Jeronimus Bosch
Un mito “mutante”,
da sempre simbolo di passione amorosa e di cupa morte
Raffaele K. Salinari
Fragole, le lacrime di
Venere per Adone
Let me take you down –
Lascia che ti accompagni – ‘Cause I’m going to Strawberry
Fields – Perché sto andando nei Campi di Fragole – Nothing
is real – Niente è reale – And nothing to get
hungabout – E niente per cui preoccuparsi – Strawberry
Fields forever – Campi di Fragole per sempre. Living is
easy with eyes closed – Vivere è facile con gli occhi chiusi
–Misunderstanding all you see – Fraintendendo tutto ciò che
vedi – It’s getting hard to be someone – Diventa
difficile essere qualcuno – But it all works out – Ma
tutto si risolverà – It doesn’t matter much to me –
Non mi interessa molto.
La celebre canzone dei
Beatles, Strawberry Fields forever, è del 1967; scritta da
Lennon, riporta un suo ricordo infantile: un campo di fragole oltre
una vecchia sede dell’Esercito della Salvezza, in cui lui ed altri
bambini andavano a giocare senza alcuna preoccupazione, dimentichi di
se stessi e della realtà del mondo, come solo i bambini sanno fare.
Queste fragole torneranno come logo della casa editrice del giovane
protagonista di Across the Universe, il musical del 2007 con le
canzoni dei Fab4.
Ma, curiosamente,
l’atmosfera onirica e visionaria della canzone, sembra la
trasposizione in musica dell’altrettanto celebrata sequenza del
film di Bergman, Il posto delle fragole, in cui il vecchio
medico Isak Borg, oramai alla fine della vita, si lascia travolgere
dai ricordi della passata giovinezza, nel luogo in cui il suo primo
amore coglieva il dolce frutto selvatico. La scena, epitome di tutta
la pellicola, è immersa nella stessa aura di infantile onirismo,
carica di simboli impercettibili a chi non fosse in grado di
immergersi coi pensieri nella stessa atmosfera sospesa tra due mondi:
l’attuale e l’eterno.
La dinamica poetizzata
nella canzone e quella della sequenza filmica sono le stesse: il
professore si inoltra, con la giovane nuora, sulla strada che porta
alla casa dove trascorreva le vacanze da ragazzo. Capiamo subito che
è lei a spingere l’uomo verso il luogo magico: arrivati nel posto,
infatti, non lo segue, ma lo precede verso la vecchia costruzione
oramai abbandonata. Poi, ad un tratto, la nuora assume il ruolo di
ninfa marina: si allontana per fare un bagno, per tornare al suo
elemento, l’elemento onirico per eccellenza, l’acqua. Il
professore la lascia andare trasognato, annuendo con un: «abbiamo
tempo». E da quel momento si apre il Grande Tempo del ricordo, che
addensa il passato, il presente ed il futuro.
Già nella radura
antistante l’edificio oramai disabitato, avevamo visto una scala
poggiata ad un albero: ricorda curiosamente quella di Giacobbe, o
l’immagine alchemico-massonica dei gradini verso la conoscenza: la
possiamo vedere incisa alla base del Portale del Giudizio Universale
sulla Cattedrale gotica di Notre Dame di Parigi. È da quel
passaggio simbolico che la nuora-ninfa precederà il protagonista
verso «il posto delle fragole». Ma è esattamente l’entrata nel
loro posto a dissolvere la realtà del giorno, come ci dice lui
stesso, riportandolo indietro nel tempo a rivivere episodi della sua
giovinezza felice. Il vegliardo, ormai stanco e reso cinico dalla
vita, si stende per terra, accanto al cespuglio in fiore, forse per
la prima volta da tanto tempo senza pensieri assillanti, come il
Lennon bambino nel suo campo di fragole per sempre.
Tornano così le speranze
perdute, incarnate dall’immagine irreale, eppure presente, della
cugina Sara, come evocata dalla sensazione tattile che al corpo del
medico trasmettono le piccole foglie di fragola nascoste sotto l’erba
primaverile. Il filo rosso della rêverie, si snoda così
attorno alla figura della bella ragazza, intenta a raccogliere in un
paniere rustico il frutto che, più di tutti gli altri, rappresenta
il tema dell’amore. Una ninfa scompare nel presente con un tuffo
nell’acqua, ed un altra ricompare dal passato, come
fossero Pathosformelwarburghiane che si snodano
nella Mnemosyne personale ed intima dell’anziano dottore.
Il mito di Venere e Adone
La pellicola si apre con
una scena da incubo: il professore incontra lungo una strada deserta
un carro funebre, dal quale cade una bara; apertasi su selciato,
all’interno egli vede il cadavere di stesso afferrargli fermamente
la mano.
Un sogno inquietante, che
ben si collega alla natura simbolica delle fragole. Queste, infatti,
sono le lacrime di Venere che, intrise del sangue del suo amato
Adone, si trasformarono nel carminio frutto a forma di piccolo cuore.
Il mito, nelle sue varie
versioni, dispiega così la gamma evocativa della fragola, e rende
ragione della sua significanza come immagine. Le sue tonalità
simboliche, che oscillano ambiguamente tra Eros e Thanatos, derivando
tutte dal mitologema che narra della relazione tra la dea dell’amore
ed il suo efebico amante, ma anche della natura stessa di Adone.
La storia del ragazzo,
infatti, è tesa tra il buio del mondo infero e lo splendore della
natura rinata, della quale egli era un simbolo, sin dai tempi delle
religioni asiatiche, sotto forma del sumerico Tammuz.
Ritroviamo allora la sua
figura in tutto il medio oriente, e nel bacino del Mediterraneo, con
vari nomi: è, infatti, di volta in volta assimilato alla divinità
egizia Osiride, al semitico Baal Hadad, all’etrusco Atunnis,
all’anatolico Sandan, e anche al frigio Attis; tutte divinità
legate alla rinascita e alla vegetazione. Questo lo rende analogo a
Dioniso, l’archetipo della vita indistruttibile che, con Adone,
condivide i passaggi fondamentali del suo ciclo divino, in cui il
frutto della fragola riveste un ruolo simbolico affatto particolare.
Come spiega James Frazer
ne Il ramo d’oro, «il culto di Adone fu praticato dalle genti
semitiche di Babilonia e Siria e i Greci lo presero da loro agli
inizi del settimo secolo avanti Cristo. Il vero nome della divinità
era Tammuz: Adone è semplicemente il nome semiticoAdon, “signore”,
un titolo onorifico con il quale i fedeli si indirizzavano a lui.
Nella letteratura religiosa babilonese Tammuz appare come il giovane
sposo o amante di Ishtar, la grande dea madre, incarnazione delle
energie riproduttive della natura».
Ritroviamo le stesse
determinanti simboliche nell’Adone greco: egli nasce da una
relazione incestuosa tra Cinira, re di Cipro (ubriacato ed ingannato
per l’occasione dalla nutrice Ippolita), e sua figlia Mirra,
entrata in uno stato di pazzia amorosa per il padre. Il re giace con
la figlia per nove notti, credendo si tratti di una giovane che si
era invaghita di lui. Non la riconosce perché la complice nutrice
gli aveva imposto di incontrarla al buio, per non comprometterne
l’identità.
Ma la moglie del re,
insospettita dal suo comportamento, entra di notte nelle stanze del
marito ed illumina la scena. Accortasi dell’insano gesto di Cinira,
la regina Cancreide, cerca di uccidere la figlia, che viene però
trasformata da Afrodite nell’albero della mirra. La pazzia di Mirra
è stata, infatti, suscitata da Venere stessa, che voleva forse
vendicarsi di Cancreide e della figlia perché non le avevano reso
gli onori dovuti, o si vantavano di una bellezza a lei superiore o,
semplicemente, di avere capelli più affascinanti. Fatto sta che
dalla relazione incestuosa Mirra partorisce, in forma di albero, un
neonato bellissimo quanto maledetto: Adone.
Venere lo consegna a
Persefone perché lo protegga dai mali del mondo, nell’Ade. Ma
Persefone si innamora del bellissimo bimbo e, giunto all’età
pubere, lo vuole per se. Anche Afrodite lo reclama, dato che la sua
bellezza l’ha fatta innamorare. La contesa viene diretta da un
tribunale presieduto dalla Musa Calliope che decreta,
salomonicamente, l’appartenenza del ragazzo ai due regni. Da qui la
sua simbolica come ciclo della natura, che si risveglia a primavera,
come le fragole, e muore in inverno.
Adone, intanto, cresce, e
diviene un abile cacciatore, amato da Venere. Ma Marte – eterno
amante “tradito” da Venere, che ne apprezza solo per pochi
momenti il vigore fisico, ma ne disprezza l’ottusa brutalità –
preso da insana gelosia, gli scaglia contro un cinghiale, che lo
ferisce a morte. Venere piange disperata sopra il corpo ormai esanime
dell’amato, e le sue copiose lacrime, cadendo a terra e
mischiandosi col suo sangue, si trasformarono in piccoli cuori rossi:
le fragole.
E dunque la tonalità
infera della fragola nasce col e dal mito, che racconta di un frutto
al tempo stesso simbolo di passione amorosa e di morte. La scena del
film Fragole e sangue, in cui il giovane protagonista stringe
nel pugno una fragola sino a stillarne il succo come gocce di sangue,
riprende cinematograficamente questa determinante simbolica.
Il culto di Adone aveva
un posto importante durante le dionisiache, dato il collegamento tra
la divinità principale e la memoria del bel ragazzo amato da Venere.
Oltretutto tra Dioniso e Marte le relazioni sono sempre state
pessime, data l’opposizione dei due principi; da questo
l’accoglienza di Adone nelle feste del dio dell’ebbrezza.
Passa il tempo, ed il
culto del bel giovane si trasferisce nell’antica Roma. Qui il
frutto viene chiamato fragra, da cui l’italiano fragola, ma
anche fragranza. Si utilizzavano nei banchetti in onore di Adone,
mentre in Grecia si continuavano a celebrare le festività dette
Adonìe. Tipico di queste occasioni era la raccolta delle fragole ed
altri frutti di stagione in piccoli cestini, che venivano chiamati
«giardini mobili». Possiamo immaginare le giovani donne che si
chinano a raccogliere le fragole, esattamente come Sara nella scena
centrale del film di Bergman.
Le fragole di Shakespeare
e Paracelso
«Colui che non sa
niente, non ama niente. Colui che non fa niente, non capisce niente.
Colui che non capisce niente è spregevole. Ma colui che capisce,
vede, osserva… comprende che la maggiore conoscenza è congiunta
indissolubilmente all’amore… Chiunque crede che tutti i frutti
maturino contemporaneamente come le fragole, non sa nulla dell’uva».
Così, nel periodo della
Rinascenza neoplatonica, Paracelso, l’innovatore della
medicinabasata sulle corrispondenze tra micro e macrocosmo,
apostrofava chi ignorava le «segnature» che la Natura
naturans lasciava su ognuna delle sue creazioni. Non a caso usa
la relazione tra la fragola (Adone), e l’uva (Dioniso), come
epitome di ogni relazione tra principi naturali, data anche la loro
potente ambivalenza in fatto di potere sulla psiche.
L’osservazione che i
frutti delle fragola maturano contemporaneamente, in specifico, va
inserita nel sistema delle corrispondenze, delle analogie, delle
«segnature», che culmineranno nel Seicento con l’allestimento
delle grandi Wunderkammer di epoca barocca, per poi
tramontare sotto i colpi dell’Illuminismo e della sua separazione
tra discipline scientifiche.
Di quelle «segnature»
dirà Paracelso, nel IX libro del trattato De natura rerum, che
appunto si intitola De signatura rerum naturalium: «Nulla è
senza un segno» egli scrive «poiché la natura non lascia uscire
nulla, in cui essa non abbia segnato ciò che in esso si trova»
(III, 7, 131).
Anche Jacob Böhme, nel
suo Signatura Rerum, dice che «la segnatura sta nell’essenza
ed è simile ad un liuto che rimane silenzioso, ed è muto e
incompreso, ma se qualcuno lo suona, allora s’intende… Così
anche il segno della natura è, nella sua figura, un essere muto…
Nell’animo umano la segnatura sta artificiosamente predisposta
secondo l’essenza di ogni essere e all’uomo manca soltanto il
maestro che può suonare il suo strumento».
E allora la fragola, come
simbolo dell’amore che apre lo sguardo alle corrispondenze è, per
l’alchimista Paracelso, la base stessa della sua nuova Arte: la
spagirica, la possibilità cioè di estrarre, seguendo le procedure
alchemiche, l’essenza intima di ogni pianta che, così, può
aiutare l’uomo accorto e grato, a vivere meglio la su esistenza
terrena.
«Come infatti attraverso
uno specchio ci si può osservare con cura punto per punto, lo stesso
modo il medico deve conoscere l’uomo con precisione, ricavando la
propria scienza dallo specchio dei quattro elementi e
rappresentandosi il microcosmo nella sua interezza […] L’uomo è
dunque un’immagine in uno specchio, un riflesso dei quattro
elementi e la scomparsa dei quattro elementi comporta la scomparsa
dell’uomo. Ora, il riflesso di ciò che è esterno si fissa nello
specchio e permette l’esistenza dell’immagine interiore: la
filosofia quindi non è che scienza e sapere totale circa le cose che
conferiscono allo specchio la sua luce. Come in uno specchio nessuno
può conoscere la propria natura e penetrare ciò che egli è (poiché
egli è nello specchio nient’altro che una morta immagine), così
l’uomo non è nulla in sé stesso e non contiene in sé nient’altro
che ciò che gli deriva dalla conoscenza esteriore e di cui egli è
l’immagine nello specchio».
In questo quadro
diagnostico-anamnestico, il ruolo della fragola come rimedio è
centrale. Essa veniva denominata «frutto cuore» poiché si riteneva
che, al tempo stesso, placasse la passione amorosa, o la potesse
accendere, a seconda delle «segnature» che il corpo del paziente
mostrava. La sua capacità di crescere circondata da altre erbe
contenenti principi, anche pericolosi, o di dare spesso rifugio a
serpenti e scorpioni senza che il loro veleno la toccasse, la fa
diventare protagonista di un celebre sonetto di Shakespeare che ne
magnifica proprio queste doti: «La fragola, che cresce sotto
l’ortica, rappresenta l’eccezione più bella alla regola, poiché
innocenza e fragranza sono i suoi nomi. Essa è cibo da fate». La
«regola» cui Shakespeare cercava di sottrarre il suo frutto
preferito, condannava le piante ad assorbire il bene e il male
dall´ambiente in cui vivevano. La sua potenza simbolica per l’autore
delMoro di Venezia è tale che, il dono che poi causerà il
tragico epilogo della gelosia tra Otello e la sua amata Desdemona, è
proprio un fazzoletto con delle fragole ricamate.
La fine delle fragole
Questa naturalezza della
fragole, che l’aveva dunque caratterizzata per millenni, viene
spazzata via durante il regno del Re Sole. Furono i suoi giardinieri,
infatti, a coltivarla, reimpiantando le piantine selvatiche nelle
aiuole di Versailles, per il sovrano e le sue dame, e confinarla così
a un ruolo tristemente cocotte: durante le feste di corte,
affondare il cucchiaino nelle coppe cosparse di zucchero e panna era
invito inequivocabile al cavaliere prescelto.
Una simbologia da allora
mai sconfessata, tanto che nel film-simbolo dell’erotismo yuppie
anni Ottanta, Nove settimane e mezzo, il regista Adrian Lyne
mise le fragole al centro di una delle scene topiche tra i due
amanti.
Ma
per noi le fragole saranno sempre la lacrime appassionate di Venere,
e quando le coglieremo ritroveremo nel nostro Mundus
Imaginalis l’assenza degli amori passati, che ringrazieremo
perché hanno lasciato il posto al palpito di quelli presenti.
Il Manifesto/Alias – 15
aprile 2017