giovedì 27 aprile 2017

Il pensiero filosofico-politico dell'Internazionale situazionista


Nel 1957 nasceva a Cosio d'Arroscia l'Internazionale situazionista. Iniziamo a parlarne.

Pino Bertelli

Il pensiero filosofico-politico dell'Internazionale situazionista

Intervista a cura di Vanna Bertoncelli (giornalista de «il Tirreno», redazione di Grosseto)


V.B. Come, perché e a chi deve il suo interesse per il neo-Situazionismo?

P.B. «È stato nel '68 che ho conosciuto le opere dell'Internazionale Situazionista, un gruppo di artisti e filosofi che hanno occupato l'università di Nanterre e della Sorbona e dato inizio alla rivoluzione della gioia… il '68, appunto… i loro testi erano in francese e abbiamo contribuito a tradurli e diffonderli. Ho conosciuto uno dei fondatori dell'Internazionale Situazionista… Guy Debord, nel 1977… nei giorni in cui fu espulso dall'Italia perché "persona indesiderata"… Debord è considerato uno dei più grandi filosofi del '900… ha scritto La società dello spettacolo, uno dei libri più rubati del '68. Vorrei ricordare che nel '68 anche i vini e le marmellate vennero più buoni!».

V.B. Se potessimo definirlo come una corrente di pensiero, quale sarebbe la sua specificità?

P.B. «La filosofia sovversiva non sospetta dei situazionisti… hanno disvelato le menzogne della politica istituzionale, dell'arte mercantile e della servitù della stampa a ogni potere… lavoravano per una società più giusta e più umana. I situazionisti sostenevano che trovare un rivoluzionario autentico è difficile quanto scovare un uomo onesto in parlamento».

V.B. Quali sono le finalità di questo pensiero?

P.B. «Le finalità del pensiero situazionista sono di assaltare il cielo del conformismo e restituire dignità agli ultimi, agli esclusi, agli oppressi, e per realizzare questo tutti i mezzi sono buoni. I situazionisti passavano dalla critica radicale dell'arte all'arte radicale di ogni politica e la notte giravano intorno al fuoco della ragione, pensavano che con la caduta degli idoli sarebbero crollati anche i pregiudizi… mi pare un buon debutto».

V.B. Chi sono i maggiori esponenti, e chi i destinatari?

P.B. «I cattivi maestri dell'Internazionale Situazionista, alcuni dei quali ho ben conosciuto e frequentato, sono Debord, Vaneigem, Jorn, Sanguinetti… tanto per fare qualche nome. I destinatari del loro pensiero sovversivo sono tutti quelli che dicono a ogni forma di potere: la mia parola è NO!».

V.B. In quali zone della nostra Penisola il neo-Situazionismo è presente? E all'estero come stanno le cose?

P.B. «Il pensiero ereticale dell'Internazionale Situazionista è disperso ovunque ci siano uomini e donne che pensano con la propria testa… e lavorano principalmente alla destituzione dell'ipocrisia istituzionale. I situazionisti dicevano che tutti quelli che erano belli e intelligenti potevano entrare nell'Internazionale Situazionista… e dare inizio allo smantellamento del pensiero dominante. Va detto: l'IS si è autosciolta nel 1972, ma la seminagione libertaria di critica radicale della società mercantile dell'IS non è mai morta».

V.B. Con quali modalità viene comunicato e diffuso questo pensiero? E con quali finanziamenti?

P.B.«Modalità?Finanziamenti, MI CHIEDI? I situazionisti non hanno codici né regole da rispettare… ogni cosa va bene quando si tratta di abolire i partiti politici e fondare una società di liberi e uguali… il diritto della forza va combattuto con la forza del diritto. Grazie, e che sia lode ora a uomini di fama».


Tedeschi in Riviera


Venerdì 28 aprile, alle ore 17
presso la ex chiesa anglicana di Bordighera (in via Vittorio Veneto) 
si terrà la conferenza di 
Alberto Guglielmi Manzoni, 
autore del saggio 
“Tedeschi in Riviera. La Sanremo di Federico III tra cure climatiche, mondanità e religiosità solidaristica” (Philobiblon Edizioni).

L'evento è a cura del Comune di Bordighera e della Libreria Amico Libro di Bordighera ed è aperto alla cittadinanza. Nel corso dell'incontro verranno proiettate foto di Bordighera, Sanremo e di Berlino risalenti alla fine dell’Ottocento e immagini di Federico III in vari luoghi della Città dei Fiori.

“Dalla seconda metà dell’Ottocento sino ai primi decenni del secolo successivo, l’estremo Ponente ligure è stato interessato da costanti e significative presenze di comunità forestiere: soprattutto inglesi, tedeschi e russi. Questi gruppi di stranieri hanno influito profondamente sul piano socio-economico ma anche su quello culturale, religioso e solidaristico della vita e della popolazione delle località di questo angolo di Liguria, e in un simile contesto si è attuata una formidabile sinergia tra persone di varie nazionalità e differenti credi religiosi in nome di comuni ideali e principi. Molti degli stranieri di fede protestante, giunti in Riviera dal centro e nord Europa, erano animati da un profondo desiderio di testimoniare il proprio credo attraverso un forte impegno sociale" - raccontano gli organizzatori. 

"L’azione esercitata da queste folte comunità forestiere ha contribuito a una progressiva trasformazione del volto e della fisionomia di Sanremo, destinata a diventare, nell’arco di pochi anni, una città cosmopolita. Fra le tante teste coronate e importanti esponenti dell’aristocrazia europea che tra Otto e Novecento soggiornarono a Sanremo vi fu anche Federico Guglielmo di Germania (1831-1888). Il saggio non vuole semplicemente ricordare un illustre personaggio della Germania, ma mira piuttosto a inserire e spiegare quella figura nell’articolato contesto di relazioni e dinamiche socio-economiche, culturali e religioso-solidaristiche che, in misura così rilevante e grazie all’apporto degli stranieri, hanno caratterizzato la Città dei Fiori e la Città delle Palme alla fine del secolo XIX” - chiosano.


http://www.sanremonews.it/

Pastori , pastorali e cornamuse: Antichi suoni dell’aria


Pastori , pastorali e cornamuse: Antichi suoni dell’aria
28 aprile 2017
alle ore 20.45
presso la chiesa di Sant'Andrea Apostolo a Savona
lezione/concerto di Fabio Rinaudo

La lezione vuole presentare la cornamusa raccontandone il suo percorso storico nella musica e nell’arte .Attraverso le parole e la musica si spera di poter comunicare un messaggio che possa essere spunto di riflessione sul grande patrimonio legato alla musica modale ed alla magia del bordone.

Argomenti trattati:

1 ) origine e storia dello strumento 
2) la cornamusa nel medio evo 
3) evoluzione dello strumento nel periodo rinascimentale, con riflessioni legate al territorio ligure
4) le cornamuse del periodo barocco ovvero l’ultima generazione di cornamuse

Durante l’incontro verranno eseguiti diversi brani musicali e verranno mostrate immagini di diversi strumenti.

Fabio Rinaudo – musette del morvan 14 e 16 pollici, cornamuse bechonett 16 pollici, irish Uilleann Pipes
Davide Baglietto - grand cornemuse boubonnaise 20 e 24 pollici


mercoledì 26 aprile 2017

Le Porte del Borgo


Sabato 29 aprile
alle ore 17 30, 
presso l'Oratorio de' Disciplinanti, 
a Finalborgo (SV)
verrà presentato l'ultima parte della Trilogia delle Porte del Borgo. 
Sarà presente l'Autore Mauro Berruti.


C’ERAVAMO PURE NOI: lotte, culture e associazionismo di lavoratrici e lavoratori in una prospettiva museale


Convegno di studi sul rapporto fra lavoratori, lavoratrici, forme di associazionismo e prospettive museali, organizzato dalla Società Savonese di Storia Patria e dall’Istituto Internazionale di Studi Liguri sezione Sabazia nel Salone di Storia Patria, via Pia 14 Savona, il 12 maggio 2016, dalle ore 9,30 alle 12,30.


C’ERAVAMO PURE NOI:

lotte, culture e associazionismo di lavoratrici e lavoratori in una prospettiva museale


Programma

Saluti istituzionali della Società Savonese di Storia Patria e dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri
Paolo GIARDELLI, Le esperienze di musealizzazione della vita e del lavoro contadino, un modello da ripensare?
Danilo BRUNO, Un percorso nella storia mazziniana della Liguria Occidentale. Ipotesi di un percorso guidato
Raffaella PONTE, Liliana BERTUZZI, L’ associazionismo operaio nelle esposizioni del Museo del Risorgimento di Genova
Bianca GERA, Il museo del mutuo soccorso di Pinerolo
Beatrice VERRI, Paraloup: una borgata della montagna cuneese protagonista della Storia. Dal recupero al Museo dei racconti *nella seconda parte è prevista la partecipazione dell’Associazione Eppur bisogna andare di Stellanello (SV)
Enzo BARNABA’, La strage di Aigues Mortes: cause ed effetti
Flavio MENARDI NOGUERA, I musei partecipati della Valle Grana. Il ruolo delle popolazioni nella transizione da poli espositivi a vivaci istituzioni culturali.  

venerdì 21 aprile 2017

Fragole, le lacrime di Venere per Adone

    Jeronimus Bosch

Un mito “mutante”, da sempre  simbolo di passione amorosa e di cupa morte

Raffaele K. Salinari

Fragole, le lacrime di Venere per Adone

Let me take you down – Lascia che ti accompagni – ‘Cause I’m going to Strawberry Fields – Perché sto andando nei Campi di Fragole – Nothing is real – Niente è reale – And nothing to get hungabout – E niente per cui preoccuparsi – Strawberry Fields forever – Campi di Fragole per sempre. Living is easy with eyes closed – Vivere è facile con gli occhi chiusi –Misunderstanding all you see – Fraintendendo tutto ciò che vedi – It’s getting hard to be someone – Diventa difficile essere qualcuno – But it all works out – Ma tutto si risolverà – It doesn’t matter much to me – Non mi interessa molto.

La celebre canzone dei Beatles, Strawberry Fields forever, è del 1967; scritta da Lennon, riporta un suo ricordo infantile: un campo di fragole oltre una vecchia sede dell’Esercito della Salvezza, in cui lui ed altri bambini andavano a giocare senza alcuna preoccupazione, dimentichi di se stessi e della realtà del mondo, come solo i bambini sanno fare. Queste fragole torneranno come logo della casa editrice del giovane protagonista di Across the Universe, il musical del 2007 con le canzoni dei Fab4.



Ma, curiosamente, l’atmosfera onirica e visionaria della canzone, sembra la trasposizione in musica dell’altrettanto celebrata sequenza del film di Bergman, Il posto delle fragole, in cui il vecchio medico Isak Borg, oramai alla fine della vita, si lascia travolgere dai ricordi della passata giovinezza, nel luogo in cui il suo primo amore coglieva il dolce frutto selvatico. La scena, epitome di tutta la pellicola, è immersa nella stessa aura di infantile onirismo, carica di simboli impercettibili a chi non fosse in grado di immergersi coi pensieri nella stessa atmosfera sospesa tra due mondi: l’attuale e l’eterno.

La dinamica poetizzata nella canzone e quella della sequenza filmica sono le stesse: il professore si inoltra, con la giovane nuora, sulla strada che porta alla casa dove trascorreva le vacanze da ragazzo. Capiamo subito che è lei a spingere l’uomo verso il luogo magico: arrivati nel posto, infatti, non lo segue, ma lo precede verso la vecchia costruzione oramai abbandonata. Poi, ad un tratto, la nuora assume il ruolo di ninfa marina: si allontana per fare un bagno, per tornare al suo elemento, l’elemento onirico per eccellenza, l’acqua. Il professore la lascia andare trasognato, annuendo con un: «abbiamo tempo». E da quel momento si apre il Grande Tempo del ricordo, che addensa il passato, il presente ed il futuro.


Già nella radura antistante l’edificio oramai disabitato, avevamo visto una scala poggiata ad un albero: ricorda curiosamente quella di Giacobbe, o l’immagine alchemico-massonica dei gradini verso la conoscenza: la possiamo vedere incisa alla base del Portale del Giudizio Universale sulla Cattedrale gotica di Notre Dame di Parigi. È da quel passaggio simbolico che la nuora-ninfa precederà il protagonista verso «il posto delle fragole». Ma è esattamente l’entrata nel loro posto a dissolvere la realtà del giorno, come ci dice lui stesso, riportandolo indietro nel tempo a rivivere episodi della sua giovinezza felice. Il vegliardo, ormai stanco e reso cinico dalla vita, si stende per terra, accanto al cespuglio in fiore, forse per la prima volta da tanto tempo senza pensieri assillanti, come il Lennon bambino nel suo campo di fragole per sempre.

Tornano così le speranze perdute, incarnate dall’immagine irreale, eppure presente, della cugina Sara, come evocata dalla sensazione tattile che al corpo del medico trasmettono le piccole foglie di fragola nascoste sotto l’erba primaverile. Il filo rosso della rêverie, si snoda così attorno alla figura della bella ragazza, intenta a raccogliere in un paniere rustico il frutto che, più di tutti gli altri, rappresenta il tema dell’amore. Una ninfa scompare nel presente con un tuffo nell’acqua, ed un altra ricompare dal passato, come fossero Pathosformelwarburghiane che si snodano nella Mnemosyne personale ed intima dell’anziano dottore.



Il mito di Venere e Adone

La pellicola si apre con una scena da incubo: il professore incontra lungo una strada deserta un carro funebre, dal quale cade una bara; apertasi su selciato, all’interno egli vede il cadavere di stesso afferrargli fermamente la mano.
Un sogno inquietante, che ben si collega alla natura simbolica delle fragole. Queste, infatti, sono le lacrime di Venere che, intrise del sangue del suo amato Adone, si trasformarono nel carminio frutto a forma di piccolo cuore.

Il mito, nelle sue varie versioni, dispiega così la gamma evocativa della fragola, e rende ragione della sua significanza come immagine. Le sue tonalità simboliche, che oscillano ambiguamente tra Eros e Thanatos, derivando tutte dal mitologema che narra della relazione tra la dea dell’amore ed il suo efebico amante, ma anche della natura stessa di Adone.

La storia del ragazzo, infatti, è tesa tra il buio del mondo infero e lo splendore della natura rinata, della quale egli era un simbolo, sin dai tempi delle religioni asiatiche, sotto forma del sumerico Tammuz.

Ritroviamo allora la sua figura in tutto il medio oriente, e nel bacino del Mediterraneo, con vari nomi: è, infatti, di volta in volta assimilato alla divinità egizia Osiride, al semitico Baal Hadad, all’etrusco Atunnis, all’anatolico Sandan, e anche al frigio Attis; tutte divinità legate alla rinascita e alla vegetazione. Questo lo rende analogo a Dioniso, l’archetipo della vita indistruttibile che, con Adone, condivide i passaggi fondamentali del suo ciclo divino, in cui il frutto della fragola riveste un ruolo simbolico affatto particolare.



Come spiega James Frazer ne Il ramo d’oro, «il culto di Adone fu praticato dalle genti semitiche di Babilonia e Siria e i Greci lo presero da loro agli inizi del settimo secolo avanti Cristo. Il vero nome della divinità era Tammuz: Adone è semplicemente il nome semiticoAdon, “signore”, un titolo onorifico con il quale i fedeli si indirizzavano a lui. Nella letteratura religiosa babilonese Tammuz appare come il giovane sposo o amante di Ishtar, la grande dea madre, incarnazione delle energie riproduttive della natura».

Ritroviamo le stesse determinanti simboliche nell’Adone greco: egli nasce da una relazione incestuosa tra Cinira, re di Cipro (ubriacato ed ingannato per l’occasione dalla nutrice Ippolita), e sua figlia Mirra, entrata in uno stato di pazzia amorosa per il padre. Il re giace con la figlia per nove notti, credendo si tratti di una giovane che si era invaghita di lui. Non la riconosce perché la complice nutrice gli aveva imposto di incontrarla al buio, per non comprometterne l’identità.

Ma la moglie del re, insospettita dal suo comportamento, entra di notte nelle stanze del marito ed illumina la scena. Accortasi dell’insano gesto di Cinira, la regina Cancreide, cerca di uccidere la figlia, che viene però trasformata da Afrodite nell’albero della mirra. La pazzia di Mirra è stata, infatti, suscitata da Venere stessa, che voleva forse vendicarsi di Cancreide e della figlia perché non le avevano reso gli onori dovuti, o si vantavano di una bellezza a lei superiore o, semplicemente, di avere capelli più affascinanti. Fatto sta che dalla relazione incestuosa Mirra partorisce, in forma di albero, un neonato bellissimo quanto maledetto: Adone.

Venere lo consegna a Persefone perché lo protegga dai mali del mondo, nell’Ade. Ma Persefone si innamora del bellissimo bimbo e, giunto all’età pubere, lo vuole per se. Anche Afrodite lo reclama, dato che la sua bellezza l’ha fatta innamorare. La contesa viene diretta da un tribunale presieduto dalla Musa Calliope che decreta, salomonicamente, l’appartenenza del ragazzo ai due regni. Da qui la sua simbolica come ciclo della natura, che si risveglia a primavera, come le fragole, e muore in inverno.

Adone, intanto, cresce, e diviene un abile cacciatore, amato da Venere. Ma Marte – eterno amante “tradito” da Venere, che ne apprezza solo per pochi momenti il vigore fisico, ma ne disprezza l’ottusa brutalità – preso da insana gelosia, gli scaglia contro un cinghiale, che lo ferisce a morte. Venere piange disperata sopra il corpo ormai esanime dell’amato, e le sue copiose lacrime, cadendo a terra e mischiandosi col suo sangue, si trasformarono in piccoli cuori rossi: le fragole.



E dunque la tonalità infera della fragola nasce col e dal mito, che racconta di un frutto al tempo stesso simbolo di passione amorosa e di morte. La scena del film Fragole e sangue, in cui il giovane protagonista stringe nel pugno una fragola sino a stillarne il succo come gocce di sangue, riprende cinematograficamente questa determinante simbolica.

Il culto di Adone aveva un posto importante durante le dionisiache, dato il collegamento tra la divinità principale e la memoria del bel ragazzo amato da Venere. Oltretutto tra Dioniso e Marte le relazioni sono sempre state pessime, data l’opposizione dei due principi; da questo l’accoglienza di Adone nelle feste del dio dell’ebbrezza.

Passa il tempo, ed il culto del bel giovane si trasferisce nell’antica Roma. Qui il frutto viene chiamato fragra, da cui l’italiano fragola, ma anche fragranza. Si utilizzavano nei banchetti in onore di Adone, mentre in Grecia si continuavano a celebrare le festività dette Adonìe. Tipico di queste occasioni era la raccolta delle fragole ed altri frutti di stagione in piccoli cestini, che venivano chiamati «giardini mobili». Possiamo immaginare le giovani donne che si chinano a raccogliere le fragole, esattamente come Sara nella scena centrale del film di Bergman.



Le fragole di Shakespeare e Paracelso

«Colui che non sa niente, non ama niente. Colui che non fa niente, non capisce niente. Colui che non capisce niente è spregevole. Ma colui che capisce, vede, osserva… comprende che la maggiore conoscenza è congiunta indissolubilmente all’amore… Chiunque crede che tutti i frutti maturino contemporaneamente come le fragole, non sa nulla dell’uva».

Così, nel periodo della Rinascenza neoplatonica, Paracelso, l’innovatore della medicinabasata sulle corrispondenze tra micro e macrocosmo, apostrofava chi ignorava le «segnature» che la Natura naturans lasciava su ognuna delle sue creazioni. Non a caso usa la relazione tra la fragola (Adone), e l’uva (Dioniso), come epitome di ogni relazione tra principi naturali, data anche la loro potente ambivalenza in fatto di potere sulla psiche.

L’osservazione che i frutti delle fragola maturano contemporaneamente, in specifico, va inserita nel sistema delle corrispondenze, delle analogie, delle «segnature», che culmineranno nel Seicento con l’allestimento delle grandi Wunderkammer di epoca barocca, per poi tramontare sotto i colpi dell’Illuminismo e della sua separazione tra discipline scientifiche.

Di quelle «segnature» dirà Paracelso, nel IX libro del trattato De natura rerum, che appunto si intitola De signatura rerum naturalium: «Nulla è senza un segno» egli scrive «poiché la natura non lascia uscire nulla, in cui essa non abbia segnato ciò che in esso si trova» (III, 7, 131).


Anche Jacob Böhme, nel suo Signatura Rerum, dice che «la segnatura sta nell’essenza ed è simile ad un liuto che rimane silenzioso, ed è muto e incompreso, ma se qualcuno lo suona, allora s’intende… Così anche il segno della natura è, nella sua figura, un essere muto… Nell’animo umano la segnatura sta artificiosamente predisposta secondo l’essenza di ogni essere e all’uomo manca soltanto il maestro che può suonare il suo strumento».

E allora la fragola, come simbolo dell’amore che apre lo sguardo alle corrispondenze è, per l’alchimista Paracelso, la base stessa della sua nuova Arte: la spagirica, la possibilità cioè di estrarre, seguendo le procedure alchemiche, l’essenza intima di ogni pianta che, così, può aiutare l’uomo accorto e grato, a vivere meglio la su esistenza terrena.

«Come infatti attraverso uno specchio ci si può osservare con cura punto per punto, lo stesso modo il medico deve conoscere l’uomo con precisione, ricavando la propria scienza dallo specchio dei quattro elementi e rappresentandosi il microcosmo nella sua interezza […] L’uomo è dunque un’immagine in uno specchio, un riflesso dei quattro elementi e la scomparsa dei quattro elementi comporta la scomparsa dell’uomo. Ora, il riflesso di ciò che è esterno si fissa nello specchio e permette l’esistenza dell’immagine interiore: la filosofia quindi non è che scienza e sapere totale circa le cose che conferiscono allo specchio la sua luce. Come in uno specchio nessuno può conoscere la propria natura e penetrare ciò che egli è (poiché egli è nello specchio nient’altro che una morta immagine), così l’uomo non è nulla in sé stesso e non contiene in sé nient’altro che ciò che gli deriva dalla conoscenza esteriore e di cui egli è l’immagine nello specchio».

In questo quadro diagnostico-anamnestico, il ruolo della fragola come rimedio è centrale. Essa veniva denominata «frutto cuore» poiché si riteneva che, al tempo stesso, placasse la passione amorosa, o la potesse accendere, a seconda delle «segnature» che il corpo del paziente mostrava. La sua capacità di crescere circondata da altre erbe contenenti principi, anche pericolosi, o di dare spesso rifugio a serpenti e scorpioni senza che il loro veleno la toccasse, la fa diventare protagonista di un celebre sonetto di Shakespeare che ne magnifica proprio queste doti: «La fragola, che cresce sotto l’ortica, rappresenta l’eccezione più bella alla regola, poiché innocenza e fragranza sono i suoi nomi. Essa è cibo da fate». La «regola» cui Shakespeare cercava di sottrarre il suo frutto preferito, condannava le piante ad assorbire il bene e il male dall´ambiente in cui vivevano. La sua potenza simbolica per l’autore delMoro di Venezia è tale che, il dono che poi causerà il tragico epilogo della gelosia tra Otello e la sua amata Desdemona, è proprio un fazzoletto con delle fragole ricamate.



La fine delle fragole

Questa naturalezza della fragole, che l’aveva dunque caratterizzata per millenni, viene spazzata via durante il regno del Re Sole. Furono i suoi giardinieri, infatti, a coltivarla, reimpiantando le piantine selvatiche nelle aiuole di Versailles, per il sovrano e le sue dame, e confinarla così a un ruolo tristemente cocotte: durante le feste di corte, affondare il cucchiaino nelle coppe cosparse di zucchero e panna era invito inequivocabile al cavaliere prescelto.

Una simbologia da allora mai sconfessata, tanto che nel film-simbolo dell’erotismo yuppie anni Ottanta, Nove settimane e mezzo, il regista Adrian Lyne mise le fragole al centro di una delle scene topiche tra i due amanti.

Ma per noi le fragole saranno sempre la lacrime appassionate di Venere, e quando le coglieremo ritroveremo nel nostro Mundus Imaginalis l’assenza degli amori passati, che ringrazieremo perché hanno lasciato il posto al palpito di quelli presenti.


Il Manifesto/Alias – 15 aprile 2017

giovedì 20 aprile 2017

Pietro Coletta. Sculture e rilievi 2015/2016



PIETRO COLETTA sculture e rilievi 2015/1016

Inaugurazione: Sabato 29 Aprile 2017 ore 18,00
Periodo: dal 29 Aprile al 27 Maggio 2017
Sede mostra: Galleria Peccolo, piazza Repubblica 12 –Livorno tel.0586.888509
Orario: 10/13 – 16/20 festivi e lunedì chiuso.

La Galleria Peccolo continua la stagione espositiva 2017/2018 con la serie di personali dedicate ad artisti contemporanei “Grandi isolati”. Artisti che pur operando in sintonia con l’arte del loro tempo, ad un certo punto della vita hanno deciso di ritirarsi dalla scena artistica, per continuare il proprio lavoro lontano dai clamori e dalle pressioni dal mercato.


PIERO COLETTA è nato nel 1948 a Bari e si stabilisce a Milano nel 1967. Si iscrive all’ Accademia di Brera dove frequenta i corsi di scultura di Marino Marini, Alik Cavaliere e Lorenzo Pepe. Nel 1970 tiene la prima personale presso la Galleria l’Agrifoglio di Milano dove espone lavori definiti in seguito “Totem”: opere composte con travi di legno tenute insieme da tondini di ferro che invadendo lo spazio della galleria impongono la loro presenza fisica, minimale ma carica di energia e spiritualità. Lavori che mostravano la discendenza dalle sculture lignee Totemiche africane e allo stesso tempo denotavano una semplificazione verso elementi primordiali. La critica li aveva definiti una sorta di “Costruttivismo primitivo”. Una di queste opere verrà esposta a Livorno in occasione dell’apertura del Museo Progressivo di Villa Maria nel 1975.

Negli anni che seguono il linguaggio di Pietro Coletta acquista profondità, oltre che nelle grandi opere “ambientali”, anche nei rilievi e nelle sculture dalle dimensioni più misurate, nelle quali inserisce sperimentazioni sia su pareti che nelle superfici di legno in cui innesta spirali di tondini di rame, lastre o grate di ferro e di rame, pietre, putrelle e altri materiali. Utilizzando materiali semplici del lavoro quotidiano nelle officine, crea  tensioni e forze aggettanti dalla superficie in legno, bruciata e annerita col fuoco, a creare una dimensione di rilievo che sprigiona una illuminazione spirituale. Dimensione che l’artista sentiva crescere come sua esigenza a seguito di sofferte esperienze personali e ritrovata nei suoi viaggi in Africa e in India.

L’esposizione è accompagnata dal catalogo bilingue italiano/inglese edito dalle Edizioni Peccolo contenente le immagini delle opere esposte con prefazione del critico Bruno Corà e una conversazione/intervista raccolta nel suo studio da Federico Sardella.


Nicaragua: architettura quotidiana/Personale di Alberto Sipione




Entr'acte ospita, dal 29 aprile al 18 maggio, una personale di Alberto Sipione incentrata su un ciclo di venti "architetture quotidiane", esplorate attraverso la fotografia in taluni interni domestici del paese centroamericano.

«Esiste uno strano gioco di specchi in queste immagini di quotidianità nicaraguense - scrive Giovanni Carbone nell'introduzione al volume che accompagna la mostra - un gioco di rimandi continui tra la macchina fotografica e gli oggetti che riacquistano vita oltre il tempo del click. Un gioco in cui il ruolo statutario della fotografia di cristallizzatrice del tempo, fermo per rendere permanente la narrazione di ciò che è ritratto, è già nell'immagine che immortala. Gli oggetti ritratti, da quelli propri di una tradizione sino alle esperienze di un modernariato anacronistico e apparentemente fuori contesto, si sovrappongono diacronicamente, l'uno accanto all'altro, a costruire un racconto complesso d'un vissuto oltre il tempo».

E Pino Bertelli, fotografo sans frontières, ribadisce: «L'architettura del quotidiano del Nicaragua fotografata da Sipione, le abitazioni povere, gli interni ordinati, esprimono la dignità, i segni di un vivere elementare che debordano nelle inquadrature forti, coinvolgendo il fotografo nella storia di un popolo, nella memoria di un tempo in cui è stato protagonista di una lotta in difesa dei propri diritti».

Alberto Sipione nasce a Siracusa nel 1968. Sin da ragazzo il suo interesse è rivolto alla fotografia analogica in bianco e nero, mettendo a punto e sperimentando personali tecniche di stampa. All'inizio del 2014 matura il passaggio alla fotografia digitale. I suoi interessi si concentrano sulla fotografia sociale in antitesi alla fotografia delle mode più fatue ed effimere. Tra i maestri della fotografia utopica, Pino Bertelli e Ando Gilardi sono coloro che più direttamente hanno arricchito il suo bagaglio concettuale e tecnico. Vive e lavora tra Basilea e Siracusa.


www.utopiarossa.blogspot.com

martedì 4 aprile 2017

In ricordo di Claudio Pavone (1920-2016)


Dalla fine della prima repubblica ogni anno la celebrazione della Resistenza è occasione di polemiche e anche il 2017 non fa eccezione. La cosa non è poi tanto strana: sulla via della restaurazione del potere assoluto dell'economia e della finanza, senza più i fastidiosi limiti imposti da una democrazia non perfetta certo ma fondata sulla partecipazione, la Resistenza è un ostacolo che occorre eliminare. A questo scopo anche i Pansa non bastano più. E così, avvicinandosi il 25 Aprile, il Giornale , dopo il Mein Kampf, pubblica a puntate l'esaltazione della RSI da parte del fascista repubblichino Pisanò. Un libro che negli anni '60 ci si vergognava anche di esporre nelle librerie di destra. Per questo è ancora più attuale la figura e l'opera di Claudio Pavone, recentemente scomparso.


Giorgio Amico

In ricordo di Claudio Pavone (1920-2016)

É morto alla fine di novembre Claudio Pavone. Se n'è andato proprio il giorno prima del suo novantaseiesimo compleanno. Con lui scompare un pezzo importante della nostra storia, uno studioso anomalo, un uomo schivo, che non amava le cerimonie e i riconoscimenti, sempre ben attento a tenersi lontano dai luoghi del potere, senza tessere di partito in tasca, ma caratterizzato nel suo lavoro di ricercatore e nella sua vita di antifascista da una visione etica dell'impegno politico e civile.

Nato nel 1920 in una famiglia della buona borghesia romana, Pavone cresce sotto la dittatura, ma ciò non gli impedisce di maturare una coscienza antifascista. Laureato in giurisprudenza e chiamato da poco alle armi, assiste il 25 luglio al disfacimento delle forze armate e dell'apparato statale. Dopo l'8 settembre prende contatti con il Psiup - Partito Socialista d'Unità Proletaria. Arrestato, trascorre quasi un anno a Regina Coeli, poi, una volta liberato, passa al Nord dove svolge attività clandestina. Partecipa alla liberazione di Milano e di quella giornata ricorderà l'incredibile anarchia, "tra pulsione di festa e spettacolo di morte".


Nel dopoguerra va a lavorare come funzionario nell' Archivio Centrale dello Stato, dove si mette in luce come ricercatore, fino a diventare responsabile dell'Ufficio studi e pubblicazioni. La frequentazione quotidiana dei documenti e degli archivi gli consente di approfondire il suo interesse per la storia. In questa veste produce numerose pubblicazioni di grande valore per cui alla metà degli anni Settanta viene chiamato dall'università di Pisa a svolgere funzioni di professore associato. Andato in pensione Pavone riveste importanti incarichi: vicepresidente nel 1994-95 dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, presidente della Società italiana per lo studio della storia contemporanea e dal 1993 direttore della rivista “Parolechiave”.


Nel 1991 appare il suo capolavoro, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, un'opera di grande respiro, destinata a segnare una vera e propria rivoluzione negli studi sulla Resistenza vista come l'intreccio, estremamente complesso e contradditorio di tre elementi: guerra civile tra fascisti e antifascisti, guerra di classe tra proletariato e borghesia e guerra patriottica antitedesca. Un'interpretazione che definitivamente infrange il tabù della Resistenza come guerra civile, fino ad allora monopolio della pubblicistica di destra.

Con estremo rigore e non poco coraggio, utilizzando una mole enorme di materiali, Pavone ci dà in questa opera un quadro articolato di cosa è stato veramente il movimento partigiano, fornendo un fondamentale strumento non solo per comprendere cosa effettivamente sia stata la Resistenza, ma anche per capire il dopoguerra e perchè, ad esempio, negli anni Settanta serie minacce alla democrazia venissero anche da ambienti di ex resistenti (Edgardo Sogno) o di antifascisti (Randolfo Pacciardi).

Era inevitabile che un'opera così innovativa suscitasse polemiche anche aspre, ma destinate a breve vita di fronte all'accoglienza entusiastica che il libro ebbe da figure della statura di Vittorio Foa e Norberto Bobbio, tanto per citarne alcune.

Come è stato da più parti affermato, Una guerra civile, è una straordinaria e tragica opera corale, scritta con la fluidità di un romanzo dove neanche una parola è superflua. Un'opera dalle cui pagine scaturisce la forza morale, prima che politica, della Resistenza, cioè delle donne e degli uomini che lottarono, spesso sacrificando la vita, non per odio o per ideologia, ma per la umana speranza di costruire un mondo migliore su cui fondare un futuro di libertà e di pace capace di evitare il ripetersi di simili orrori. In questo sta la morale della Resistenza e la differenza con chi combatteva, magari pensando in buona fede di farlo per l'Italia, dall'altra parte. Un'intuizione profonda, già presente in embrione nelle opere letterarie di Italo Calvino e Beppe Fenoglio.


Un impegno che Pavone continuerà con la raccolta di saggi Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, in cui si spiega nell'Italia appena uscita dagli anni di piombo del terrorismo e delle stragi impunite, come nel dopoguerra gli apparati dello Stato avessero faticato a defascistizzarsi e come la mancata epurazione nella magistratura, nelle forze di polizia, fra gli alti dirigenti dell’amministrazione, avesse condizionato pesantemente per decenni la vita della Repubblica.

In questo libro Pavone parla anche di sé e racconta della sua disillusione, di quando, tornato a Roma, egli cerca inutilmente di cogliere i segni «della mutazione che speravo si fosse verificata dopo la Liberazione [...] Allora, come tanti giovani, ero un estremista, e mi dispiacque il confluire nella nascente nuova Repubblica del personale fascista. In seguito Parri cercò di convincermi che sarebbe stato difficile fare diversamente. [Che] il momento della Liberazione non poteva coincidere con quello della rivoluzione, e si sarebbe dovuto fare una politica di quadri per il futuro».

Intellettuale rigoroso, Pavone fu sempre contrario a ricostruzioni storiche strumentali e superficiali, tanto da intervenire spesso contro un "neorevisionismo" alla Pansa che voleva deformare la storia recente d'Italia, rendendola più adatta al nuovo corso politico inaugurato nel 1994 dalla vittoria elettorale di Silvio Berlusconi.



«La vittoria della destra, di questa destra – dirà in un'intervista - è una ragione che si aggiunge a un motivo presente già da qualche tempo. Al fatto, cioè, che viviamo in un periodo di grave crisi del sistema politico; crisi che si intreccia con una crisi, ancora, della stessa coscienza, della stessa identità nazionale. Tornare alle tavole di fondazione della Repubblica, alla lotta antifascista e alla Resistenza è quindi una cosa positiva, salutare. I guai cominciano quando, in questa rivisitazione, invece di approfondire, distinguere, liberarsi della retorica che indubbiamente si è accumulata, si opera un mero capovolgimento di giudizio.
E invece di capire meglio cos'è stata la guerra di liberazione e quale peso ha avuto nella storia italiana — cosa che la storiografia aveva cominciato a fare, in particolare quella di sinistra — la Resistenza, da atto di fondazione, diventa improvvisamente vizio d'origine della Repubblica.Ritornare ai momenti iniziali è doveroso, anche perché la cancellazione della memoria è un fenomeno negativo, che va contrastato. I giudizi nuovi però non si formulano chiamando bianco ciò che era nero e viceversa. Oppure appiattendo tutto e tutti.
Inutile, in questo senso, fare le pacificazioni tra fascisti e antifascisti mezzo secolo dopo. Si offendono gli stessi fascisti, che se non scherzavano vuol dire che volevano un'Italia diversa da quella venuta dopo il 25 aprile. E che è tanto diversa da permettere ai fascisti, appunto, di dire e fare liberamente ciò che vogliono. Se avessero vinto loro temo che per noi non sarebbe stato lo stesso.»

Affermazioni coraggiose e chiare, di uno studioso che non si è mai nascosto dietro frasi fumose o giri di parole. Uno studioso e un partigiano di cui ci mancherà il rigore e l'esempio.

Finale a sorpresa. I chiodi storti



6 Aprile 2017 ore 20.30
sala lettura della Biblioteca Comunale di CARCARE - Villa Barrili

Presentazione del libro 
Finale a sorpresa
della casa editrice F.lli FRILLI editore,
con l'autore BRUNO LUGARO

Il romanzo,"Finale a sorpresa. I chiodi storti", prende spunto da un episodio di cronaca realmente accaduto. Il protagonista Nino Raggio, e la sua odissea, sono il pretesto per raccontare una realtà in cui una nuova generazione di adolescenti, educati a non piegarsi alle mafie, cresce a contatto con i "CHIODI STORTI", giovani senza futuro, reclutati ancora bambini dalla camorra e armati come dei Rambo. (i Tascabili - fratelli Frilli editori) 

BRUNO LUGARO, savonese, da venticinque anni giornalista de "Il Secolo XIX" nei settori della cronaca e della politica, attualmente è caposervizio della redazione savonese de "Il Secolo XIX-LA Stampa"

lunedì 3 aprile 2017

A Saliceto, alla ricerca del segreto del tempo




Sant'Agostino di Saliceto, un tesoro d'arte quasi sconosciuto.

Giorgio Amico

Sant'Agostino di Saliceto

Entrati nella chiesa di S. Agostino, diventata bocciofila e ora in via di recupero, nulla colpisce l'attenzione, ma aperta una porticina sulla parete di fondo di questo stanzone disadorno, si è catapultati di colpo in un'altra dimensione. Una stanzetta angusta custodisce quello che resta degli affreschi tardogotici dell'abside dell'antica chiesa. L'impressione è straordinaria, la luce che emana dagli affreschi intensissima.



Una Madonna, dalla veste trapunta, domina la scena, circondata da santi e da penitenti.



Sulle pareti laterali sorrisi di fanciulle 



e persino un gatto accoccolato nel vano di una finestra, incurante da secoli di ciò che lo circonda.



Al di là dei colori, sono i volti che colpiscono. Sguardi intensi, profondi che ci scrutano, quasi a chiederci il perchè della nostra visita.



Volti di contadini, raffigurati in abiti di vescovi e di santi.





L'anima profonda della Langa ci osserva con il sorriso appena accennato di chi conosce il segreto del tempo.