “vocazione”, si direbbe in ambito religioso o per un mestiere, e Langer rispose, compiendo un cammino di pensiero (e non di solo, e sempre arido, “fare”) che lo avvicina a quello di Simone Weil. La comparatistica storica fa spesso acqua da ogni parte e ci dà poco aiuto di comprensione, eppure in questo caso penso si possa azzardare: Spagna 1936-1939 e Bosnia Erzegovina 1992-1995, lo abbiamo visto, pronunciamento di militari felloni/antipatrioti e golpe contro il proprio governo e la propria gente, per inaugurare fasi di sofferenza brutale e sedersi sul trono dei vincitori, con attorno macerie, esodi, deportazioni, crisi economica, fame. Simili gli eventi, anche se in Spagna i rumori della guerra civile portarono poi a quelli, ancora più assordanti, del Secondo conflitto mondiale, mentre il dramma jugoslavo è finito, dopo l'ultimo atto del Kosovo nel 1999, nello smembramento di uno Stato forte e nella nascita di micro-Stati, alcuni dei quali vittime della propria vittoria .
In Simone Weil abbiamo visto il passaggio dall'iniziale pacifismo radicale a un interventismo altrettanto deciso. Lo stesso accadde a Langer? “Soccorrere tutti” fu il suo primo impegno, “e questo voleva dire molto concretamente ricordarsi ogni volta anche dei serbi; non perché sottovalutasse le responsabilità e i crimini di Milošević o di Mladić, ma per riaffermare che le vittime stavano da tutte le parti e che anche in Serbia le madri dei soldati, le donne in nero, gruppi di intellettuali critici, giornali indipendenti costituivano un importante fronte di opposizione...”, scrive Fabio Levi ; posizione che poi si trasformò in avvicinamento alle ragioni di un intervento armato per creare i presupposti di una pacificazione. Nello scritto “Uso della forza militare internazionale nella ex-Jugoslavia?” che è la trascrizione di un'intervista radiofonica del 6 luglio 1993, dopo esser partito dalla costatazione che già molti interventi armati si stavano svolgendo nelle aree dell'ex Jugoslavia, Langer affronta il tema del titolo, e lo risolve affidandosi alla congiunzione anche, di cui si contano 4 occorrenze in nemmeno due pagine: “...occorre una credibile autorità internazionale che sappia minacciare ed anche [corsivi nostri] impiegare (...) la forza militare, esattamente come avviene con la polizia sul piano interno degli Stati...”; “...E' dunque altamente tempo di allargare il mandato, la consistenza e l'armamento delle forze dell'ONU nella ex Jugoslavia, includendovi l'ordine -per ora- di far arrivare effettivamente gli aiuti umanitari ai loro destinatari, anche aprendosi la strada con le armi; di far cessare gli assedi alle città, anche bombardando postazioni di armamenti pesanti...”; “...Un intervento militare di questo tipo (...) potrebbe essere anche affidato a forze NATO...”. Siamo sideralmente lontani dall'entusiasmo bellicista di tanti politici e chierici di allora , magari di fresco convertiti, che, spesso a cuor leggero e dopo aver soffiato sul fuoco della crisi jugoslava, si divertirono a chiedere interventi militari a destra e a manca, senza la minima prospettiva di risoluzione delle controversie internazionali con altri mezzi (come ancora recita l'articolo 11 della Costituzione italiana), e soprattutto senza la minima idea di cosa fare nel dopoguerra, in Bosnia Erzegovina, e poi altrove. Langer sembra rendersi conto, sul campo, della dolorosa presenza della violenza del più forte, la quale non può essere spezzata dall'iniziativa autonoma dei popoli, incapaci di “darsi la libertà” per smarrimento ideale e politico, e perché l'ipocrisia europea aveva imposto un embargo sulle armi che danneggiava il più disarmato dei contendenti (l'esercito bosniaco); ma solo da un intervento “esterno” di un'entità sovranazionale: legittimità della resistenza, si sarebbe detto con schemi del marxismo classico, violenta o non violenta a seconda della scelta dei resistenti, ma con l'aggiunta di una entità estranea ai fatti e presunta imparziale (per quanto potessero esserlo l'ambigua ONU di quegli anni o la potente NATO...). Dopo altri due anni di assedi e di stragi, e soprattutto dopo il massacro di Tuzla (25 maggio 1995, 71 giovani morti per un obice lanciato da fascisti serbo-bosniaci) cadono le ultime remore: l'azione armata è irrinviabile, “vòlta non a punire qualcuno 'perché serbo' (o croato, o musulmano), ma ad impedire che la conquista etnica con la forza delle armi torni ad essere legge in Europa” (da L'Alto-Adige, 30 maggio 1995); nel giugno del 1995 ci fu poi la manifestazione di Cannes, con la richiesta di un intervento militare che si schierasse dalla parte degli aggrediti e delle vittime, superando la politica di “sedicente neutralità”, anche sulla spinta delle parole dell'allora sindaco di Tuzla, il laico socialdemocratico Selim Beslagić: “Voi state a guardare e non fate niente, mentre un nuovo fascismo ci sta bombardando: se non intervenite per fermarli, voi che potete, siete complici, è impossibile che non vi rendiate conto”. Non “cannoni alla Bosnia Erzegovina” per una resistenza di lunga durata, ma bombardamenti NATO contro le postazioni militari serbo-bosniache (e, almeno in questo caso, non contro i civili) e offensiva croato-musulmana -con un'inspiegabile debolissima resistenza da parte delle truppe di Milošević-, che in pochi giorni effettivamente mettono fine alla guerra e aprono quell'incerto dopoguerra in cui il Paese è ancora oggi.
Virginia Woolf
Rimane una forte sensazione di occasione persa e di svolta non còlta, dopo l'89, se i conflitti si sono acuiti e sono diventati pesantissimi, cronici, in alcune aree, e se l'orologio della storia sembra stia camminando all'indietro, nonostante l'impegno di donne e uomini di pace. E' bastata l'ennesima crisi mondiale connessa agli attentati dell'11 settembre 2001 per chiudere una volta di più l'illusione: nella nuova “guerra al terrore” il nemico è il mondo musulmano, così indistintamente e essenzialisticamente definito, per cui quella parte che tanto ha subìto le violenze delle “guerre jugoslave”, ovvero i bosgnacchi, si trova di nuovo nel campo sbagliato, in quell'islam che è per costituzione criminale e malvagio (la stupida tesi leghista per cui non esiste un islam “moderato” -altro aggettivo stupido...). Sarajevo come fucina di terroristi, e cuneo islamico piantato nel cuore dell'Europa, mentre truppe d'élite serbe, ovvero cristiano-ortodosse, possono essere impiegate nei vari fronti di guerra all'islam. E' anche per questo che è caduto un macigno di silenzio sulle vicende balcaniche degli anni Novanta: applicando a quegli eventi la chiave di lettura dello “scontro di civiltà”, si dovrebbe puntare il dito contro ortodossia e cattolicesimo per la guerra scatenata contro i pacifici musulmani di Bosnia Erzegovina, con corollario di 200.000 morti e distruzione dell'intero tessuto politico-economico della Jugoslavia. Invece non se ne parla più, e la strage di Srebrenica dell' 11 luglio 1995 non scuote le ipersensibili coscienze occidentali pronte a celebrare qualsiasi piccolo evento e i crimini degli altri, ma vili e mute dinanzi a quello che è stato il massacro più spaventoso del dopoguerra in Europa, più di 8.000 morti (maschi musulmani, essenzialmente) nel giro di tre giorni...
Come a cominciare da Virginia Woolf si è assistito alla fine del femminismo classico, che pure avrà una coda importantissima nel femminismo emancipatorio degli anni Sessanta-Settanta, e alla nascita di quello della “differenza”, rafforzato dalle energie fornite dall'emergere di nuovi soggetti nei Paesi del Sud del mondo, indagati e sostenuti dagli “studi culturali”; così in Simone Weil e in Alexander Langer si è assistito alla fine del pacifismo classico, quello del ciclo 1914-1989, per intravedere la nascita di un movimento di tipo politico che si fa carico dei mali del mondo, “nulla al ver detraendo”, e della durezza della storia, e che non si ritrae dinanzi alla necessità di darsi armi per intervenire. Le indagini in corso consistono nel capire se questo embrionale pacifismo “della responsabilità” si sia risolto nel complice realismo di chi si riduce ad approvare le più ignobili porcherie dei nostri governi (ripetute stragi di civili in Afghanistan e in Iraq, torture e relativa/indispensabile esibizione dei corpi torturati, corsa spietata all'accaparramento di materie prime, etc.) in nome di una violenta esportazione della democrazia, e irresponsabilmente disinteressato al dopo: al dopo-Dayton in Bosnia Erzegovina, ad esempio, disastro economico, devastazione delle coscienze, proiettili all'uranio impoverito; al dopo indipendenza del Kosovo/Kosova, con scia di regressi e di crimini, disamore ipernazionalista verso il proprio stesso Paese; al dopo guerre del Golfo, in Afghanistan, in Cecenia, ammesso che di un “dopo” si possa parlare, per questi crimini in corso, cronicizzati, anche sotto forma di ripetute stragi intramusulmane. Oppure se sia in grado di costruire una visione radicalmente alternativa dei rapporti umani, sociali e tra Stati, in grado di sottrarre armi a tutti gli attuali contendenti e nostri carcerieri: al cupo “occidente” delle missioni umanitarie e del modello di vita più vorace che mai sia stato messo in piedi (quotidianamente, oltre che militarmente, vorace, negli stili di vita anche dei suoi più feroci oppositori); al cupo “vicino oriente” dell'integralismo religioso ed economico di certo islam, che produce dittature sanguinarie, fanatismi e l'oppressione dei corpi, soprattutto delle donne ; al cupo “estremo oriente” che unisce le follie del comunismo reale a partito unico, alla violenza del capitalismo reale nella sua fase più aggressiva, quella dell'accumulazione e dell'annullamento dell'individuo. Tutti e tre questi carcerieri covano continue minacce alla pace e all'esistenza di ogni essere vivente: occorre provare a fermarli, prima che gettino via la chiave. A questo tentativo penso ci spingano le parole dell'ultimo Langer. In questo credo risieda la vera “conversione ecologica”, massimalista nel metodo e nei fini.
Gianluca Paciucci è nato a Rieti nel 1960. Laureato in Lettere, è insegnante nelle Scuole medie superiori dal 1985. Come operatore culturale ha lavorato e lavora tra Rieti, Nizza e Ventimiglia; in questa città è stato presidente del Circolo “Pier Paolo Pasolini” dal 1996 al 2001. Dal 2002 al 2006 ha svolto la funzione di Lettore con incarichi extra-accademici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Sarajevo, e presso l’Ambasciata d’Italia in Bosnia Erzegovina, come Responsabile dell'Ufficio culturale. In questa veste è stato tra i creatori degli Incontri internazionali di Poesia di Sarajevo. Ha pubblicato tre raccolte di versi, Fonte fosca (Rieti, 1990), Omissioni (Banja Luka, 2004), e Erose forze d'eros (Roma, 2009); suoi testi sono usciti nell’ “Almanacco Odradek”. Dal 1998 è redattore del periodico “Guerre&Pace”. Collabora con le case editrici Infinito, Multimedia e con la "Casa della Poesia".