Dai ricordi di Italo Calvino la storia di un giovane di Sanremo dal rifiuto del fascismo alla militanza partigiana.
Giorgio Amico
Italo Calvino, un
partigiano del Ponente ligure
Tutti conoscono, magari
per vaghi ricordi scolastici, Il sentiero dei nidi di ragno,
il romanzo sulla Resistenza di Italo Calvino, pochi invece sanno che
lo scrittore sanremese fu un valoroso partigiano proprio nelle zone,
l'entroterra fra Sanremo e Imperia, dove è ambientato il libro.
Eppure lo scrittore, come i liguri sempre molto restio a parlare di
sé, raccontò in diverse occasioni dell'esperienza partigiana,
considerata lo snodo fondamentale della sua vita anche letteraria:
«Sono
nato il 15 ottobre 1923 a Santiago de Las Vegas, un villaggio nei
pressi dell'Avana, dove mio padre, ligure di Sanremo, agronomo,
dirigeva una stazione sperimentale d'agricoltura, e mia madre, sarda,
botanica, era la sua assistente. Di Cuba non ricordo nulla,
purtroppo, perchè nel 1925 ero già in Italia, a Sanremo, dove mio
padre era tornato con mia madre a dirigere una stazione sperimentale
di floricultura. (…) Ho vissuto con i miei genitori a Sanremo fino
a vent'anni, in un giardino di piante rare e esotiche, e per i boschi
dell'entroterra con mio padre, vecchio instancabile cacciatore.
Arrivato all'età di entrare all'Università, mi iscrissi in agraria,
per tradizione familiare e senza vocazione, ma già avevo la testa
alle lettere. (…) Intanto era venuta l'occupazione tedesca, e,
secondando un sentimento che nutrivo fin dall'adolescenza, combattei
coi partigiani, nelle Brigate Garibaldi. La guerra partigiana si
svolgeva negli stessi boschi che mio padre m'aveva fatto conoscere
fin da ragazzo; approfondii la mia immedesimazione in quel paesaggio,
e vi ebbi la prima scoperta del lancinante mondo umano. Da
quell'esperienza nacquero, qualche mese dopo, nell'autunno del '45, i
miei primi racconti (…) [e] un romanzo ([scritto] in venti giorni,
nel dicembre '46) intitolato Il sentiero dei nidi di ragno, e così
prese forma quel mondo poetico dal quale bene o male non mi sono più
discostato di molto».
Italo
Calvino cresce in una famiglia antifascista. I genitori, entrambi
docenti universitari, sono repubblicani e mazziniani, pacifisti e,
come si diceva allora, liberi pensatori. Il loro rifiuto del regime è
netto:
«Sono
cresciuto – scrive nel 1960 - in una cittadina che era piuttosto
diversa dal resto dell'Italia, ai tempi in cui ero bambino: Sanremo,
a quel tempo ancora popolata di vecchi inglesi, granduchi russi,
gente eccentrica e cosmopolita. E la mia famiglia era piuttosto
insolita sia per Sanremo sia per l'Italia d'allora: i miei genitori
erano persone non più giovani, scienziati, adoratori della natura,
liberi pensatori, personalità diverse tra loro ed entrambe
all'opposto dal clima del paese. Mio padre, sanremese, di famiglia
mazziniana repubblicana anticlericale massonica, era stato in
gioventù anarchico kropotkiano e poi socialista riformista (…) mia
madre, sarda, di famiglia laica, era cresciuta nella religione del
dovere civile e della scienza, socialista interventista nel '15, ma
con una tenace fede pacifista. Ritornati in Italia dopo anni
all'estero mentre il fascismo stabiliva il suo potere, avevano
trovato un'Italia diversa, difficilmente comprensibile. (…) La
critica al fascismo nella mia famiglia, oltre che per la violenza,
l'incompetenza, l'ingordigia, la soppressione della libertà di
critica, l'aggressività in politica estera, si appuntava soprattutto
su due peccati capitali: l'alleanza con la monarchia e la
conciliazione col Vaticano».
Fin da bambino Italo,
sentendo i discorsi dei grandi in casa, guarda con fastidio alla
retorica e ai riti del regime: le sfilate, le divise, i canti,
l'esibizione delle armi e delle virtù guerresche. Ma questo
sentimento di rifiuto non prende immediatamente una chiara forma
politica. Lo riconoscerà lui stesso:
«Ma
non è affatto detto che per questo la mia via verso l'antifascismo
fosse segnata. Ero allora ben lontano dal prospettare la situazione
in termini politici».
Quello che cambia
radicalmente la situazione e che determina la sua definitiva scelta
di campo è la guerra:
«L'estate
in cui cominciavo a prender gusto alla giovinezza, alla società,
alle ragazze, ai libri, era il 1938: finì con Chamberlain e Hitler e
Mussolini a monaco. La «belle
époque»
della riviera era finita. Ci fu un anno di batticuore, poi la guerra
sulla Maginot, poi il crollo della Francia, l'intervento dell'Italia,
i bui anni di lutti e di disastri».
Tesserino partigiano
Il crollo del fascismo e
poi la disfatta dell'8 settembre sono il vero momento di svolta.
Anche per Calvino arriva il momento delle scelte. Quando vengono
affissi i manifesti con la chiamata alle armi della classe 1923,
Calvino non si presenta e rimane nascosto per qualche tempo sulle
colline a monte della città per poi prendere definitivamente la via
dei monti. Sono momenti difficili, non si può rimanere spettatori
inerti, occorre decidere da che parte stare:
«Al
25 luglio – ricorda - ero rimasto deluso e offeso che una tragedia
storica come il fascismo finisse con un atto d'ordinaria
amministrazione come una deliberazione del Gran Consiglio. Sognavo la
rivoluzione, la rigenerazione dell'Italia nella lotta. Dopo l'otto
settembre fu chiaro che questo vago sogno diventava realtà: e io
dovetti imparare come è difficile vivere i propri sogni ed esserne
all'altezza».
Così, assieme al
fratello, entra a far parte di una formazione partigiana stanziata
fra Baiardo e Ceriana. Poi con alcuni studenti suoi amici entra a
far parte del 16° Distaccamento della IX Brigata Garibaldi,
comandato da Bruno Luppi (Erven), nel dopoguerra insegnante a Savona,
figura importante della Resistenza. Nell'estate 1944 la situazione si
fa particolarmente dura con la battaglia di Sella Carpe durante la
quale Luppi rimane gravemente ferito e i garibaldini subiscono forti
perdite, a cui seguono violenti rastrellamenti da parte delle truppe
nazifasciste e l'incendio dei paesi di Triora e di Molini. Il 5
settembre Calvino partecipa alla difesa di Baiardo e poi il primo
ottobre 1944, entra a far parte del Distaccamento partigiano
comandato da Jaures Sughi
(Leone), formazione della Brigata Cittadina GAP “Giacomo
Matteotti”, che opera sulle colline intorno a Sanremo, a sua volta
comandata da Aldo Baggioli (Cichito). Il 15 di novembre i tedeschi
rastrellano la zona di San Romolo, a monte di Sanremo. Calvino viene
arrestato ma, per un fortuito caso, è risparmiato e, dopo tre giorni
di carcere riesce a fuggire. Subito raggiunge la V Brigata Garibaldi
“Luigi Nuvoloni” che fa parte della II Divisione “F. Cascione”.
In un suo scritto degli anni Sessanta Calvino ricorda la durezza
della lotta e la figura straordinaria della madre che esorta i figli
alla lotta incurante delle violenze naziste:
«Eravamo
nel lembo più periferico dello scacchiere resistenziale italiano,
privo di risorse naturali, di aiuti alleati, di guide politiche
autorevoli; ma esso fu uno dei focolai di lotta più accanita e
spietata per tutti i venti mesi e tra le zone che ebbero una
percentuale più alta di caduti. (…) Non posso tralasciare qui di
ricordare il posto che nell'esperienza di quei mesi ebbe mia madre,
come esempio di tenacia e di coraggio in una Resistenza intesa come
giustizia naturale e virtù familiare, quando esortava i due figli a
partecipare alla lotta armata, e nel suo comportarsi con dignità e
fermezza di fronte alle SS e ai militi, e nella lunga detenzione come
ostaggio, e quando la brigata nera per tre volte finse di fucilare
mio padre davanti ai suoi occhi».
Attestato degli Alleati
È
in questo periodo che il giovane aderisce al Partito comunista.
Un'adesione di cuore, prima che di testa, interamente fatta nel nome
di felice Cascione, u
Megu (il
dottore), creatore del canto Fischia
il vento
e figura straordinaria della Resistenza ligure.
«La
mia scelta del comunismo non fu affatto sostenuta da motivazioni
ideologiche (…) Quando seppi che il primo capo partigiano della
nostra zona, il giovane medico Felice Cascione, comunista era caduto
combattendo contro i tedeschi a Monte Alto nel febbraio 1944, chiesi
a un amico comunista di entrare nel partito. Subito fui messo in
contatto con compagni operai, ebbi compiti di organizzazione degli
studenti nel Fronte della Gioventù, e un mio scritto fu ciclostilato
e diffuso clandestinamente».
Il
10 marzo 1945 partecipa come portamunizioni all' attacco vittorioso
al presidio repubblichino di Baiardo. Ricostruirà la battaglia in un
articolo molto bello pubblicato in prima pagina sul Corriere della
Sera in occasione del 25 aprile 1974. Nei primi giorni di aprile, si
trasferisce con la Brigata al campo di lancio rifornimenti alleati,
in Pian Rosso, a monte di Viozene. Nonostante la fine della guerra
si avvicini, sono ancora giorni difficili:
«Il
fronte più vicino a noi - quello sul confine francese – non
accennava a muoversi, da otto mesi, cioè da quando la Francia era
liberata, sentivamo rombare a ovest i cannoni del fronte; da otto
mesi la libertà era a pochi chilometri da noi, ma intanto la vita
dei partigiani sulle Alpi Marittime era diventata sempre più dura
perché, come retrovia del fronte, la nostra era di importanza
vitale per i tedeschi che dovevano tenere ad ogni costo sgombre le
strade; per questo non ci hanno mai dato tregua, né noi a loro; e
per questo la nostra zona ha avuto una percentuale di caduti tra le
più alte»
Poi,
in previsione dell'insurrezione e della liberazione di Sanremo e
Ventimiglia, i partigiani scendono a Badalucco a pochi chilometri
dalla costa. Proprio lì, quasi alla vigilia della Liberazione,
Calvino rischia di essere catturato dai tedeschi:
«Ancora
negli ultimi giorni i tedeschi erano venuti di sorpresa e avevamo
avuto dei morti. Proprio pochi giorni prima andando di pattuglia era
mancato poco che cascassi nelle loro mani. L'ultimo accampamento del
nostro reparto, se ricordo bene, era tra Montalto e Badalucco: già
il fatto che fossimo scesi nella zona degli uliveti era il segnale di
una nuova stagione, dopo l'inverno nella zona dei castagni che voleva
dire la fame».
Primi articoli
Poi,
il 25 aprile, la discesa su Sanremo con la sua formazione. Sono
momenti esaltanti: dopo tante sofferenze e tanti compagni caduti, i
partigiani sono vittoriosi. Nel ricordo l'ultima battaglia diventa
quasi una festa: lo scrittore ce ne ha lasciato una descrizione
vivissima, quasi fotografica:
«C'era
stato un incendio in un bosco: ricordo la lunga fila dei partigiani
che scende tra i pini bruciati, la cenere calda sotto la suola delle
scarpe, i ceppi ancora incandescenti nella notte. Era una marcia
diversa dalle altre nella nostra vita di continui spostamenti
notturni in quei boschi. Avevamo finalmente avuto l'ordine di
scendere sulla nostra città, Sanremo; sapevamo che i tedeschi
stavano ritirandosi dalla riviera; ma non sapevamo quali caposaldi
erano ancora in mano loro. (…) Dalle parti di Poggio cominciammo a
incontrare sul margine della strada la popolazione che veniva a
vedere passare i partigiani e a farci festa. Ricordo che per primi
vidi due uomini anziani col cappello in testa che venivano avanti
chiacchierando di fatti loro come in un giorno di festa qualsiasi; ma
c'era un particolare che fino al giorno prima sarebbe stato
inconcepibile: avevano dei garofani rossi all'occhiello. Nei giorni
seguenti dovevo vedere migliaia di persone col garofano rosso
all'occhiello ma quelli erano i primi».
Oltre
che combattere il partigiano Calvino scrive su i giornali clandestini
Il Garibaldino,
La Nostra Lotta
(organo del PCI di Sanremo), poi dopo la Liberazione su La
voce della democrazia (organo del CLN di San Remo) e
sull'edizione genovese de l’ Unità. Netta la sua scelta di
campo. Alla lotta armata deve seguire una nuova battaglia per il
rinnovamento democratico e civile di un'Italia devastata dal fascismo
prima e dalla guerra poi.
«Nella
politica attiva mi trovai immerso naturalmente, alla Liberazione,
proseguendo sulla spinta della Resistenza. L'aver fatto il partigiano
apparve a me come a molti altri giovani un avvenimento irreversibile
nelle nostre vite, non una condizione temporanea come il «servizio
militare». Da quel momento in poi vedevano la nostra vita civile
come la continuazione della lotta partigiana con altri mezzi; la
disfatta militare del fascismo non era che un presupposto; l'Italia
per cui avevamo combattuto esisteva ancora solo in potenza, dovevamo
trasformarla in una realtà su tutti i piani. Qualsiasi attività
volessimo intraprendere nella vita civile e produttiva, ci pareva
naturale che fosse integrata dalla partecipazione alla vita politica,
ricevesse da essa un senso. (…) Ma per noi che vi aderimmo allora,
il comunismo non era soltanto un nodo di aspirazioni politiche: era
anche la fusione di queste con le nostre aspirazioni culturali e
letterarie. Ricordo quando, nella mia città di provincia, arrivarono
le prime copie dell' «Unità», dopo il 25 aprile. Apro l'«Unità»
di Milano: vice-direttore era Elio Vittorini. Apro l'«Unità» di
Torino: in terza pagina scriveva Cesare Pavese. Manco a farlo apposta
erano i due scrittori italiani miei preferiti, di cui nulla conoscevi
fino allora se non due loro libri e qualche loro traduzione. E ora
scoprivo che erano nel campo che anch'io avevo scelto; pensavo che
non poteva essere altrimenti. E così a scoprire che anche il pittore
Guttuso era comunista! Che era comunista anche Picasso! Quell'ideale
d'una cultura che fosse tutt'uno con la lotta politica ci si
delineava in quei giorni come una realtà naturale».
Italo Calvino in un comizio dopo la Liberazione
In
realtà le cose non erano così semplici. La ricostruzione morale e
civile del Paese si rivelò un'impresa molto più difficile e
contradditoria. Ma, nelle delusioni che pure verranno, resta intatta
la lezione fondamentale di libertà e di morale civile della
Resistenza: Una Resistenza che non è non tanto rappresentata dai
partiti quanto soprattutto dalla gente comune, uomini e donne capaci
di reagire con dignità e coraggio all'ingiustizia e all'oppressione.
Una fiducia nel popolo, nella capacità di lotta della “gente
semplice”che nulla riuscirà mai davvero a scalfire:
«Ciò
che chiamiamo Resistenza in molti casi fa parte della memoria
familiare, della storia privata prima che pubblica. Questo in qualche
misura è vero per tutte le guerre, ma lo è particolarmente in
questo caso, dove era meno netta la separazione tra combattenti e
popolazione civile, e il comportamento delle donne e degli uomini
nella vita quotidiana era il fattore decisivo, il reagire delle
persone normali a circostanze eccezionali. (…) Poi vorrei ricordare
la disponibilità che c'era ad aiutarci anche tra gente che non si
conosceva, solo per venire incontro a chi si trovava nei guai. Questa
generosità la si poteva incontrare tra la gente qualsiasi in un
tempo pieno di crudeltà e fanatismi, ed era resistenza anche quella,
un'anonima resistenza all'imbarbarimento. (…) La Resistenza si
presta male alle interpretazioni dottrinarie, la sua realtà era
piena di gente semplice e umile e oscura come gli italiani di allora
(…). Tutto il contrario di tante cose che sono venute dopo e di cui
non mi metto a fare l'elenco perchè in questo contesto non mi
sembrerebbe leale. Ma allora – mi si dirà – che cosa ha portato?
Che cosa ne è rimasto? C'è uno strato profondo della coscienza
d'una società dove si depositano lentamente la memoria delle ferite,
la capacità di sopportazione e il rifiuto dell'insopportabile, le
allergie, le adattabilità, le costanti tendenziali di lunga durata,
le capacità d'equilibrio e di ripresa, il senso di cos'è fasullo e
di cos'è vero. E' quello il fondo che si sedimenta e che rimane,
mentre tutto il resto farà il suo ciclo e andrà in polvere».
Una
fiducia che resta, a decenni di distanza, il lascito fondamentale di
un giovane partigiano diventato poi con Beppe Fenoglio, anche lui
partigiano, il più grande scrittore dell'Italia del dopoguerra.
(I Resistenti n.2/2017)