domenica 28 febbraio 2021
Non può esserci pace senza dignità. La Pacem in Terris, Camilo Torres e Arnulfo Romero (1963-1980)
Padre Camilo Torres (1929-1966)
Questo testo era stato pensato per un libro collettivo sulla storia della seconda metà del Novecento che, anche causa Covid, è rimasto poi fermo in tipografia. Lo proponiamo oggi.
Giorgio Amico
Non può esserci pace senza dignità.
L'enciclica Pacem in Terris e il sacrificio di Camilo Torres e Arnulfo Romero (1963-1980)
Nel 1978 Raniero La Valle fonda Bozze, rivista pensata per gettare un ponte fra cattolici e comunisti. In un numero del 1986 La Valle interviene sull'enciclica Pacem in terris, l'ultima enciclica pubblicata da papa Giovanni XXIII, l'11 aprile 1963, quando il Pontefice era già gravemente segnato dai sintomi della malattia - un cancro allo stomaco - che, in meno di due mesi, l'avrebbe portato alla morte. Una sorta di testamento spirituale, potremmo dire, o se si vuole l'ultimo messaggio di speranza da parte di un uomo che molto aveva fatto in anni difficili, ricordiamo la crisi dei missili dell'ottobre 1962 che sembrò portare il mondo sulla soglia della guerra atomica, per creare canali di dialogo fra i due blocchi e superare una politica internazionale fondata dal 1947 sulla diffidenza e la paura reciproca.
Certo l'enciclica riaffermava elementi tradizionali della dottrina cattolica, come l'affermazione al punto 26 che “La convivenza fra gli esseri umani non può essere ordinata e feconda se in essa non è presente un’autorità che assicuri l’ordine e contribuisca all’attuazione del bene comune in grado sufficiente. Tale autorità, come insegna san Paolo, deriva da Dio.” Così come la tesi profondamente antidemocratica e antimoderna, di Leone XIII secondo cui “certo non può essere accettata come vera la posizione dottrinale di quanti erigono la volontà degli esseri umani, presi individualmente o comunque raggruppati, a fonte prima ed unica donde scaturiscono diritti e doveri, donde promana tanto l’obbligatorietà delle costituzioni che l’autorità dei poteri pubblici”. Affermazioni chiaramente inaccettabili per un laico, ma anche probabilmente per le prime forme di un dissenso cattolico che proprio contro l'autoritarismo delle gerarchie ecclesiastiche si stava iniziando a mobilitare.
Eppure, nonostante queste concessioni alla tradizione, probabilmente frutto di un compromesso fra le diverse componenti vaticane , l'enciclica fece scalpore e fu apertamente accusata dagli ambienti integralisti di filocomunismo, il che la dice lunga sull'arretratezza della Chiesa cattolica e degli ambienti curiali ancora agli inizi degli anni Sessanta. Ed in effetti l'idea che la pace si può e si deve realizzare sulla “terra”, qui e ora e che questo è il compito di ogni uomo, non poteva che suonare scandaloso alle orecchie di chi aveva dimenticato che questo insegnamento era già presente nella tradizione rabbinica, a cui apertamente, e in modo anche allora considerato scandaloso, si era ispirato venti secoli prima un rabbi eretico, consapevole che senza il riconoscimento pieno della dignità di ogni uomo non può esistere vera pace e che questa non può che essere il frutto del rifiuto di ogni forma di oppressione. Un rabbi rivoluzionario fino al punto di scacciare i mercanti dal Tempio e di dichiarare:
«Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; e nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa». (Mt 10,34-11,1)
I segni de tempi
Ma cosa c'era di tanto scandaloso nelle parole del Papa? Semplicemente l''affermazione che tre erano i segni dei tempi di cui la Chiesa doveva prendere finalmente atto: l’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici, l’ingresso della donna nella vita pubblica, la liberazione dei popoli del terzo Mondo dal dominio coloniale. Un messaggio di straordinaria attualità se si pensa che al paragrafo 12 l'enciclica sostiene, e siamo, lo ricordiamo, in un ormai lontanissimo 1963, che «ogni essere umano ha il diritto alla libertà di movimento e di dimora nell’interno della comunità politica di cui è cittadino; ed ha pure il diritto, quando legittimi interessi lo consiglino, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi in esse [sottolineatura nostra]».
Parole per molti, allora e anche oggi basti vedere le polemiche sugli immigrati, motivo di scandalo, ma per altri, molto più numerosi, motivo di speranza. Una speranza destinata a crescere e a fermentare negli anni per diventare infine parte integrante del grande moto di rivolta giovanile della fine degli anni Sessanta a cui la componente cattolica non fu estranea. A ragione Raniero La Valle sottolinea nell'articolo a cui ci riferiamo come il testo di Papa Giovanni resti «tuttora il punto più avanzato raggiunto dal magistero ecclesiastico nella riflessione sulla pace. Esso è essenzialmente un documento sulla dignità degli esseri umani e delle loro comunità politiche, sul nesso tra guerra e dominio, e sulla pace come liberazione dal dominio».
Ed in effetti, considerato come la Chiesa fosse stata per l'intera sua storia ferocemente avversa, dalla Riforma all'Illuminismo, dalla Rivoluzione francese al liberalismo e poi al movimento socialista, ad ogni tentativo di allargare i margini di libertà individuale e collettiva, l'idea che un Papa, a differenza dei suoi predecessori che avevano benedetto Mussolini e Franco come uomini mandati dalla Provvidenza, pubblicasse un'enciclica sulla pace come frutto della giustizia, e di una giustizia soprattutto sociale, segnava un oggettivo momento di discontinuità e di rottura.
La teologia della liberazione e Camilo Torres
E questo elemento di rottura fu lievito fondamentale per la maturazione di un diverso modo di concepirsi e viversi come cattolici, immersi nel mondo, ma anche fonte di legittimazione per esperienze come quella, osteggiatissima dalle gerarchie ecclesiastiche, dei preti operai e in America Latina della nascente teologia della liberazione.
Senza la Pacem in terris e il suo messaggio di speranza e di impegno rivolto non solo ai cristiani, ma a “tutti gli uomini di buona volontà”, probabilmente padre Camilo Torres Restrepo, che con Giovanni XXIII aveva dibattuto personalmente della condizione insopportabile dei poveri dell'America Latina, non avrebbe nell'estate del 1965 deciso di unirsi alla guerriglia colombiana e di spiegare la sua scelta con un messaggio ai cristiani in cui proprio in quanto prete sosteneva:
«La principale regola nel cattolicesimo è l’amore per il prossimo. “Colui che ama il prossimo suo adempie la sua legge”. (S.Paolo, Roma XIII, 8). Quest’amore, perché sia vero, deve trovare la sua efficacia. Se l’elemosina, la beneficenza, le poche scuole gratuite, i pochi piani per le abitazioni, ciò che viene chiamato “carità”, non riesce a dare da mangiare alla maggioranza degli affamati, né a vestire la maggioranza dei denudati, né ad insegnare alla maggioranza di coloro che non sanno, dobbiamo trovare mezzi efficaci per il benessere della maggioranza.
Questi mezzi non li vanno a cercare le minoranze privilegiate che detengono il potere, perché generalmente questi mezzi efficaci obbligano le minoranze a sacrificare i loro privilegi.
E’ necessario allora prendere il potere alla minoranza privilegiata per darlo alla maggioranza povera. (...) La Rivoluzione, quindi, è la forma, per ottenere un governo che dia da mangiare agli affamati, che veste i denudati, che insegna a coloro che non sanno, che adempie alle opere di carità, d’amore con il prossimo, non solo in modo occasionale e transitorio, non solo per pochi, ma per la maggioranza del nostro prossimo. Per questo la Rivoluzione non solo è permessa ma è obbligatoria per i cristiani che vedono in lei l’unica maniera efficace e ampia di realizzare l’amore per tutti.
Quando c’è un’autorità contro il popolo, quest’autorità non è legittima e si chiama tirannia. Noi cristiani possiamo e dobbiamo lottare contro la tirannia. L’attuale governo è tirannico perché non l’appoggia che il 20% degli elettori e perché le sue decisioni escono dalle minoranze privilegiate.
I difetti temporali della Chiesa non ci devono scandalizzare. La Chiesa è umana. L’importante è credere anche che è divina e che se noi cristiani adempiamo coi nostri obblighi d’amore per il prossimo, stiamo rafforzando la Chiesa.»
Camilo Torres, "el cura guerrillero" (il prete guerrigliero), come lo chiamavano i campesinos, morì il 16 febbraio 1966 in uno scontro con l'esercito colombiano. Si era unito alla guerriglia, ma non portava armi.
Il sacrificio di Oscar Arnulfo Romero
Senza la Pacem in terris e la testimonianza che ne diede chi offrì la sua vita per affermare la dignità dei poveri, non ci sarebbe stata la conversione ad un cristianesimo autentico rivolto agli ultimi di Monsignor Oscar Arnulfo Romero. La storia è nota. Nel 1977 in un Salvador dove infuria la repressione contro i contadini in lotta per la terra e la libertà, si deve scegliere il nuovo arcivescovo della capitale. La scelta delle gerarchie cade su Monsignor Romero, conosciuto come conservatore, anticomunista e avversario accanito della teologia della liberazione e dunque ben visto dall'oligarchia che da sempre governa il paese. Ma accade un fatto nuovo: i paramilitari assassinano padre Rutilio Grande, animatore del Vangelo tra i contadini. Quel sangue innocente diventa per Romero fattore di conversione. È come se un velo si squarciasse a rendergli visibile l'inumana sofferenza dei campesinos. L'arcivescovo ne è sconvolto al punto di rompere con l'oligarchia e di denunciare pubblicamente i crimini del potere. Additato come un comunista, lasciato solo dagli altri vescovi, stigmatizzato da Papa Wojtila che lo considera un sovversivo, il 24 marzo 1980 Romero viene assassinato sull'altare mentre celebra la Messa. Il giorno prima aveva lanciato ai militari un appello alla disobbedienza:
“Fratelli, siete del nostro stesso popolo, uccidete i vostri stessi fratelli campesinos e davanti all’ordine di uccidere dato da un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice non uccidere. Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine contro la legge di Dio. Una legge immorale, nessuno è tenuto a rispettarla. È ormai tempo che voi recuperiate la vostra coscienza e che obbediate prima alla vostra coscienza che agli ordine del peccato …In nome di Dio, allora, e in nome di questo popolo sofferente, vi supplico, vi prego, vi ordino: cessate la repressione!”.
Dal 1963 erano passati diciassette anni, ma il messaggio della Pacem in terris non era rimasto inascoltato.
sabato 27 febbraio 2021
Arrigo Cervetto. Vita di un comunista attraverso le lettere
Arrigo Cervetto, partigiano diciottenne (1945)
Giorgio Amico
Arrigo Cervetto. Vita di un comunista attraverso le lettere
1. La passione per la lettura
L'ingresso di Arrigo Cervetto nel mondo grande e terribile, per usare l'espressione gramsciana, della politica come impegno intellettuale può datarsi al 6 gennaio 1948, quando Umberto Marzocchi, figura centrale dell'anarchismo italiano del dopoguerra, invia a Gigi Damiani, direttore di Umanità Nova, un articolo del giovane, allora ventenne militante del gruppo giovanile savonese della FAI “Né Dio né padrone”, accompagnandolo da una breve lettera di presentazione:
«A me sembra utile incoraggiarlo – scrive – avendo l'impressione che farà sempre meglio essendo appassionato e convinto delle nostre idee in modo che non sarò smentito in avvenire.»
«Appassionato e convinto». Marzocchi, con l'occhio sicuro del vecchio militante che sa valutare gli uomini, ha colto le caratteristiche centrali della personalità di Cervetto, la passione ideale e la tenacia nel perseguire le sue idee anche quando si troverà praticamente da solo a difenderle. In questo l'avvenire non smentirà Marzocchi, anche se solo pochi mesi dopo Cervetto abbandonerà la FAI deluso per il sostanziale immobilismo dei libertari rigidamente ancorati ad un passato eroico, ma ormai tramontato e incapaci di cogliere il nuovo che avanza e le richieste di un profondo rinnovamento della teoria che una nuova generazione di militanti, in larga parte passati per l'esperienza della lotta partigiana, avanza con impazienza tutta giovanile.
Un'impazienza e una voglia di fare e che aveva portato quei giovani alla scelta di militare nel PCI e poi, insofferenti del grigio e legalitario burocratismo del partito togliattiano, di cercare aria nuova, più respirabile nel movimento anarchico, idealizzandone, proprio come accade ai giovani, le potenzialità libertarie e rivoluzionarie. Di questo percorso Cervetto è buon testimone proprio nell'articolo che Marzocchi ha inviato a Damiani che lo pubblicherà sul n.4 del 24 gennaio di Umanità Nova, in seconda pagina:
«Quando migliaia di giovani ritornarono dopo mesi e mesi di sacrificio da quelle montagne dove erano andati a combattere, spinti più che da una preparazione rivoluzionaria. Da un istinto di rivolta, non trovarono degli educatori che avrebbero dovuto formare di loro un'avanguardia rivoluzionaria, bensì dei politicanti. Politicanti i quali anziché insegnar loro le ragioni e gli scopo della lotta, il perché dei sacrifici, insegnarono loro a votare. Invece di indicare loro la sola via del riscatto, la rivoluzione sociale, dissero loro di prendere una tessera e di pagare una quota. Invece di formulare degli uomini consapevoli, degli idealisti, formarono degli inquadrati. E i giovani, credendo che ciò fosse un dovere, sfogarono quel nobile istinto di rivolta, il diritto dell'azione diretta, nei balli e nei campi di calcio. Glielo avevano detto che si erano convinti che bastava credere ed avere fiducia in quello che facevano i capi. Preferirono all'odiosa riunione, dove si parla di tutto fuorché di azione, l'ospitale ed accogliente “dancing” o l'entusiasmante fioco del “foot-ball”, essi non hanno nessuna colpa all'infuori di quella di non vedere e non sentire ciò che succede intorno a loro. La colpa ce l'hanno quelli che predicarono e predicano la calma, l'ordine, la disciplina e non capirono che il giovane rappresenta l'avvenire, la forza unica e vera della rivoluzione.»
Idee semplici, espresse in un italiano ancora esitante, espressione di un vitalismo insofferente ad ogni limitazione, dove prevale l'accento morale più che quello politico. È quello che esplicitamente, e non senza un pizzico di perfidia per quanto riguarda l'uso un po' troppo personale della sintassi, gli fa notare Giovanna Berneri, rimandandogli perché lo riveda un articolo che il giovane ha inviato nell'estate alla rivista Volontà da lei diretta e amministrata:
«Caro Cervetto – scrive la Berneri – abbiamo avuto da Marzocchi il tuo scritto; e ci piace tanto. Chi sa se in questa tua forma libera da coordinazione logica ed anche sintattica riecheggino prosatori noti del nostro tempo – Hemingway? Joyce? - o se invece è proprio esclusivamente una “sorgente” nuova, in te, che s'esprime. In ogni caso ci pare pubblicabile, e lo metteremmo in programma per il prossimo (od uno dei prossimi) numero. Vorremmo però dirti: ci pare che potresti ancora limarlo. […] Attendiamo comunque notizie tue. Ed intanto ti vorremmo anche incitare ad usare del tuo dono espressivo per “dire” al prossimo delle idee meno indeterminate. Questo tuo lavoro è sostanza nel piano della poesia. Non potresti scrivere anche sul piano della prosa, narrativa descrittiva polemica., già che nel nostro mondo d'oggi, nel tuo piccolo mondo locale, infiniti sono gli stimoli a scrivere per te? La nostra rivista è “politica”; ed inoltre dobbiamo tener conto della media dei nostri lettori, che questo orientamento “politico” vuol percepire netto.»
Nonostante questa critica l'articolo apparirà sul numero del 15 luglio 1948 della rivista. Della lettera della Berneri colpiscono due cose: il riferimento a Marzocchi, che ancora una volta ha fatto da tramite e presentatore di un compagno altrimenti sconosciuto, e questo aperto richiamo ad essere più politico e meno letterario che stupisce non poco il lettore di oggi che di Cervetto tutto può pensare meno che di una spiccata e ancor più ricercata volontà letteraria.
Eppure, per quanto difficile a credersi oggi, il giovane Cervetto covava ambizioni letterarie e la sua formazione politica iniziale era avvenuta principalmente sui maestri del realismo sociale, da Gor'kij a Steinbeck, che negli anni bui della dittatura erano stati uno dei canali privilegiati della propaganda antifascista. È lui stesso a scriverlo a Giancarlo Masini, in una lunga lettera di presentazione, di poco successiva:
«Dovrei dirti di me – scrive con toni di grande sincerità, quasi con sofferenza – dovrei dirti che ho 21 anni, che lavoro e leggo. Che importa? Come sono tanti. Immaginati un ragazzo che va a scuola, finisce le elementari, studia due o tre anni in una scuola d'avviamento, poi comincia a lavorare a 14-15 anni per necessità finanziarie. Seguilo questo ragazzo. Lavora, passa un'adolescenza burrascosa, piena di dubbi, di stupidate, di domande sciocche, fa i primi passi nella giovinezza. Intorno a lui un mondo che capisce poco, un mondo “adulto” pieno d'acciacchi. Come si fa a capire il mondo a diciassette anni? E poi il mondo allora era fascismo, guerra, divise, canti. Riprendiamo il ragazzo. Gioca lui, si trastulla, non sa se piangere o ridere, ma pensa. C'è un sentimento che è più di tutte le lotte di classe, più di tutta la politica. È il sentimento guida, lavora di ascia nella giungla della vita. C'era il fascismo allora ma c'era pure la “Spia”, la “Madre”, “Furore” col latte della donna all'uomo affamato (ricordo sempre e lei sorrise misteriosamente) c'era “E le stelle stanno a guardare” col fatalismo che tra l'uomo fuori dalla miniera per poi rimettecerlo insieme al nipote. Sono romanzi che si leggono appena si è capaci di leggerli, e sono romanzi che formano. Così il ragazzo legge, riceve un aiuto alla sua aspirazione, capisce che questa sua aspirazione è libertà, progresso. Va in montagna, diventa un partigiano, patisce fame e freddo, spara, viene ferito, vede il pericolo, tocca quasi la morte, vorrebbe pregare un dio in quel momento ma non è capace, non sa chi pregare, quasi prega se stesso, resta solo davanti alla responsabilità di essere lui. Non è un'odissea. È una cronaca di un giovane. Potrebbe essere anche la mia cronaca. Avevo diciotto anni quando, dopo 12 mesi di partigiano, ritornai a casa. In tutta Savona serpeggiava attraverso il rosso delle bandiere, dei fazzoletti, delle coccarde rosse, l'entusiasmo comunista. Sembrava l'avvento di una nuova era, il premio di tante speranze. Si parlava, si beveva, ci si sentiva “compagni”. Mi iscrissi al Partito Comunista, frequentai le riunioni, le cellule, le sezioni. Mi misi a leggere Lenin, Marx, Engels come sapevo. “Questa è la verità”, pensavo tra me. Ma non bastava. Allora cominciai a leggere Vittorini e il Politecnico. Si formava in me quella passione per la letteratura che ho ancora adesso.»
È una lunga citazione, ma necessaria perché descrive alla perfezione la smania di apprendere, la fame di esperienze, la passione che anima il giovane Cervetto e lo spinge ad andare avanti, a continuare a leggere rubando ore al riposo, a prendere appunti, a cercare di affinare il suo vocabolario, ma soprattutto di capire. Non crediamo che Cervetto avesse letto Joyce né allora né dopo, su Hemingway abbiamo qualche certezza in più, soprattutto per quanto riguarda opere testimonianza come “Per chi suona la campana”, ma concordiamo con quanto scritto da Giovanni Berneri, la scrittura è letteraria, asciutta e tagliente. Il racconto scorre fluido, come un flusso di memorie, con stacchi netti ad accentuare la drammaticità dei momenti e delle scelte. Insomma,una bella pagina da leggere che rimanda l'immagine di un giovane ancora in cerca di una sua via, ma assolutamente determinato a trovarla, sicuro delle sue potenzialità. Non ci stupisce che Masini voglia immediatamente conoscerlo di persona.
In realtà i due si erano già incontrati di persona in una riunione della FAI a Savona, ma Masini non aveva fatto molto caso al giovane militante che, timido come era allora anche a causa di una leggera balbuzie – e anche questo sembra impossibile a chi lo ha conosciuto anni più tardi oratore infaticabile e trascinante – tendeva nella riunioni, soprattutto quando erano presenti compagni autorevoli, ad ascoltare e difficilmente prendeva la parola. La lettera, così sincera e diretta, cambia completamente il ricordo sfocato che ne ha Masini. I due si incontreranno a Livorno il 9 gennaio dell'anno successivo in occasione della manifestazione nazionale in onore di Pietro Gori e sarà amore a prima vista.
(Le citazioni sono tratte da: Arrigo Cervetto, Opere, 23, Carteggio, Edizioni Lotta comunista, Milano, 2018)
1. continua
venerdì 26 febbraio 2021
I rivoluzionari e le prime trasmissioni televisive in Italia (1952)
In Italia le trasmissioni televisive iniziarono il 3 gennaio 1954, a cura della RAI. Ma già dal 1952 erano in corso trasmissioni sperimentali al Nord, limitate alle due emittenti di Torino e Milano collegate in rete. Gli inizi furono relativamente lenti, non solo per la difficoltà di far arrivare il segnale in ogni parte d'Italia, ma soprattutto a causa del costo elevato degli apparecchi. Tanto che nel 1956 gli abbonati erano di poco superiori ai 350mila.
In quegli anni un televisore era considerato un bene di lusso che solo pochi potevano permettersi. La stragrande maggioranza della popolazione seguiva i programmi, che si tenevano solo in fascia serale, nei bar, nelle parrocchie, nelle case del popolo, addirittura nei cinema. Avere un televisore era motivo di orgoglio e spesso i fortunati possessori invitavano i vicini che seguivano le trasmissioni molte volte portandosi le sedie da casa.
L' arrivo della televisione in Italia fu anche motivo di polemiche da parte dell'estrema sinistra rivoluzionaria di allora, come testimonia questo articolo del 1952 apparso sul giornale del Partito comunista internazionale.
G.A.
Il gigantesco affare della televisione italiana
Noi continueremo ad avere le idee che abbiamo sulla Patria e sulla Nazione, anche se l'Italia fosse, invece di quella che è, la più potente e ricca delle nazioni. Contrariamente a quanto fanno i patrioti delle patrie proprie o altrui, continueremo a combattere, per quanto è possibile, le ideologie del nazionalismo, del razzismo, ecc., che sono appunto basate sulla superiorità presunta o reale di uno Stato nei riguardi degli altri. Ma, ciononostante, ci ha fatto una certa impressione l'apprendere dal Tempo che, in quanto a televisione, l'Italia sta al primo posto in Europa. Nientemeno! Già, la poverella Italia, ricca solo di disoccupati affamati e di catapecchie, la sopravanza sulle ricchissime in beni e denaro Belgio, Svizzera, Svezia, Norvegia, Germania (ove solo ora sono in allestimento le stazioni di Amburgo e di Bonn) non solo, ma si lascia indietro persino la Francia e l'Inghilterra. La superiorità della televisione italiana, che si trova ancora alla fase sperimentale, si appaleserebbe sia sul piano tecnico che su quello organizzativo ed artistico. Bene, bene. Sicché, subito dopo gli Stati Uniti, con le loro mastodontiche cifre di 17 milioni di apparecchi televisivi e una quantità di stazioni trasmittenti, viene dunque, almeno nel mondo occidentale, la repubblica d'Italia.
Oggi funzionano due sole stazioni trasmittenti, a Torino e a Milano, che sono collegate da un «ponte». Entro l'anno venturo esse saranno collegate, mediante altri «ponti», con la rete delle stazioni della pianure padana, della Liguria e dell'Italia centrale fino a Roma. Solo dopo il 1954, i cafoni dell'Italia meridionale e delle isole saranno ammessi, in omaggio alla ricostruzione del Mezzogiorno, agli spettacoli televisivi. Avremo dunque il cinema in casa, come se non fosse già troppo il cinema che andiamo a vedere fuori...
Ma mentre l'industria italiana è molto progredita come appare dai prototipi di apparecchi televisivi, che, secondo il Tempo, sono «veramente ottimi», una grossa questione economica oppone i dirigenti della R.A.I. (che è la concessionaria dei servizi di televisione) e gli industriali della radio. Si tratta di far aumentare il numero degli utenti, che al presente sono ben pochi e neppure schedati, allorché la televisione uscirà, almeno per il Nord, dalla fase sperimentale. La divergenza tra l'ente concessionario e i fabbricanti sindacati nella A.N.I.E (Associazione nazionale Industriali Elettronici) sembra insolubile, ma è destinata a risolversi con l'intervento delle casse statali. Infatti la R.A.I. sostiene che il servizio di televisione non si può ancora estendere perché le Case produttrici di apparecchi televisivi non ne offrono al mercato un numero sufficiente. Si intende agevolmente che aumentando il numero dei «telespettatori» dovrà aumentare l'introito dei canoni da cui la R.A.I trae i fondi per il finanziamento dei servizi e dei programmi. Dall'altra parte, gli industriali elettronici, allarmati dalla autorizzazione recentemente concessa per la importazione dall'America di 5000 apparecchi, si dichiarano prontissimi a fabbricare un primo lotto di centomila apparecchi, richiesti dai dirigenti della R.A.I., ma chiedono delle garanzie. Quali? Calcolando che ogni apparecchio viene a costare la cifra media di 200.000 lire l'uno, il valore complessivo dei centomila apparecchi in preventivo si aggirerebbe sui 20 miliardi di lire. Se fossero di rapido smercio, gli industriali non starebbero a discutere, ne avrebbero già prodotti. Ma si tratta per loro di immagazzinare una merce che solo durante un periodo più o meno lungo si potrà esitare. Alle corte, gli industriali elettronici chiedono delle sovvenzioni. E chi potrà mollarle se non lo Stato, attraverso la R.A.I.? Siamo sicuri che il paterno Stato di Roma, con la sollecitudine affettuosa verso la grande industria che sempre lo ha distinto, alla fine cesserà graziosamente di farsi pregare ed allenterà i cordoni della borsa.
Significa ciò che tutti i rischi saranno addossati allo Stato, con le cui elargizioni le Case produttrici inizieranno, statene certi, la fabbricazione degli apparecchi televisivi. Agli imprenditori andranno tutti i vantaggi di chi non rischia del proprio e, naturalmente, gli utili. Alla «Nazione» la soddisfazione del primato italiano in televisione...
Di fronte a fenomeni del genere i teorizzatori delle statizzazioni come forma inferiore di socialismo non possono non mostrare di giocare nascondendo l'asso nella manica. Le vie dell'asservimento dello Stato alla fame di profitti del Capitale sono infinite, siccome le vie del Signore. Imprenditori che mettono le mani sulle casse dello Stato come nelle loro tasche, li potete chiamare ancora «proprietari privati»? Essi maneggiano qualcosa che non è, a rigore, proprietà privata, e cioè il cosiddetto pubblico denaro, cioè il denaro appartenente allo Stato. A volte si appropriano, a volte restituiscono in parte o in tutto, i capitali presi in prestito dallo Stato, intascando ogni volta il profitto. Esiste tutta una scala di gradazioni che va, per restare nel caso trattato, dagli industriali della A.N.I.E. che chiedono di operare con prestiti dello Stato, fino ai concessionari, di cui esempio sottomano è appunto la R.A.I., che traggono profitti da capitali appartenenti interamente e inalienabilmente allo Stato.
L'Italia se ha un primato tra le nazioni occidentali esso è da ricercarsi proprio nella stretta soggezione dello Stato al capitale, quello cioè che economisti classicheggianti e sgonfioni cominformisti concordemente definiscono «intervento dello Stato nell'economia», propalando la falsissima concezione della subordinazione degli imprenditori ai funzionari statali. L'Italia è il paradiso degli esperimenti di capitalismo di Stato, che vanno dalla statizzazione integrale alle forme intermedie di sovvenzioni, dei prestiti, delle donazioni a fondo perduto di danaro pubblico alle imprese private. Se fosse vera la equazione statizzazione-socialismo, sarebbe vera un'altra cosa, e cioè che l'Italia fosse... sulla via del socialismo. Più facile sarà ingollare le balle visive che la televisione si appresta ad ammannirci.
il programma comunista, n. 4, 20 novembre - 4 dicembre 1952
mercoledì 24 febbraio 2021
Ricordo di Lawrence Ferlinghetti
Ricordo di Lawrence Ferlinghetti
La scorsa notte un desiderio
un ruggito in una conchiglia
un mormorio confuso
di uomini e uccelli
E i corpi
erano barche
Un fruscio di ali
suoni e gemiti
riempiono l'aria
E la tremante
ruota della carne
gira
(Lawrence Ferlinghetti, Poesie, Newton & Compton, 1996)
lunedì 22 febbraio 2021
sabato 20 febbraio 2021
Raffaele K. Salinari, In cammino verso Eleusi
Eleusi, sede degli antichi Misteri che portano ancora il suo nome, è la capitale della cultura europea per il 2021. Alla sua tradizione iniziatica è stato dedicato, a cura di Davide Susanetti e Mattia De Poli, un libro collettivo Eleusi Cuore sapienziale d’Europa edito da Padova University Press. Attraverso le sue pagine gli autori si chiedono: cosa è rimasto oggi di quei Misteri? E le risposte sono affascinanti, perché riportano all’oggi ciò che potremmo pensare sia confinato in un passato che non ci ri-guarda più.
Raffaele K. Salinari
In cammino verso Eleusi
Ad un certo punto della sua lucida follia Nietzsche si chiede: «Cos’è Arianna?». Si noti bene, non «chi è» ma «cosa è». La domanda simboleggia qui l’ipostasi di una Potenza, qualcosa di materiale ed immateriale al tempo stesso, un principio labirintico come il mito che lo rappresenta e lo svolge. Il suo senso è quello di porre l’interlocutore nei meandri di un percorso percettivo visionario e caleidoscopico che – come le parti che costituiscono il corpo del Minotauro – via via che penetriamo in esso e da esso ci facciamo affascinare, illumina i contorni e la consistenza stessa della nostra realtà interiore. «Io sono il tuo labirinto» dirà Dioniso ad Arianna…Questa doppia percezione, fatta di corpo e anima, intuizione e razionalità, eccitazione e serenità, estasi e consapevolezza, è il cuore di ciò che avveniva ad Eleusi nell’antichità.
La città della cultura e i suoi Misteri
Eleusi, sede degli antichi Misteri che portano ancora il suo nome, è la capitale della cultura europea per il 2021. Alla sua tradizione iniziatica è stato dedicato, a cura di Davide Susanetti e Mattia De Poli, un libro collettivo Eleusi Cuore sapienziale d’Europa edito da Padova University Press. Attraverso le sue pagine gli autori si chiedono: cosa è rimasto oggi di quei Misteri? E le risposte sono affascinanti, perché riportano all’oggi ciò che potremmo pensare sia confinato in un passato che non ci ri-guarda più.
In realtà, anche se non è dato sapere cosa di preciso accadesse durante i riti dedicati a Demetra e a sua figlia Kore-Persefone, le divinità che presiedevano alle iniziazioni eleusine, anche noi moderni possiamo sperare di cogliere la natura essenziale dell’epopteia, della visione di «Quelle Cose», come venivano definite nella filosofia Greca classica: «Felice chi entra sotto terra dopo aver visto Quelle Cose: conosce la fine della vita, conosce anche il principio dato da Zeus», dice Pindaro. Gli fa eco Virgilio che, nelle Georgiche, riprende il concetto: «Felice l’uomo che ha potuto conoscere il perché delle cose e si è buttato alle spalle ogni paura e il destino che non dà tregua e lo strepito dell’avaro Acheronte».
La fonte della felicità dunque, per gli antichi, era la conoscenza, il risultato quotidiano di quel «conosci te stesso» senza il quale essa non sarà né vera né tantomeno duratura, poiché è autenticamente tale solo nella ricerca della libertà di essere come libertà nell’Essere. E, non a caso, l’Essere è il Tutto, cioè il Mondo stesso inteso nelle sue varie componenti. Ma, per giungere a questo risultato, o almeno percorrere la via che vi porta, è necessaria, ieri come oggi, una disciplina, una melete che, gradualmente ma con coerenza, ci accompagni consapevolmente nel labirinto delle possibilità e delle contraddizioni, per risolverle abbracciando il nostro stesso Minotauro, per ricongiungerci ad esso nella luce dell’aletheia, della verità.
L’esperienza iniziatica
Tornare oggi ad Eleusi significa, allora, cercare le tracce della Strada Sacra che conduceva il mystes verso i Misteri. Possiamo farlo cercando quelle immagini guida che con la loro potenza metaforica costruiscono il mezzo di trasporto ed il luogo stesso verso cui dirigerci: dobbiamo, in altre parole, metterci in stato di rêverie. Qui, evidentemente, non stiamo parlando di semplici sogni ad occhi aperti, né tantomeno di perderci nei meandri senza schema delle fantasticherie, ma di percorrere una rigorosa disciplina immaginale che ci metta in risonanza con le corrispondenze che legano il mondo «dentro» a quello «fuori» di noi. Ma è ancora possibile sognare in questo modo, incubare sogni lucidi – come si faceva in preparazione dei riti eleusini – nei nostri letti, con le sveglie pronte a suonare ogni mattina; è praticabile riacquisire, come dice René Guénon nel Re del Mondo, il «senso dell’eternità»?
Il grande dio Pan (non) è morto!
Gli autori del libro
ci dicono che non è stato sempre così difficile sognare; ecco che
il passato di Eleusi diventa il riferimento per un altro futuro,
forse il solo possibile. Noi sappiamo che siamo arrivati all’oggi,
o meglio a costruire le categorie mentali con le quali ragioniamo da
quasi tre millenni, da quando, al tramonto dell’Evo antico,
l’Occidente ha progressivamente incominciato a pensare che il
distacco dalla Natura, dalle sue voci, gli avrebbe consentito di
dirigere altrove il destino; che spingendosi oltre il pendolo della
perenne oscillazione ciclica vita-morte-vita, avrebbe finalmente
liberato la vita individuale dai limiti stessi della Vita. Ora forse
cominciamo a comprendere che così facendo l’abbiamo privata dal
suo senso, finito solo per mortificare la nostra stessa
esistenza: tornare ad Eleusi significa allora tornare
all’ascolto.
Plutarco, nel De defectu oraculorum, racconta
come durante il regno di Tiberio la notizia della morte di Pan
venisse rivelata a tale Tamo che sentì gridare, dalle rive di Paxos:
«Quando arrivi a Palodes annuncia a tutti che il grande dio Pan è
morto!». Gli autori cristiani riportarono l’episodio come fine del
politeismo; in realtà quella voce, oramai confusa, senza una
provenienza precisa, annunciava la morte della nostra capacità di
cogliere le suggestioni della Natura. Oggi, in piena pandemia da
Covid 19, dovuta ai tanti spillover che l’antropocene ha
causato, non dovremmo forse cercare di rimetterci all’ascolto di
ciò che simboleggiava quell’antico dio? Questo è il senso che,
oggi più che mai, scandiscono i passi del cammino verso Eleusi: è
tempo di un passaggio di-verso.
Il passaggio di-verso
Ecco allora che, per ritrovare il nostro cammino, dobbiamo pensare al ricongiungimento tra ciò che vive «dentro» e ciò che esiste «fuori» di noi: questo è il primo passo sulla Strada Sacra, la Ierá Odós che porta ai Misteri di Eleusini: il passaggio verso il luogo ed il tempo nel quale «la salvezza del Mondo consiste con la salvezza dell’anima»; la nostra Eleusi personale in piena contemporaneità.
Eleusi, infatti, era prima di tutto un luogo di passaggio cui si arrivava attraverso un cammino di-verso, come per tutti i luoghi iniziatici. Una situazione nella quale la strada fatta per giungervi era altrettanto, se non più, importante della permanenza in essa. Ed i passaggi di-verso sono tutte le situazioni in cui non possiamo sostare più di un istante ma, in questo istante, siamo posti di fronte all’evento che sembra illuminare ogni evento possibile. I passaggi di-verso allora, conducono al luogo in cui si tesse il nodo della nostra vita all’interno di «ciò che è comune a tutte le cose», la «trama nascosta più forte di quella manifesta» diceva Eraclito. Qui è dove possiamo incontrare il nostro risvolto, il disegno composto dal nesso tra trama ed ordito, natura e cultura; così, nell’intreccio si combina l’avvenire dell’anima individuale con quella del Mondo.
Quando finalmente giungeremo ad Eleusi, dovunque essa sia, sapremo che senza di noi immersi pienamente in questo luogo, il Mondo stesso non ha luogo… dunque «non ha luogo». Questo «qui ed ora» è dunque in ogni situazione piena della consapevolezza e della pienezza del nostro esserci, così come ogni giorno è quello del Giudizio. E dove viene esaltato questo passaggio di-verso è presente la conoscenza misterica, da Parmenide a Nietzsche, poiché testimonia ciò che non appartiene alla rappresentazione, all’apparenza, ma ha la natura stessa della realtà. Un esempio concreto è quello del Cammino di Santiago di Compostela, e più in generale di tutti i Cammini intrapresi al medesimo scopo.
La Strada Sacra è allora davanti a noi come una corda sospesa sull’abisso della scissione: scrutarlo mentre camminiamo verso la nostra Eleusi significa ri-conoscerci in ciò che abbiamo rimosso, renderci a noi stessi ed alla Vita che ci sostiene, liberarci dallo stato di semi-umani dominati dalla nostra stessa dis-umanità: in altri termini, come nella natura di ogni iniziazione, vuol dire re-esistere. La re-esistenza è allora questa restituzione del nostro Io all’anima mundi; un atto consapevole, animato da una pratica di conversione spirituale che porta ad effetto la possibilità di vivere le indefinite e sottili connessioni che ci inseriscono nella trama del Cosmo.
Ciò che incontriamo sul cammino verso Eleusi ci insegna che nessuna di queste relazioni dev’essere recisa, perché ogni radice troncata o dimenticata ci si rivolta infine contro, avvolgendoci in una stretta della quale diventiamo schiavi. Per essere chiari: non è forse altro il panico, latente o manifesto nei suoi attacchi, che la voce del grande dio Pan quando, non potendo più sussurrarci di rispettare le compatibilità tra noi e ciò che esso rappresenta, è costretto a bloccarci affinché ci asteniamo dal fargli e farci ancora del male? In questa veritiera prospettiva la voce del Covid ci lancia lo stesso terribile messaggio.
In compagnia degli dei
Eleusi è anche la patria degli Dei; sì, è vero che gli Dei «sono noi»: se osserviamo il Pantheon classico ci accorgiamo subito come esso rifletta il polimorfismo della psiche umana, archetipizzata sotto forma divina, poiché «noi possiamo solo fare nel tempo quello che gli Dei fanno nell’eternità» ci ricorda J. Hillman. Ma, ancora una volta, non ascoltando più le loro voci, che sono le nostre, abbiamo commesso un tragico errore, fonte di molti altri che ci hanno portato a perdere il cammino verso Eleusi: pensare che il movimento mitologico fosse discendente, cioè dagli Dei agli uomini, che essi fossero insomma una mera antropomorfizzazione del numinoso. No, ci dice Eleusi: il senso è invero ascendente, essi sono ciò che noi potremmo essere, uno specchio delle nostre potenzialità ascensionali, i custodi delle «acque superiori», non i produttori degli stagni inquinati.
Fratellanza e Manifestazione
Questo significa riconoscere che non possiamo percorrere la strada verso Eleusi da soli. Anche se il cammino è per sua natura personale, è altresì vero che c’è bisogno di una guida ed anche delle giuste compagnie. Non a caso ogni anno erano centinaia le persone che si muovevano verso il santuario eleusino, e la prima parte della strada era percorribile da tutti, iniziandi, iniziati, e non. Questa componente del corteo sacro è sempre rimasta in ombra, misconosciuta o interpretata dai mitografi come semplice corollario scenografico; in realtà la fratellanza tra animato ed inanimato, visibile ed invisibile, che questa prima parte del corteo esprimeva, era fondamentale per consentire agli iniziandi di proseguire la strada. La musica ed i canti, le danze, ma anche la voce degli animale e la fragranza delle piante, rappresentavano il Tutto che accompagna e contiene la vita: le voci delle Muse e della loro madre, la Memoria, simbolo della comune appartenenza di uomini e cose.
In realtà, se per un momento viaggiamo nello spazio e ci rechiamo presso alcuni popoli ancora legati alle tradizioni, vediamo che la pratica del totemismo è precisamente quella che avveniva nel corteo verso Eleusi. In processione non c’erano solo gli uomini, ma tutte le espressioni della Natura, a significare che la visione era possibile solo se il cammino veniva fatto insieme a tutte le altre forme della Manifestazione. È proprio la fratellanza tra tutte le forme del vivente allora, intesa come intersezione tra questi livelli, che dovrebbe fondare una visione che rende armonica al resto del Mondo la nostra stessa ricerca interiore dato che, alla fine, sarà proprio questo senso di comune provenienza, e dunque di destino, a farci vivere nell’intimo della nostra vita spirituale l’esperienza della comunione con il Principio: il segreto di Eleusi.
L’enigma della Sfinge
Il cammino verso Eleusi ci pone dunque una sfida: per rispondere alle angustie della modernità abbiamo bisogno di rispondere nuovamente all’enigma della Sfinge, ma in un altro modo, con un nuovo sguardo. E allora, dobbiamo intendere la domanda della Sfinge in questi termini: chi è un uomo che può riconoscersi nel Mondo, e «chi è» un Mondo che può riconoscersi nell’umanità? Per ritrovare la Strada Sacra dobbiamo fare in modo che la nostra risposta sia in armonia col modo in cui gestiamo la nostra vita, e ciò dovrebbe a sua volta essere in armonia con il funzionamento effettivo dei sistemi viventi: ciò che noi chiediamo di essere dovrebbe essere compatibile con ciò che chiediamo di essere al Mondo intorno a noi. Senza questo intento la Strada Sacra perde di senso, non «ha senso», e noi neppure.
Il Manifesto/Alias – 20 febbraio 2021
mercoledì 10 febbraio 2021
Per l'approvazione definitiva della legge Zan contro ogni forma di discriminazione sessuale. Appello della filosofa Nicla Vassallo
Riceviamo e volentieri rilanciamo.
Nicla Vassallo (https://niclavassallo.net/), nota filosofa della scienza, associata Isem/Cnr per i Gender Studies, da sempre impegnata a favore dei diritti umani e civili ha lanciato una petizione, indirizzata al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al Senato della Repubblica, per la richiesta dell’approvazione definitiva della legge Zan ed altri.
Nicla Vassallo: «Sto scrivendo un saggio filosofico sul lesbismo. Siamo tra i paesi più omofobi, agghiacciante: http://www.wequal.it/2020/05/18/classifica-dei-paesi-piu-omofobi-deuropa-litalia-e-35-su-49/ Siamo fuori dell’Europa. La nostra attuale Presidente del Senato: Maria Elisabetta Alberti, coniugata Casellati, in Senato nel 2003: “L’Italia è piena di figli dell'eterologa perché frutto del rapporto di una donna col lattaio di turno”. L’avvocato è autrice di Indissolubilità e unità dell'istituto naturale del matrimonio canonico, Cedam 1984. Il matrimonio sarebbe un istituto naturale? Non scherziamo. È un contratto, a cui debbono aver accesso anche le persone omosessuali. (cfr. Il matrimonio omosessuale è contro natura: Falso!, Laterza 2015). Che fare se non mobilitare la cultura in ogni senso del termine, in un momento in cui l’Italia necessita di conoscenze e competenze? Il primo firmatario sarebbe stato il mio amico Stefano Rodotà. Altro primo firmatario, sempre grande amico, per sempre, Carlo Bernardini. Tra l’altro, ricordo bene cosa Carlo pensava e pensa della/sulla natura. Chi altri, se non i fisici, illuminati e impegnati, sulla natura e le sue leggi? Un’osservazione: nel farsi promotrice/promotore di una petizione seria si corrono rischi, con insulti e aggressioni, ormai desolatamente all’ordine del giorno. E, per di più, le cocenti delusioni non mancano: si fa innanzitutto partecipi dell’iniziativa amiche e amici, nonché delle proprie prese di posizione. C’è chi risponde: no grazie, non firmo petizioni, il che è comprensibile. C’è chi, invece, non solo non firma, ma non mi racconta neanche il perché. E troppo indaffarato? Oppure è veniale, e giudica che metterci la “faccia” a favore di diritti umani e civili sia superfluo? Costoro commettono un peccato veniale, meglio mortale. Amiche e amici, i miei, altrove».
Alla petizione, per ora, hanno aderito, tra le altre e gli altri:
il filosofo Massimo Cacciari
la giornalista Anna Longo
l’attrice Lella Costa
l’attrice Carla Signoris
la giurista Eva Cantarella
il sociologo Marzio Barbagli
la politica Maria Antonietta Coscioni
lo psicologo Cristiano Castelfranchi
il filosofo Umberto Curi
la filosofa Michela Marzano
il fisico Alberto Diaspro
il filosofo Massimo Donà
il giurista Paolo Comanducci
l’imprenditrice Chicca Olivetti
il filosofo Marco Santambrogio
la filosofa Lia Formigari
l’accademico della Crusca Vittorio Coletti
il fisico e politico Giovanni Bachelet
la filosofa Nadia Urbinati
il biologo CarloAlberto Redi
il filosofo Giacomo Marramao
Tra gli stranieri:
Peter Bauman (Usa)
Stephanie Kapusta (Canada)
Facundo Bey (Argentina)
Thomas Mauntner (Australia)
Daniel Vanello (UK)
1921-2021. Il PCI e i consigli operai dell'autunno caldo. Un incontro mancato
Luciana Castellina
Il Partito-Paese, e le riserve inesplorate del genoma Gramsci
Mi chiedo: ma c’è in Italia un altro partito oltre al Pci che per un suo anniversario – 100 anni certo è un secolo, ma anche 50 o 20 sono di solito occasione di celebrazione – sia mai stato ricordato così coralmente da tutti i possibili media: tv, radio, quotidiani, settimanali, riviste, e non solo italiane viste le interviste richieste dall’estero; e poi istituti storici e non storici, circoli, reti, centri, e non so quant’altro? Già questo mi pare basti a dire molto su questo partito, non c’è bisogno di saggi di esperti.
La migliore fra le succinte spiegazioni che del fenomeno è stata data resta per me quella che, dopo aver indagato nel nostro paese di cui era molto curioso, ebbe a dare Jan Paul Sartre: «Adesso ho capito – disse – il Pci è l’Italia!». Voleva dire che questo partito non era una avanguardia separata, ma un corpo impastato con lo stesso sangue, le stesse emozioni, comportamenti, ricordi, del popolo italiano. Non un organismo estraneo.
Non però, intendiamoci, il «popolo» di per sé – come piacerebbe a quelli, non pochi, che negli ultimi anni si sono innamorati di un c.d. «populismo di sinistra». Perché quella coincidenza fra paese e partito, non era stabilita a partire dal nome di un leader cui ci si affida, ma, tutt’al contrario, di un partito militante, e dunque un organismo collettivo che quel popolo aveva aiutato a trasformarsi da suddito a cittadino, a soggetto orgoglioso del suo ruolo, perché si sentiva parte di un grande movimento che stava trasformando il mondo.
Non sono parole, badate. Se ripenso a questo partito nella mia città, Roma, e parlo dunque a partire da un’esperienza reale e non per indottrinamento, ricordo tutt’ora con emozione quel sottoproletariato borgataro che via via imparava a farsi valere, diventava cosciente. E fiero. Ma, del resto, se ripensate a tanti scritti di Pasolini, o ai film neorealisti dell’inizio degli anni ’50, o, ancora, alle pieces di Ascanio Celestini, non trovate forse sempre uno di questi/e popolane alle prese con la miseria, che tiene riposta fra le proprie cose preziose la tessera del Pci? E fra loro, tante donne.
Per questo quel partito raggiunse una cifra di iscritti – 2 milioni – unica in Occidente, per questo seppe reggere alle intimidazioni, discriminazioni, scomuniche, repressione che caratterizzarono la bieca stagione della guerra fredda.
Sono state illusioni?
Erano speranze che si cercava di tradurre in realtà, e non è vero
che, ahimè, poi tutto è finito in nulla: senza quella soggettività
che produceva quell’impegno non si sarebbero ottenute, pur
dall’opposizione, tutte le migliori riforme conquistate nel nostro
paese.
Ed è per questo che quando mi chiedono perché, a 100 anni
dalla nascita del Pci, mi dico ancora comunista, rispondo:
innanzitutto per via della storia dei comunisti italiani, entro cui
metto naturalmente anche i comunisti del Manifesto e del Pdup, che ne
hanno costituito un arricchimento.
Nonostante errori anche gravi, sono stati i soli che hanno cercato di avviare quel lungo processo che avrebbe potuto portare anche in Occidente alla costruzione di una società alternativa.
Non ci siamo riusciti, la sinistra è oggi in Italia in condizione desolante, lo so. La più grave: celebriamo 100 anni della nascita di un partito che è morto già da 30.La prima cosa che dunque in questo centenario dovremmo fare è impegnarci a condurre quella riflessione critica collettiva (per evitare autoindulgenze) sempre annunciata e poi mai fatta davvero.
Non comincerò certo con un articolo di quotidiano, ovviamente. Poiché, come era naturale, questa celebrazione ha però riproposto l’interrogativo di sempre – cosa è ancora valido della esperienza del Pci – anche io, come tutti, mi sento obbligata a dare una risposta ai ragazzi che, pur perlopiù consapevoli dell’importanza storica di questo partito, pensano non abbia più niente di utile da insegnarci. Anche per dare questa risposta servirebbe in realtà una riflessione approfondita ma una cosa a me pare possa esser detta senza rischio di sbagliare: mettete finalmente, pienamente a frutto il «genoma Gramsci» che finora ci ha protetto ma ha ancora riserve inesplorate da sfruttare.
Soprattutto su due questioni. La prima, la sua idea di partito, l’ipotesi che finalmente consentirebbe di superare la diatriba fra chi sostiene la necessità di farne lo strumento che, dall’esterno, porta la coscienza, e chi vuole invece affidarsi alla spontaneità del movimento. E cioè l’idea gramsciana del partito come «intellettuale collettivo», impegnato a ridurre via via la distanza fra dirigenti e diretti, e che la coscienza la costruisce insieme. Se gli iscritti al Pci sono così a lungo stati partecipi in prima persona della vita politica del nostro paese è perché, almeno in parte, e pur nelle condizioni primitive del dopoguerra, su questo progetto si è lavorato.
E serve ancora Gramsci per quanto egli stesso, e con lui tutto il gruppo giovanissimo dell’Ordine Nuovo, portarono avanti nella pratica concreta della Torino operaia del primo dopoguerra, dove cercarono di sperimentare le ipotesi consiliari che non erano state solo teorizzate da correnti minoritarie del movimento operaio, ma da Lenin stesso (per esempio in Stato e Rivoluzione). Costruire cioè, accanto ad altre forme organizzate di democrazia – oggi diremmo il modello di democrazia rappresentativa – forme di democrazia diretta, espresse dai movimenti di lotta che però si consolidano e si propongono di assumere anche la gestione diretta di pezzi della società, così via via riappropriandosi di un potere – per dirla con Lenin – «espropriato dallo Stato». Sì da costruire gli strumenti per ridurre l’autoreferenzialismo dei partiti, e l’arroganza dello Stato.
Negli straordinari primi anni del ’70, con i Consigli di fabbrica e poi di zona, è proprio questa ipotesi che fu riproposta nelle fabbriche dove la lotta aveva dato vita e vere forme di potere. Esperienze che purtroppo il Pci non capì e depotenziò, come del resto tutto fece con il ’68. Oggi quelle fabbriche non ci sono quasi più, ma ancor più feconda potrebbe essere questa ipotesi in rapporto a territori dove si intrecciano soggetti sociali frantumati e diversi, espressione di contraddizioni non omogenee. I consigli potrebbero essere organismi riunificanti, forme di organizzazione in qualche modo simili al «sindacato di strada» di cui Maurizio Landini ha parlato nel suo primo discorso da segretario generale della Cgil.
Il Manifesto (supplemento centenario del PCI), 22 gennaio 2021
1921-2021. Il Pci alla prova del '68 fra trotskisti, maoisti e movimento studentesco
Interessante
testimonianza di uno dei principali esponenti dll'entrismo trotskista
nel PCI, convertitosi poi nel '68 al maoismo.
Augusto Illuminati
Per il periodo su cui posso testimoniare, fra iscrizione e radiazione (1958-1966), il Pci era un partito dove si poteva discutere liberamente e si imparavano un sacco di cose, dove erano legittime diversità di opinione che assomigliavano a correnti fluide (non organizzate) e fuori del quale, fuori a sinistra intendo, non esisteva oppure appena cominciava a esistere uno spazio alternativo di riflessione e di azione politica.
Certo, sussistevano al suo esterno gli anarchici e formazioni residuali del dibattito della III Internazionale, i bordighisti, Lotta Comunista e soprattutto i troskisti della IV Internazionale, che peraltro aveva scelto una tattica «entrista», cioè di reclutare quadri all’interno del Pci e di organizzarvi una tendenza di sinistra, riducendo al minimo una loro presenza autonoma. Dal 1962 si aggiungono vari gruppi filo-cinesi e filo-albanesi, che in genere adottano una forma partito concorrenziale ed esterna rispetto al Pci, in alcuni casi appoggiandone qualche candidato alle elezioni. Ma solo con i Quaderni Rossi nasce una generazione nuova con un’ideologia operaista inedita rispetto al mosaico della Terza Internazionale e del conflitto sino-sovietico e un lavoro sindacale e culturale diretto, che non passava in genere attraverso gli strumenti e le strutture Pci-Cgil.
Scelte radicali
Tuttavia fino all’inverno 1967-1968 movimenti di massa di sinistra fuori del perimetro Pci erano scarsi e quindi la difesa di quel perimetro contro infiltrazioni entriste era sufficiente e non implicava una riduzione della discussione interna e del gioco ben regolamentato delle correnti informali (gli sconfitti dell’VIII Congresso stalinisti e secchiani, gli amendoliani e gli ingraiani).
Tutto cambia con la marea sessantottina, che naturalmente si interseca, a livello di attivisti, con i quadri operaisti emergenti, con i filo-cinesi fautori della Rivoluzione Culturale, con la diaspora dei trotskisti entristi di Roma e Milano che, cacciati o meno, passano dal Pci al movimentismo. Soprattutto cambia la base di riferimento, che non sono più gli iscritti al Pci e al sindacato ma nuovi strati studenteschi e di operai-massa. A questo punto il nucleo più radicale della corrente ingraiana, che aveva pubblicato il manifesto mensile fuori dalla stampa Pci e come interfaccia con i movimenti, diventa insopportabile e viene radiato nel 1969.
Il Pci, a differenza dei cugini francesi, continua a confrontarsi con i movimenti, ma richiudendosi nella sua identità di partito centralizzato e in una strategia riformista.
In realtà il difficile rapporto con i movimenti, che cominciano a loro volta a darsi forma di gruppi strutturati, segna un duplice collasso storico per la forma-partito: il Pci la perde progressivamente (fino all’inconsistenza attuale), i gruppi non riescono a raggiungerla e cercano di elaborare un’alternativa che però fallisce, arenandosi in esperienze perdenti sia di tipo elettorale che di lotta armata.
Lo scontro con il Pci, a quel punto, diventa feroce culminando nel 1977, che segna allo stesso tempo l’inizio della fine per i movimenti (armati e no) e l’integrazione del Pci, attraverso il compromesso storico, con la classe dominante e le politiche di austerità – operazione fruttuosa a breve-media scadenza, rovinosa a fine millennio. Naturalmente si tratta di episodi locali iscritti in un ciclo mondiale di passaggio al neo-liberalismo e di crisi generale del campo «socialista» e dell’esperienza alternativa cinese.
Il 1968 fu l’anno chiave dell’idillio fra Movimenti e Partito e l’incontro fra Longo e alcuni attivisti romani diede un segnale promettente, che tuttavia «non fece presa» per usare una celebre metafora althusseriana sui cortei operai e studenteschi del maggio 1968.
Strategie della crisi
Il Partito ascoltava le istanze dei movimenti nella speranza di fagocitarli e irrobustirsi con nuovi aderenti e nuove idee. I Movimenti si cullarono nell’illusione di poter trascinare le masse del Pci sulla loro onda. Entrambi avevano buone ragioni e possibilità ma la divaricazione diventò inevitabile quando i movimenti cominciarono a elaborare una loro strategia che, per quanto confusa, oltrepassava l’ideologia del «partito nuovo» togliattiano e dei suoi meno vigorosi eredi. Il settarismo, sempre implicito in fasi di rottura e mobilitazione tumultuosa, fece il resto.
In fondo – diciamolo con il dovuto distacco archeologico – si consumò nel decennio 1968-1978, sotto le apparenze di un trionfo parallelo del riformismo e dell’insurrezione, una crisi radicale della forma partito e del progetto di rivoluzione. Una crisi in cui ci dibattiamo da anni, ben prima del crepuscolo covidico dell’epoca presente.
Il comunismo resta l’unico orizzonte possibile, ma gli arnesi di cui abbiamo disposto non sembrano utilizzabili, anche se le esperienze di lotta successive al decennio magico qualche indicazione, malgrado tutto, possono darla, diversamente dalla lenta corruzione del corpo picista e delle sue metamorfosi politiche e denominative.
Il manifesto (supplemento per il centenario del PCI), 22 gennaio 2021
lunedì 8 febbraio 2021
2021 TRIBALEGLOBALE : PADRONI DI NIENTE
Riceviamo e volentieri rilanciamo il progetto per il 2021 di TRIBALEGLOBALE. Vi invitiamo a visitare le pagine del sito e appena possibile di farci un salto di persona. Non ve ne pentirete.
2021 TRIBALEGLOBALE : PADRONI DI NIENTE
http://www.tribaleglobale.it
Dobbiamo un gigantesco grazie a Fiorella Mannoia, che ci ha consentito di usare la sua splendida lirica “PADRONI DI NIENTE” come dichiarazione di intenti di quest’anno.
Reset, restart.. Questo era l’incipit di tribaleglobale 2020. E lo abbiamo fatto..abbiamo resettato, siamo ripartiti… Abbiamo messo ordine nelle nostre risorse concrete e intellettuali pronti per nuovi viaggi. Immaginando Tribaleglobale come un antico Leudo, lo abbiamo tirato in secca, abbiamo calafatato lo scafo, riarmato le vele. Il nostro vascello infatti si muove con ciò che la natura ci offre, tentando di governare i venti più impetuosi. La stiva è piena e ben organizzata. con le opere d’arte che abbiamo a disposizione, organizzate per materia e forme.
Cliccando qui troverete le opere bidimensionali ( tessili e dipinti) https://www.flickr.com/photos/tribaleglobale/collections/72157718102919706/
Cliccando qui le sculture e le maschere https://www.flickr.com/photos/tribaleglobale/collections/72157718105519123/
Cliccando qui https://www.flickr.com/photos/tribaleglobale/collections/72157660185347640/ troverete le opere di arte moderna e contemporanea,
Sono visibili a Onzo, presso la Casa degli Artisti, e nel presidio Genovese di Palazzo Imperiale.
Cliccando qui https://www.flickr.com/photos/tribaleglobale/collections/72157716739318767/ troverete la nostra Biblioteca, visitabile a Onzo ma disponibile per una consultazione virtuale su semplice richiesta.
Cliccando qui http://www.tribaleglobale.it/chisiamo/chisiamo.htm troverete anche tutte le informazioni su ciò che siamo e su quello che abbiamo fatto in sedici anni di perigliosa navigazione, dal British Museum alla Biennale di Venezia fino agli eventi di Onzo..
L’equipaggio resiste, “compagnia picciola” che non ci abbandona e che cresce lentamente, nesorabilmente.. E la rotta? Sempre verso casa...attraversando il mondo.
Pandemia permettendo andremo in Sardegna per sentire suonare le pietre di Pinuccio Sciola, tra l’Eritrea e il Sudan sulle tracce dei Rasciaida, torneremo in Nepal a “cercare il divino che c’è in noi”…
Sara comunque l’anno del MAP, il Museo Nomade di Arti Primarie. Tireremo fuori il museo che teniamo nelle casse, per condividerne l’energia vitale. Perché L'arte si fa , si gode, a volte si subisce ma non si possiede. Si possono possedere opere d'arte, ma in qualche modo è immorale perché è come possedere del cibo non condiviso, o meglio accumulare nutrimento che non viene condiviso . E questo nutrimento noi vogliamo condividerlo, convinti come Fiorella Mannoia che siamo PADRONI DI NIENTE. Con un po’ di fortuna troveremo nuovi approdi, sia temporanei che stabili, sia vicini che lontani.
Giuliano Arnaldi, Direttore di Fondazione Tribaleglobale.
sabato 6 febbraio 2021
Ricordo di Claudio Parrotta
Ricordo di Claudio Parrotta
Ho conosciuto Claudio cinquant'anni fa. Giovane operaio, affascinato dal maoismo, ma in cerca di una sua strada. Aveva voglia di fare, ma soprattutto di capire cosa fosse più utile alla lotta per una società più giusta e libera. Questa ricerca lo ha portato a Lotta comunista e alla militanza di una vita condotta con serietà e dedizione assoluta.
Erano uomini come lui, quegli ouvriers francesi di cui Marx ha lasciato un ritratto indelebile in un suo scritto giovanile:
“Quando gli operai comunisti si riuniscono, essi hanno primariamente come scopo la dottrina, la propaganda, ecc. Ma con ciò si appropriano insieme di un nuovo bisogno, del bisogno della società, e ciò che sembra un mezzo è diventato scopo. Questo movimento pratico può essere osservato nei suoi risultati più luminosi se si guarda ad una riunione di “ouvriers” socialisti francesi. Fumare, bere, mangiare ecc. non sono più puri mezzi per stare uniti, mezzi di unione. A loro basta la società, l'unione, la conversazione che questa società ha a sua volta per iscopo; la fratellanza degli uomini non è presso di loro una frase, ma una verità, e la nobiltà dell'uomo s'irradia verso di noi da quei volti induriti dal lavoro”.
Claudio è stato questo, per tutta la sua vita. Ed è con commozione profonda che lo ricordo.
Ciao, Claudio.
venerdì 5 febbraio 2021
Il Finalese visto da Anton Giulio Barrili
Iniziamo
oggi una nuova pagina: “La Liguria vista da...”. Partiamo dal
Finalese sfondo di una romanzo storico del 1875.
Il Finalese visto da Anton Giulio Barrili
Che risalga è un modo di dire, trovato da noi, i quali abbiam sempre la mente alle carte geografiche, e ci raffiguriamo il settentrione su in alto e l'ostro umilmente segnato nel basso. La strada di cui parlo era per contro ed è tuttavia in pianura, come la spiaggia che rasenta e come la valle in cui piega. Questa valle, che per amore del Medio Evo io dirò del Finaro, ma che i lettori possono, senza scrupoli di coscienza, chiamar di Finale, è stretta, ma piana, e la si abbraccia tutta quanta in un colpo d'occhio. Essa è conterminata da tre montagne; due la fiancheggiano, accompagnandola cortesemente fino al mare; un'altra la chiude a tramontana, o, per dire più veramente, la divide in convalli, dandole in tal guisa la forma di una ipsilonne, il cui piede si bagna nel Tirreno e le braccia si allungano verso il padre Appennino, che in quei pressi per l'appunto incomincia, spiccandosi dall'altura del Settepani, ultimo anello della catena delle Alpi marittime.
Nella inforcatura dell'ipsilonne (poichè ho presa a nolo questa inutilissima tra le lettere dell'alfabeto, ne spremerò tutto il sugo) si alza il monte del Castello, che ha il borgo del Finaro alle falde. Due torrenti, Aquila da levante e Calice da ponente, scendono dalle convalli, circondano il borgo, si maritano sotto le sue mura (stavo per dire sotto i suoi occhi), pigliano il nome di Pora e in un letto che è lungo un miglio, o poco più, consumano le nozze modeste, vigilate in sulla foce dalle due montagne accennate più sopra; Monticello a levante, che finisce poco lunge dalla spiaggia nei dirupi bastionati di Castelfranco, e Caprazoppa a ponente, ruvida schiena di monte che s'inarca a mezza via, indi si abbassa, si prolunga a dismisura verso mezzogiorno e coll'estremo suo ciglio si getta a piombo nel mare.
Tra questi due monti, e lungo la spiaggia, si stende ora una piccola ma ridente città, che porta il nome di Finalmarina. Al tempo di cui narro, si diceva in quella vece la Marina del Finaro e non era che un'umil terra di duecento fuochi; laddove il borgo feudale, murato in capo alla valle, ne noverava ben quattrocento, e, coronato dal suo castel Gavone, dimora e sede di giustizia ai marchesi Del Carretto, comandava su tredici borgate minori, sparsa sui greppi che gli sorgevano intorno, e per le valli che gli serpeggiavano da tergo.
La Caprazoppa, co' suoi massi enormi, sporgenti da ripide falde scarsamente vestite di umili cespugli ed erbe di facile contentatura, riceve ed ammorbidisce nella sua tinta rossigna, qua e là chiazzata d'azzurro, la vivida luce del sole.
Laggiù, in capo alla valle, il cui fondo è ancora a mezzo velato dall'ombra della costiera di Monticello, s'innalza il dorso alpestre, su cui è murato il castello Gavone, superba mole solitaria, fiancheggiata da quattro torri, che siede a custodia dei passi sottostanti. Veduto a quella distanza, così solo in mezzo alle balze digradanti, il nobile edifizio 6 comanda l'ammirazione e la riverenza. Lo si direbbe un avvoltoio, posato alteramente sulla sua rupe, in atto di spiare intorno e meditare da qual parte abbia a calarsi veloce, per afferrar la sua preda.
Non lunge dal castello, la rupe si deprime un tal poco, indi risale, si gonfia e tondeggia in ampio dorso sassoso. È questa la roccia di Pertica, che, veduta da settentrione, apparisce dirupata, inaccessibile, come una di quelle rocche incantate che vide e ritrasse la fantasia dell'Ariosto. La vetta del monte, le bianche torri di Castel Gavone e i sottoposti declivii, risplendono al sole; il borgo del Finaro non si vede, ascoso com'è dietro un colmo di piante, ma lo s'indovina dalla merlatura di qualche torrione, o dalla guglia di qualche campanile, che sbuca dal verde.
(Da. A.G. Barrili, Castel Gavone, Milano, Fratelli Treves Editori, 1875)
martedì 2 febbraio 2021
C'era una volta il Pci...
INTRODUZIONE
di Michele Nobile
Di Roberto Massari e Piero Bernocchi sapevo già che insieme, fin dal 1967, avevano diretto un gruppo d’intervento per organizzare i lavoratori edili del più grande cantiere romano (Spinaceto) intorno a un giornale autoprodotto dagli stessi lavoratori: Avanguardia edile. E sapevo anche - avvenimento ben altrimenti noto - che una delle più importanti aperture del Pci al movimento studentesco del 1968 fu l’intervento di un rappresentante degli studenti nel tradizionale grande comizio del Primo maggio a piazza San Giovanni. Non conoscevo invece il collegamento tra i due fatti: e cioè che alcuni giorni prima, in occasione dello sciopero nazionale degli edili, grazie al lavoro di base che i nostri autori avevano svolto nella categoria e alla pressione di piazza degli stessi lavoratori, Massari aveva potuto parlare al comizio della Fillea-Cgil a Porta San Paolo a nome degli studenti che da alcuni mesi svolgevano l’intervento in vari cantieri edili della Capitale. Nel suo intervento propose che l’unità delle lotte dei lavoratori e degli studenti venisse sancita anche nel comizio dell’imminente primo maggio e grazie all’incontro poi avuto col segretario della Camera del lavoro il «miracolo» si poté realizzare per la prima e ultima volta. Era anche il periodo in cui il Pci di Luigi Longo manteneva una linea di apertura verso il movimento studentesco.
A tanti anni di distanza, qui Bernocchi scrive che quell’episodio suscitò l’impressione che tra il partito di Longo e il movimento degli studenti fosse possibile «se non un vero e proprio matrimonio, almeno un avvio di “fidanzamento”». Ma anche il fidanzamento si dimostrò impossibile: troppo forte era la contraddizione tra un movimento antiburocratico, antiautoritario, rivoluzionario negli ideali, internazionalista e critico dell’Unione Sovietica, e un partito fautore della parlamentare «via italiana al socialismo», integrato nelle istituzioni dello Stato borghese, legato alla burocrazia e alla politica estera sovietica.
Tornerò su questo episodio al fine della comparazione delle tattiche della burocrazia del Pci e della Cgil in congiunture diverse. Qui lo ricordo per un altro motivo: per indicare il punto di vista che rende possibile un libro come questo, molto ben documentato e allo stesso tempo dissacrante da sinistra dell’intera vicenda storica del Pci. È il punto di vista di chi contribuì a far nascere e crescere il movimento del 1968 nella capitale d’Italia, di chi visse da protagonista il respiro originario del più grande e radicale movimento sociale italiano del dopoguerra: un movimento che era a sua volta parte di una più ampia vicenda mondiale e che costituì la crisi più profonda e pervasiva dell’imperialismo nella seconda metà del Novecento secondo dopoguerra, sconvolse le società «opulente» del capitalismo avanzato, contestò il dominio delle burocrazie pseudosocialiste. Movimento sociale, sottolineo, da distinguere dal ruolo nefasto che in esso ebbero gruppi e partitini.
Lo spirito del movimento del 1968 è stato travolto dalla restaurazione capitalistica, ma i suoi ideali di rivoluzione sociale - egualitari, internazionalisti, di liberazione della sessualità e della creatività, di democrazia diretta e diffusa – dovrebbero ancora essere la stella polare di chi pensa di poter cambiare il mondo e la vita. Tra coloro che di quel movimento furono veramente militanti con un ruolo di direzione, pur con la maturazione occorsa nei decenni, gli autori sono tra i pochissimi che hanno mantenuto quello spirito, che li accomuna oltre le differenze dei personali percorsi politici. E che essi siano ancora in grado di operare insieme, ancora e sempre in una prospettiva rivoluzionaria, a più di mezzo secolo dal ‘68, mi sembra un elemento essenziale da premettere alla lettura delle pagine che seguono: «miracoli» di questo genere non se ne vedono facilmente.
Enfatizzo il punto perché in questa, come in tutte le ricostruzioni storiografiche e nelle opere delle scienze sociali, si pone il problema del rapporto tra fatti e valori, oggettività e soggettività, descrizione e valutazione. Conosciamo il più tradizionale degli approcci, che separa nettamente quei termini, ipotizzando una conoscenza pura e oggettiva del tutto sottratta all’influenza dei valori e del quadro sociale; e conosciamo anche l’ultrarelativistico rovesciamento postmoderno della relazione tra fatti e valori, opposto speculare del positivismo.
E sappiamo anche dell’imprescindibile necessità che nel passato hanno avuto le burocrazie «socialiste» e «comuniste» di trasfigurare la propria storia, d’occultare determinati fatti, di inventarne altri perché il fine giustificherebbe qualsiasi mezzo o perché, si dice, non esistevano alternative. La burocrazia è per natura nemica della trasparenza e questo è stato vero specialmente per la burocrazia «comunista», cioè staliniana, e per i suoi cosiddetti «intellettuali organici», adepti della categoria sociale-politica per cui era abissale la distanza tra il fine ultimo con cui si pretende di legittimare la propria esistenza e la realtà della pratica.
Ebbene, senza addentrarsi ulteriormente in un discorso epistemologico, i nostri autori possono dire la verità sulla storia del più grande partito comunista del mondo detto «occidentale» e farne una critica da sinistra proprio grazie allo spirito del 1968 che, come fenomeno mondiale e nelle sue tante sfaccettature, veramente mosse contro il dominio, lo sfruttamento e il conformismo, sia nei più avanzati Paesi liberaldemocratici sia in quelle dittature totalitarie che si dicevano «socialiste».
Non senza illusioni e ingenuità, i movimenti del 1968 tentarono di ricomporre la dicotomia tra l’ideale e la pratica, di essere a tutti gli effetti «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente». Ed è proprio con quello spirito che non si può aver timore di dire la verità sull’insieme della storia del Pci: quel tipo di esperienza personale e rivoluzionaria non solo rende possibile vederla e dirla, la verità, ma permette di coglierne la logica intrinseca che la lega agli avvenimenti. A chi non conosce a fondo la storia del Pci e del comunismo internazionale, tanto più se di questa ha una visione mitica e nostalgica, il libro risulterà sconvolgente e scorretto. Eppure, tutti i fatti narrati da Bernocchi e Massari sono noti e da tempo ben documentati, in alcuni casi, malgrado reticenze ed eufemismi, perfino nella tarda storiografia ufficiale del Pci, di cui Paolo Spriano fu il massimo e migliore esponente.
Gli autori non fanno scoperte (pur avendo in passato contribuito ad altri lavori a carattere storiografico, oltre ad aver vissuto direttamente certi fatti narrati). L’originalità e l’interesse del libro, come detto, risiede nel punto di vista che rende possibile dire la verità e mostrare la logica del percorso storico del Pci.
Sconvolgente dovrebbe essere apprendere che Palmiro Togliatti, detto «il Migliore», segretario del Pci dal 1926 alla morte nel 1964, fu complice o responsabile della deportazione e della morte di diverse centinaia di militanti antifascisti italiani che s’erano rifugiati nella «patria socialista»; sconvolgente dovrebbe essere apprendere che lo stesso, in qualità di membro dell’Esecutivo dell’Internazionale comunista e responsabile per l’Europa centro-occidentale, fu corresponsabile dello sterminio, di quadri e militanti dei partiti comunisti di Polonia, dell’Ucraina Occidentale e della Bielorussia occidentale (queste ultime allora parti dello Stato polacco): le stime oscillano ampiamente, ma probabilmente è nell’ordine di almeno 2.000 persone: una goccia rispetto alle feroci «purghe» staliniane del 1937-8 (oltre 780mila soltanto le esecuzioni, senza contare le deportazioni). E in quanto rappresentante del Comintern in Spagna, Togliatti fu pure politicamente responsabile dell’eliminazione fisica di combattenti e dirigenti rivoluzionari, anarchici come Camillo Berneri e Andreu Nin del Poum (partito marxista indipendente da Mosca), del disarmo violento delle milizie anarchiche e poumiste, dell’attacco alle forme di potere popolare in Catalogna e in Aragona. Così gli stalinisti - di cui Togliatti era a capo su incarico sovietico - portarono certamente un colpo mortale al processo rivoluzionario spagnolo, indebolirono la resistenza su quei fronti e di fatto contribuirono alla vittoria dei franchisti, spalleggiati a loro volta da Hitler e Mussolini.
E ancora: come testimonia pure Umberto Terracini (per questo segretamente espulso dal Pci per essersi opposto, ma riammesso nel 1943), Togliatti e la direzione del Pci sostennero con l’ipocrita convinzione allora d’obbligo, il più straordinario voltafaccia di Stalin: il Patto di non-aggressione (in realtà poco meno di un’alleanza) con la Germania nazista, in vigore dal 23 agosto 1939 al 22 giugno 1941, giorno dell’invasione hitleriana dell’Unione sovietica.
Personalmente lo considero il supremo crimine politico di Stalin e del regime sovietico nei confronti dell’umanità e della causa del comunismo, che presuppone tutti gli altri crimini staliniani ma che tutti li supera per gli effetti immediati che ebbe sulla storia mondiale, rendendo possibile l’aggressione nazista alla Polonia (e due settimane dopo quella sovietica, concordata con Berlino) e lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Paradossalmente ma comprensibilmente, per tanti militanti comunisti l’invasione nazista dell’Unione sovietica nel giugno 1941 fu la liberazione da una posizione moralmente e politicamente insostenibile, un oltraggio a chi già combatteva la barbarie.
2. Che almeno fino agli anni Settanta la vicenda storica del Pci sia strettamente intrecciata alla politica estera sovietica, con il primo in posizione subordinata, è fuori discussione. Anche il compromesso storico da metà di quel decennio non avrebbe potuto darsi senza la distensione tra Unione Sovietica e Stati Uniti; e il legame tra le due storie è dimostrato pure dalla concomitanza del processo di fine del blocco sovietico e del partito italiano benché, a quel punto, la prima non fosse che l’occasione, non la causa, della seconda.
La storia dello stalinismo sovietico e internazionale è caratterizzata da «svolte» brusche e contraddittorie. Ad esempio, nei primi anni Trenta l’Internazionale comunista operò una svolta avventuristica e ultrasinistra per cui i socialdemocratici divennero «socialfascisti», nemici più infidi e pericolosi del nazismo, con disastrose conseguenze sia in Germania che per i comunisti italiani. A questa si suole contrapporre la svolta successiva, per cui i socialisti tornarono ad essere compagni e i partiti comunisti collaboravano con i partiti borghesi detti progressisti e antifascisti, nel quadro della politica di «sicurezza internazionale» nella Lega delle nazioni. A questa seguì però il Patto di non-aggressione tra Germania nazista e Unione Sovietica, che obiettivamente e istantaneamente, tra l’agosto 1939 e il giugno 1941 trasformò la percezione mondiale dei comunisti: da acerrimi nemici del nazismo a collaborazionisti del regime hitleriano avviato alla conquista dell’Europa. E poi, dopo l’aggressione nazista all’Unione Sovietica, si tornò ai fronti popolari, alla collaborazione con i partiti antifascisti e al contenimento della lotta di classe entro i limiti democratico-borghesi della liberazione dalle forze d’occupazione della Germania nazista e della fine del fascismo.
Risultati di questo frontismo furono la nuova Repubblica parlamentare italiana e la Costituzione democratica; nello stesso tempo, però, il frontismo consentì che tra il regime fascista e quello repubblicano vi fosse continuità di apparati istituzionali, poliziotti, magistrati, alti burocrati e leggi. In altri termini, assicurò la continuità strutturale dello Stato capitalistico e del capitalismo nazionale. Non fu operazione digerita tranquillamente da chi aveva combattuto la Resistenza, che si aspettava una più ampia e profonda epurazione degli apparati statali e l’esproprio dei capitalisti che il fascismo avevano appoggiato e in cui avevano prosperato. Ci fu anche chi seppellì le armi e sarebbe stato ben disposto a riprenderle, o fece giustizia – o ingiustizia - a modo suo, non nel quadro di una strategia politica collettiva.
Tuttavia la grande operazione di salvaguardia del capitalismo e del suo Stato riuscì, grazie all’illusione che, in un secondo momento, il partito sarebbe stato la guida della lotta per il socialismo. È in questo dualismo temporale e nella separazione tra la lotta per obiettivi politici e socioeconomici dentro la società capitalistica e la lotta per il socialismo, che consisteva la doppiezza togliattiana e la complementarietà tra «movimentismo» - sempre tenuto sotto controllo - elettoralismo e parlamentarismo.
Si badi che questa logica non era affatto nuova. Al contrario, è in sostanza la stessa, ad esempio, del Programma di Erfurt (del 1891) della socialdemocrazia tedesca e del «Papa rosso» Karl Kautsky nei decenni precedenti il primo conflitto mondiale. La peculiarità del Pci - e degli altri partiti stalinizzati - consisteva nel fatto che il riferimento a una vera rivoluzione, quella dei soviet del 1917, e allo Stato che da essa era sorto, garantiva - o meglio: creava l’illusione - che prima o poi il partito avrebbe veramente instaurato il socialismo.
3. E come la socialdemocrazia tedesca a cavallo dei secoli XIX e XX, il Pci riuscì a creare una vasta e articolata subcultura, che nelle regioni «rosse» e nei quartieri operai era la sua grande forza. Il sostrato di questa subcultura era l’epopea della Resistenza, delle lotte operaie, bracciantili e contadine, la prospettiva della battaglia contro i monopoli, la rendita e la plutocrazia finanziaria, mentre l’alterità veniva esternamente rafforzata dalla fine dell’unità antifascista, dagli anni del manganellatore Scelba, dalla Guerra fredda e dalla indiscutibile fedeltà allo Stato sovietico.
Dove fu più forte, la subcultura «comunista» s’innestò su tradizioni locali risalenti al primo socialismo, tornate alla luce nella Resistenza e nell’epoca del «partito nuovo»; creava identità antropologiche personali e famigliari; impastava la memoria storica con i miti del partito e i riti della «democrazia progressiva» e dell’antifascismo, con le feste dell’Unità e le Case del popolo. Al di là della formale professione di fede marxista-leninista, l’atmosfera mentale nel Pci del secondo dopoguerra era quella di un partito populista (nel senso originario del termine, ben diverso dall’uso mistificante attuale), programmaticamente volto a costruire una cultura nazional-popolare.
Si guardi però l’altra faccia della medaglia: sul piano materiale o della concreta costruzione e operazione dei rapporti sociali, la subcultura «comunista» svolgeva funzioni d’integrazione sociale - o di conformismo alle aspettative dell’ambiente subculturale - e d’integrazione socio-economica, nella forma di particolari rapporti tra imprese, sindacati e istituzioni locali dei distretti industriali e delle cooperative: essa costruiva una variante locale/regionale del capitalismo italiano. E svolgeva pure funzioni d’integrazione nelle istituzioni, locali e nazionali, dello Stato capitalistico, attraverso la mobilitazione elettorale, la delega della rappresentanza al corpo degli eletti a tutti i livelli delle istituzioni, la crescita del ceto di funzionari degli apparati del partito, sindacali, cooperativi, delle associazioni. In tal modo, questa subcultura contribuiva alla riproduzione dei rapporti di produzione capitalistici e al consolidamento del nuovo Stato liberaldemocratico e capitalista italiano, ruolo già svolto dal Pci nella fase resistenziale e della Costituente. L’ossatura della subcultura «comunista» era la partecipazione politica attraverso il partito e le associazioni collaterali da esso dirette, l’orientamento alla professionalizzazione della politica (e del sindacalismo), l’enfasi sull’apparato e la diffidenza o l’aperta ostilità su quanto sfuggiva al suo controllo o fosse in contraddizione con la moralità nazional-popolare: la sfera della liberazione sessuale, ad esempio, che comprende ma supera la lotta per obiettivi d’emancipazione delle donne nel quadro democratico-borghese dei rapporti famigliari.
Sicché, in sinergia con le più ampie trasformazioni della società, paradossalmente, il successo politico, amministrativo ed economico e istituzionale del Pci minava le stesse basi ideali della propria subcultura. La costruzione e la conquista di roccaforti nella società civile e nello Stato, causa ed effetto della subcultura e della sua espressione in voti, era coerente con il cosiddetto e presunto «gramscismo togliattiano». Tuttavia, pur ammettendo le ambiguità a proposito della dicotomia guerra di posizione-guerra di movimento, per Gramsci si trattava pur sempre di acquisire posizioni di forza per affermare un’egemonia proletaria e per condurre, in termini di dottrina politico-ideologica, una «guerra di classe» contro l’ordine borghese. Al contrario, la strategia perseguita in tutto il dopoguerra, giustificata con l’interpretazione di Gramsci fornita dal togliattismo degli intellettuali di area Pci, era orientata a restaurare la collaborazione con la Democrazia cristiana, interrotta dall’avvento della Guerra fredda.
4. E tornò il momento per la collaborazione tra i due grandi partiti popolari, dopo le esplosioni del movimento studentesco del 1968 e dell’autunno caldo operaio (e non solo) del 1969. Esplosioni spontanee della conflittualità sociale che non furono merito del Pci e della Cgil, ma che gli apparati seppero utilizzare, la seconda certo meglio del primo. Fu nel momento più critico del capitalismo italiano e del sistema dei partiti, che il Pci e i sindacati confederali dimostrarono la loro utilità per fermare il processo di radicalizzazione dei lavoratori, canalizzandolo nell’alveo delle elezioni e dei contratti; nello stesso tempo, la spinta verso la democrazia diretta strutturata in organismi collettivi di lotta sociale veniva neutralizzata con nuovi istituti statali di «partecipazione» delegata: organi collegiali nelle scuole nel 1974, consigli di quartiere nel 1976.
In capo a pochi anni si ripropose la complementarietà tra «movimentismo» e istituzionalismo degli apparati della burocrazia partitica e sindacale, una dialettica che sfuggì alla comprensione dei gruppi della nuova sinistra sia neonata che nell’epoca della vecchiezza, altrimenti non sarebbe stata concepibile l’idea astrusa di poter «rifondare il comunismo» - in un solo Paese!- con gli esponenti di quelle stesse burocrazie che col comunismo avevano rotto da tempo, ammesso che vi avessero mai avuto a che fare.
Il «compromesso storico» tra Pci, Dc e Psi, lanciato da Enrico Berlinguer nel 1973, fu l’aggiornamento della strategia frontista togliattiana, la fase in cui occorreva capitalizzare sul terreno istituzionale la crisi a cavallo degli anni Sessanta Settanta. Torniamo all’episodio raccontato all’inizio di questa introduzione, per cogliere la differenza, che retrospettivamente appare come una complementarietà tra la «linea Longo» negli anni 1968-72 e il compromesso storico lanciato nel 1973 dal nuovo Segretario. A cavallo degli anni Sessanta-Settanta, per il Pci e la Cgil si trattava di porsi come mediatori tra l’esplosione della conflittualità sociale, da un lato, e lo Stato e il capitalismo italiano, dall’altro, così d’accumulare un «capitale politico» da investire nella collaborazione di classe e nelle relazioni tra i partiti: è in quel quadro che si comprende la relativa apertura al movimento studentesco del 1968, nel tentativo di smussarne la radicalità.
Nel 1976 quel «capitale politico» diede il suo frutto: il governo monocolore delle astensioni di Andreotti. Rimandando ai capitoli sul «compromesso storico» in questo volume, qui sottolineo solo alcuni aspetti per cui quell’operazione, intrapresa nel momento di massima influenza sociale del Pci e della Cgil, paradossalmente fu anche il presupposto della fine della storia del Pci e della vitalità della sua subcultura.
In primo luogo, il compromesso storico è incomprensibile al di fuori di una specifica congiuntura internazionale: che è quella della distensione delle relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica; dei crolli delle dittature europee (1974-5, Grecia, Portogallo, Spagna), durante i quali i rispettivi partiti comunisti contribuirono a prevenire che la radicalizzazione politica oltrepassasse gli argini democratico-borghesi; dell’eurocomunismo, cioè dell’effimera convergenza dei progetti nazionali di alcuni partiti comunisti intorno a una relativa autonomizzazione dall’Unione Sovietica, di cui fu massima espressione la rinuncia del Pci a battersi per l’uscita dell’Italia dalla Nato, dichiarata da Berlinguer in un’intervista nel giugno 1976. E tuttavia, quando la distensione Stati Uniti-Unione Sovietica entrò in agonia, nel 1978 già prima della presidenza di Reagan, si esaurì anche il margine internazionale che aveva consentito al Pci d’avvicinarsi al governo nazionale.
In secondo luogo, con la linea dei «sacrifici» e dell’«austerità», il Pci e la Cgil sostituirono la retorica moralistica alla velleità di riformare e ristrutturare il capitalismo italiano intorno a un’ipotesi di programmazione economica centrata sull’industria pubblica (le scomparse «Partecipazioni statali»). In sostanza e al di là della retorica, Pci e Cgil rinunciarono anche alla pretesa di riformare il capitalismo italiano. In cambio di vaghe promesse sulla riduzione della disoccupazione (in particolare giovanile), si adattarono al «capitalismo realmente esistente», alle esigenze della produttività, alla compressione del salario reale attraverso le misure fiscali governative, all’inizio della ristrutturazione gestita dal padronato.
Nello stesso tempo, il Pci fece del suo meglio per accreditare il «rinnovamento» della Dc, nonostante la serie di scandali che giunsero fino a coinvolgere la democristiana Presidenza della Repubblica. Questi furono i presupposti dell’attacco che il padronato lanciò in proprio, senza più mediazioni, ai lavoratori della società emblema dell’industria del sindacalismo italiano: quella stessa Fiat di Torino che era stata un primo campo di sperimentazione del compromesso storico in fabbrica. A quel punto, il «movimentismo» accennato dalla burocrazia fu impotente. Per dirla brutalmente: aveva terminato il ruolo d’utile idiota.
In terzo luogo, si consideri il test costituito dal nuovo grande movimento studentesco e giovanile del 1977, ultimo movimento di massa radicale in Italia. Esso minacciava il fragile equilibrio sociale e le ancor più fragili illusioni, su cui si basava il governo di «solidarietà nazionale». Fu per questo che, a differenza del 1968, il Pci e la Cgil s’incaricarono direttamente nella provocazione e nella vera e propria guerra senza esclusione di colpi contro quel movimento, che non va assolutamente ridotto alle iniziative avventuristiche dell’Autonomia operaia, prevaricatrici innanzitutto del movimento stesso, e men che mai al «partito armato».
Retrospettivamente, la «linea Longo» e il compromesso storico di Berlinguer vanno considerate come due tattiche diverse della medesima strategia togliattiana: l’alternanza e la complementarietà tra fasi di «movimentismo» e fasi di repressione delle avanguardie, a seconda delle congiunture, sono tipiche della logica politica della burocrazia «comunista».
5. Negli anni Settanta, così come al termine della Resistenza, il Pci era stato ancora una volta determinante nella normalizzazione dell’ordine politico e sociale. Ma la storia non si ripete. Il fallimento del compromesso storico costituì obiettivamente il definitivo fallimento della strategia togliattiana, perseguita durante tutto il dopoguerra, mirante all’effettiva integrazione del partito nello Stato capitalistico italiano, non solo a livello dei governi locali ma del governo nazionale. Tuttavia, al contrario della normalizzazione del dopoguerra, il lascito del compromesso storico non fu il consolidamento di una subcultura animata dalla speranza che il futuro sarebbe stato migliore del presente, capace d’attraversare indenne dieci inverni. Quanto nella subcultura c’era di potenzialmente antagonistico ormai era estinto o in via d’estinzione, ridotto a narrazione mitologica dei tempi eroici e a celebrazione ritualistica. Rimanevano però gli apparati e un corpo molto vasto e variegato di professionisti della politica, privi però di una credibile strategia. Fallito il consociativismo del compromesso storico e negata la possibilità d’alternanza - come dal Risorgimento in poi sempre era stato per le opposizioni - non rimaneva che l’altra possibilità tipicamente italiana, benché non esclusiva del nostro Paese: il trasformismo. Gli ultimi decenni, quelli della cosiddetta Seconda repubblica, sono stati un trionfo senza precedenti del trasformismo, non di singoli individui ma d’interi gruppi, fatto onnipervasivo. Prima di tangentopoli e del tracollo degli altri partiti della prima Repubblica, fu proprio il Pci il primo dei partiti a intraprendere la via del trasformismo, l’unica ormai praticabile per sperare di poter giungere al governo nazionale.
La fine del Pci è anche la fine del libro e l’inizio di un’altra storia, quella della postdemocrazia italiana. Occorre tuttavia cogliere il nesso che lega le due storie. Quel che era stato il «partito nuovo» aveva finito per dar vita alla rincorsa di massa delle prospettive di carriera. Ancor peggio, l’esaurimento della pluridecennale strategia di «democrazia progressiva» finì in un gigantesco contributo degli ex comunisti all’avvento della postdemocrazia in Italia, ancor prima della «discesa in campo» del Cavaliere. La postdemocrazia non è un regime illiberale, semidittatoriale o fascisteggiante. È un processo internazionale, risultato di una lunga trasformazione degli apparati statali e della politica, caratterizzato dalla concentrazione del potere nell’Esecutivo e nei vertici dei partiti, dalla trasformazione dei partiti in organi parastatali, dalla spettacolarizzazione della politica, dalla convergenza programmatica di «destra» e di «sinistra» nell’erosione dei diritti sociali in nome della competitività internazionale, delle compatibilità di bilancio e del libero mercato.
In breve, la postdemocrazia consiste nello scioglimento dell’ossimoro proprio dei regimi liberaldemocratici affermatisi dopo la Seconda guerra mondiale e nell’epoca del welfare state: vista dal lato dei sistemi di partito, è venuto meno l’elemento democratico nel senso etimologico, di rappresentanza politica degli interessi sociali minimi del popolo dei lavoratori, da parte dei partiti radicati nella storia del movimento operaio.
Retrospetivamente, la linea dell’«austerità» di Berlinguer e della Cgil durante il compromesso storico ne fu una prima, contradditoria e incompleta anticipazione. Il processo si sviluppò poi organicamente, direi dal volontario abbandono del programma tipicamente socialdemocratico con cui l’Union de la gauche di Mitterand e Marchais aveva vinto le elezioni nel 1981; e con tempi e modalità differenti tutti i partiti socialdemocratici hanno adottato gli interessi immediati del capitale, abbandonando il discorso delle riforme strutturali favorevoli ai lavoratori e della graduale evoluzione della società in direzione del socialismo. Negli anni Novanta questo nuovo orientamento venne indicato come l’ennesima «terza via» di Tony Blair, Gerhard Schröder, della Gauche plurielle di Lionel Jospin, la versione «di sinistra» del cosiddetto neoliberismo.
Paradossalmente, in Italia l’indispensabile chiave di volta per completare l’arco della postdemocrazia fu l’operazione trasformistica del Pci. Fu una fine ingloriosa ma che aveva radici profonde. Una delle condizioni perché in Italia torni a vivere la prospettiva anticapitalistica è liberarsi di quel che ne resta. E questo libro può aiutare a svolgere un tal genere di pulizia mentale.