Una giornata nei luoghi biamontiani
Giorgio Amico
Viaggio nella terra di Biamonti
Sono andato a San Biagio della Cima. Dalla costa ci si arriva in pochi minuti, ma è un altro mondo. Lasciata l’Aurelia ai piani di Vallecrosia, si imbocca la vecchia carrozzabile che porta a Perinaldo costeggiando il corso del torrente Verbone lungo una via punteggiata di capannoni industriali segni di una modernità invadente che morde le antiche pietre.Una valle stretta, scavalcata dall’imponente viadotto autostradale che ne accentua il degrado.
Una valle triste, indelebilmente segnata anche nell’opulenza di oggi dall’antica, dignitosa povertà di un tempo. Una valle spoglia, inutilmente abbellita dai borghi medievali di Vallecrosia alta e di San Biagio.
Una terra aspra, sassosa che testimonia del secolare rapporto d’amore e d’odio con l’uomo. Di una feroce fatica del vivere che neppure la morte riesce a pacificare. Una terra di uomini silenziosi, schiacciati fra mare e monti. Aggrappati alla terra come a una speranza. Una terra avara, del colore grigio della pietra e degli ulivi. Una natura arcigna, restia a concedersi, di una bellezza crudele. La terra descritta da Biamonti nei sui libri.
Da San Biagio della Cima il mare non si vede, anche se nei giorni ventosi se ne avverte la presenza e il profumo nell’aria a rappresentare il presagio di un mondo diverso, luccicante in fondo alla valle, dopo l’abitato di Vallecrosia alta, dopo il ponte dell’autostrada.
Biamonti ne parla in uno dei sui ultimi lavori:
“Fra il mio paese e il mare si frappone una rupe, un agglomerato di ciottoli e conchiglie (o piuttosto orme di conchiglie) dall'aspetto arcigno. La vegetazione è di ginestre spinose, quelle che ha utilizzato Sutherland in “Capo di spine” per dare un'idea della crudeltà del mondo, di cisti vellutati e fragili, di qualche ulivo superstite che vive a stento. Di lassù si gode, saltando le orrende costruzioni della nostra costa, di un vasto arco luminoso.”
Da San Biagio si vede solo il cielo. Un cielo tanto azzurro da parere cupo. Un timido annuncio di quel cielo di Provenza che van Gogh tanto amava.
E nel cielo alto riecheggia il suono delle campane delle chiese della valle. Da un campanile all’altro,da un gruppo di case all’altro il suono si ripercuote argentino sulle balze sassose delle colline dirupate per perdersi, infine, fra gli ulivi. Un suono un tempo familiare, ma che oggi racchiude la triste dolcezza delle cose passate. Uno scampanio che sgorga come fiume impetuoso dalle pagine de “L’angelo di Avrigue”:
“Battagliavano con grazia, a ondate; faceva da collegamento la campana minore (stavolta lo era) sempre più lenta, che tutto sembrava finire, invece ricominciavano. Poi suonarono a distesa, a gloria, e vi si unì per un breve lasso di tempo anche la campanella dell’Annunciata”.
E’ un paese strano San Biagio. Un pugno di case abbarbicate alla montagna. Case grige, dai vecchi muri fatte di pietre screpolate. Un borgo silenzioso, stretto attorno alla sua chiesa come le dita di un pugno chiuso solcato dalle linee dei vicoli.
Case di pietra… “qui semblent s’endormir dans un rêve sans fin”. Quanto familiari risuonano in questo contesto i versi di Baudelaire, un poeta che Biamonti amava. Camminando per i vicoli di San Biagio iniziamo a capire il perché. Il segreto ci si disvela ad ogni passo, così come l’animo di Francesco che nascondeva dietro il sorriso di un bimbo il dolore profondo di un’epoca intera.
Un mondo immobile. Dove “l’immobilità delle cose garantisce dal trascorrere del tempo e dei mutamenti. Tutto è eguale, da sempre e per sempre”.
Un mondo uniforme. Scandito da regole senza tempo. Dove la vita è sempre eguale. Un mondo senza storia che porta su di se il peso dei millenni. Un mondo circolare. Senza fine e senza inizio.
“Ciascuno conosceva il suono delle campane, la loro eco nei vicoli, l’inclinazione del sole sulle case, la linea d’ombra sui due versanti della valle in qualsiasi ora e mese di qualsiasi anno”.
Un mondo senza speranza. Senza vie di fuga possibili. Uno spazio chiuso, aperto solo verso il mare. E tutto intorno “monti a non finire , grigio chiaro e grigio perla come i vicini monti di Francia”.
Francesco Biamonti è nato e vissuto qui. Tutto qui ci parla di lui. In ogni angolo ritroviamo qualcosa che abbiamo letto nei suoi libri, una pagina che ci ha colpito, una descrizione. Eppure questa realtà resta sfuggente, inafferrabile nella sua più intima sostanza. E ci viene allora da pensare che davvero questa terra, questa piccola valle sia una rappresentazione del mondo grande e terribile con le sue paure e le sue sofferenze, con i suoi uomini e le sue donne. E che Francesco Biamonti descrivendola abbia rappresentato non uno spazio topograficamente definibile, ma un altrove. Quel luogo misterioso che alberga nel profondo del cuore di ciascuno di noi da cui provengono i sogni e gli incubi. Quel luogo perduto ma mai dimenticato, odiato e amato, da cui si fugge e a cui si cerca di tornare, dove tutto è iniziato e dove tutto finirà.
Una valle triste, indelebilmente segnata anche nell’opulenza di oggi dall’antica, dignitosa povertà di un tempo. Una valle spoglia, inutilmente abbellita dai borghi medievali di Vallecrosia alta e di San Biagio.
Una terra aspra, sassosa che testimonia del secolare rapporto d’amore e d’odio con l’uomo. Di una feroce fatica del vivere che neppure la morte riesce a pacificare. Una terra di uomini silenziosi, schiacciati fra mare e monti. Aggrappati alla terra come a una speranza. Una terra avara, del colore grigio della pietra e degli ulivi. Una natura arcigna, restia a concedersi, di una bellezza crudele. La terra descritta da Biamonti nei sui libri.
Da San Biagio della Cima il mare non si vede, anche se nei giorni ventosi se ne avverte la presenza e il profumo nell’aria a rappresentare il presagio di un mondo diverso, luccicante in fondo alla valle, dopo l’abitato di Vallecrosia alta, dopo il ponte dell’autostrada.
Biamonti ne parla in uno dei sui ultimi lavori:
“Fra il mio paese e il mare si frappone una rupe, un agglomerato di ciottoli e conchiglie (o piuttosto orme di conchiglie) dall'aspetto arcigno. La vegetazione è di ginestre spinose, quelle che ha utilizzato Sutherland in “Capo di spine” per dare un'idea della crudeltà del mondo, di cisti vellutati e fragili, di qualche ulivo superstite che vive a stento. Di lassù si gode, saltando le orrende costruzioni della nostra costa, di un vasto arco luminoso.”
Da San Biagio si vede solo il cielo. Un cielo tanto azzurro da parere cupo. Un timido annuncio di quel cielo di Provenza che van Gogh tanto amava.
E nel cielo alto riecheggia il suono delle campane delle chiese della valle. Da un campanile all’altro,da un gruppo di case all’altro il suono si ripercuote argentino sulle balze sassose delle colline dirupate per perdersi, infine, fra gli ulivi. Un suono un tempo familiare, ma che oggi racchiude la triste dolcezza delle cose passate. Uno scampanio che sgorga come fiume impetuoso dalle pagine de “L’angelo di Avrigue”:
“Battagliavano con grazia, a ondate; faceva da collegamento la campana minore (stavolta lo era) sempre più lenta, che tutto sembrava finire, invece ricominciavano. Poi suonarono a distesa, a gloria, e vi si unì per un breve lasso di tempo anche la campanella dell’Annunciata”.
E’ un paese strano San Biagio. Un pugno di case abbarbicate alla montagna. Case grige, dai vecchi muri fatte di pietre screpolate. Un borgo silenzioso, stretto attorno alla sua chiesa come le dita di un pugno chiuso solcato dalle linee dei vicoli.
Case di pietra… “qui semblent s’endormir dans un rêve sans fin”. Quanto familiari risuonano in questo contesto i versi di Baudelaire, un poeta che Biamonti amava. Camminando per i vicoli di San Biagio iniziamo a capire il perché. Il segreto ci si disvela ad ogni passo, così come l’animo di Francesco che nascondeva dietro il sorriso di un bimbo il dolore profondo di un’epoca intera.
Un mondo immobile. Dove “l’immobilità delle cose garantisce dal trascorrere del tempo e dei mutamenti. Tutto è eguale, da sempre e per sempre”.
Un mondo uniforme. Scandito da regole senza tempo. Dove la vita è sempre eguale. Un mondo senza storia che porta su di se il peso dei millenni. Un mondo circolare. Senza fine e senza inizio.
“Ciascuno conosceva il suono delle campane, la loro eco nei vicoli, l’inclinazione del sole sulle case, la linea d’ombra sui due versanti della valle in qualsiasi ora e mese di qualsiasi anno”.
Un mondo senza speranza. Senza vie di fuga possibili. Uno spazio chiuso, aperto solo verso il mare. E tutto intorno “monti a non finire , grigio chiaro e grigio perla come i vicini monti di Francia”.
Francesco Biamonti è nato e vissuto qui. Tutto qui ci parla di lui. In ogni angolo ritroviamo qualcosa che abbiamo letto nei suoi libri, una pagina che ci ha colpito, una descrizione. Eppure questa realtà resta sfuggente, inafferrabile nella sua più intima sostanza. E ci viene allora da pensare che davvero questa terra, questa piccola valle sia una rappresentazione del mondo grande e terribile con le sue paure e le sue sofferenze, con i suoi uomini e le sue donne. E che Francesco Biamonti descrivendola abbia rappresentato non uno spazio topograficamente definibile, ma un altrove. Quel luogo misterioso che alberga nel profondo del cuore di ciascuno di noi da cui provengono i sogni e gli incubi. Quel luogo perduto ma mai dimenticato, odiato e amato, da cui si fugge e a cui si cerca di tornare, dove tutto è iniziato e dove tutto finirà.