Il
bel film di Ken Loach, "Sorry we have missed you", sulle
condizioni di lavoro (e di vita) dei lavoratori della logistica è
stato seguito dalla proposta (idiota) di boicottare le aziende che
sfruttano il personale non acquistando più prodotti on line. La cosa
ha suscitato, come era naturale, una vasta adesione sull'ondata
emotiva provocata da un film che è un vero e proprio pugno nello
stomaco. Ora, a parte il fatto che ogni aspetto della vita quotidiana
che abbia a che fare con la merce si basa su forme più o meno
intense di sfruttamento, pensiamo che non di risposte emotive e
moralistiche ci sia bisogno, ma di strumenti per comprendere (dato
che i giornali con l'eccezione de il Manifesto non ne parlano) i
motivi della dura lotta che i lavoratori della logistica stanno
conducendo da anni per migliori condizioni di lavoro, aumenti di
salario e rispetto dei diritti sindacali sui luoghi di lavoro. Lotte
per le quali attualmente centinaia di lavoratori sono sotto processo
e rischiano pesanti condanne in base alle nuove norme (anche queste
sconosciute ai più) sulla sicurezza introdotte dal governo M5S-Lega
e mantenute dal nuovo governo M5S-PD, che prevedono anni di carcere
per un semplice picchettaggio o blocco di un cancello di un'azienda.
Conoscere le lotte dei lavoratori e sostenerle, questa sola può
essere la risposta allo sfruttamento bestiale dei lavoratori della
logistica.
(Le immagini non fanno parte dell'articolo, ma illustrano le lotte in corso)
Marta e Simone Fana
Il mondo della
logistica gioca al ribasso sui diritti dei lavoratori
La morte di Abd Elsalam
Ahmed Eldanf, operaio della ditta di logistica Gls ucciso da un
camion della stessa azienda durante un picchetto, dovrebbe far
emergere definitivamente la questione di un modello produttivo
pensato al massimo ribasso dei diritti. Sebbene la notizia sia ormai
stata derubricata dai giornali e la procura di Piacenza abbia imposto
sull’accaduto una ricostruzione di dubbia credibilità, i
fatti ci riportano a considerazioni più generali.
Le cause di questa morte
vanno rintracciate in un conflitto che vive in un nuovo modello
dell’organizzazione industriale e della sua filiera, dalla
produzione al consumo. Provare a mettere in ordine questi argomenti è
un esercizio che conduce alla complessità delle dinamiche sociali.
In un’economia
funzionale al consumo e all’ibridazione tra consumo e produzione,
la logistica ha un ruolo semplice: è interpretata come mero tassello
utile alla fruizione del consumo stesso, che va assicurato a ogni
costo. Ordino un prodotto online, deve arrivarmi il prima possibile.
L’unica cosa che conta
Nel processo
produttivo – quello che va dalla produzione fisica alla vendita al
dettaglio – la logistica è quel settore intermedio che consente il
passaggio dei beni dai magazzini al negozio oppure, ormai sempre più
di frequente, direttamente nelle nostre case. Nell’epoca dei
feedback, della tracciabilità e delle promozioni sui costi di
spedizione, è necessario che tutto sia puntuale, che la merce giunga
a destinazione in modo efficiente, così da rendere il cliente
soddisfatto delle sue scelte di acquisto. Questo vuole l’azienda
che vende; perché questo massimizzerà la fiducia dei clienti
permettendo di aumentare nel tempo le vendite, quindi gli utili.
L’unica cosa che conta
sono i risultati, non come questi siano stati raggiunti. Si definisce
così una netta separazione tra l’individuo consumatore e la
società. Il consumatore vuole consumare e risparmiare: l’acquisto
in tre click e il fattorino che bussa alla porta di casa. Il processo
che intercorre tra questi due momenti è appunto utile alla
soddisfazione privata.
Non è un caso che
risulti secondario, se non del tutto indifferente, per il
consumatore, in che modo i piccoli venditori e i grandi colossi del
commercio siano in grado di praticare costi di spedizione minimi o
addirittura nulli. Raramente si entra in contatto con un operatore
della logistica, che sia un facchino, un magazziniere o un
autotrasportatore.
Sotto la retorica della
modernità edonistica, del “direttamente sul tuo divano”, si
rafforza l’alleanza tra logica del consumo e progressivo
impoverimento dei lavoratori. Scompare qualsiasi traccia che colleghi
il momento della produzione con quello del consumo, cioè da una
parte, il facchino che vende la sua forza lavoro per un tempo
illimitato e, dall’altra parte, il consumatore che ne beneficia in
un tempo brevissimo. Una rottura che chiude la possibilità della
solidarietà e apre le porte alla pura estraneità: così funziona il
capitalismo oggi.
Si assiste quindi a una
rimozione forzata ma necessaria, in cui le miserie della
sottoccupazione, del lavoro che ritorna anche a una dimensione
schiavistica, sono assunte come inevitabili per conservare intatte le
forme di consumo. Consumare si configura come l’unica fonte di
identità. Le fabbriche di Dhaka, il lavoro minorile in Turchia, i
facchini di Piacenza invece diventano strumentali al diritto-dovere
del consumo, che per vivere e prosperare deve alimentarsi di una
guerra tra poveri.
Allargando la lente, il
settore della logistica emerge in tutta la sua ampiezza all’interno
dell’organizzazione della produzione. Basta tener presente che già
nel 2012 il volume d’affari di questo settore era stimato, tra i
paesi dell’Unione europea, in 878 miliardi di euro, secondo uno
studio riportato dalla Commissione europea.
Non stupisce se si
considera che la logistica garantisce lo stoccaggio e la gestione dei
magazzini delle catene commerciali, dei centri commerciali, dei
magazzini e delle consegne delle piattaforme di e-commerce, della
distribuzione sul territorio nazionale dei beni acquistati in appalti
centralizzati dalle pubbliche amministrazioni.
Condizioni di
semischiavitù
Dentro la catena
della produzione la logistica occupa un ruolo centrale e non più
residuale. La globalizzazione e l’aumento degli scambi al livello
internazionale hanno reso necessario un ampliamento del settore
legato al trasporto e l’immagazzinamento delle merci: oggi è più
facile acquistare un prodotto dalla Romania e riceverlo in pochi
giorni a casa, così come è normale produrre in Bangladesh e vendere
in un qualsiasi negozio di una piccola città di (quasi) ogni paese.
Per renderlo possibile,
le diverse fasi del processo produttivo hanno dovuto subire una netta
trasformazione: dalla fabbrica che tiene insieme tutte le fasi della
produzione alla frammentazione e all’esternalizzazione delle
diverse funzioni che caratterizzano l’intero processo.
È avvenuta così la
terziarizzazione dell’economia: le imprese produttrici hanno
scoperto che gestire da sole la distribuzione dei loro prodotti
implicava costi troppo elevati, soprattutto in un mercato globale.
Altre imprese avrebbero potuto gestire l’immagazzinamento e il
trasporto delle merci di più aziende, riducendo il costo unitario di
ogni singolo prodotto trasportato. All’interno di questo schema, la
logistica rappresenta allora il polo nevralgico su cui scaricare i
costi del processo di accumulazione dei profitti.
La logistica, come
settore di servizio, nasce e si consolida con l’obiettivo di
minimizzare i costi tra il momento della produzione e quello della
vendita: minori costi garantirebbero in teoria prezzi al consumo più
contenuti, competitivi. Ma le aziende del settore logistico hanno
anch’esse ovviamente l’obiettivo del profitto, al di là di quel
che succede a monte e a valle della filiera.
Così il passaggio
successivo è comprimere i costi, robotizzando alcune fasi e/o agendo
sul costo del lavoro. Entrambi i meccanismi – frammentazione ed
esternalizzazione da una parte, e robotizzazione dall’altra –
producono un aumento del reddito dell’impresa e spesso non si
escludono l’uno con l’altro. Al contrario, laddove non è
possibile robotizzare, è con l’intensificazione dei ritmi di
lavoro che si estrae ciò che un tempo sarebbe stato comunemente
definito plusvalore.
La rappresentazione
giornalistica delle morti sul lavoro ha spesso facilitato una sorta
di scissione tra le cause scatenanti la tragedia e l’evento tragico
in sé. I fatti raccontati con la puntualità della cronaca
giornalistica hanno alimentato nell’opinione pubblica un sentimento
di indignazione verso le tragedie consumate sui luoghi di lavoro,
spostando però l’attenzione sulla dimensione emotiva e
tralasciando più o meno volontariamente i fattori all’origine
della tragedia.
Un’ombra copre
l’analisi dei meccanismi che generano le morti bianche, privando
l’opinione pubblica di un piano complessivo di osservazione. Questa
tendenza del racconto giornalistico assume particolare interesse
quando le morti sul lavoro investono un settore considerato ai
margini del processo produttivo, come la logistica. In questo caso,
infatti, la tendenza a identificare l’incidente sul lavoro come
un’eccezione assume un portata ancora più vasta.
La negazione del
conflitto
La logistica,
infatti, è considerata come un processo periferico nell’ambito
della produzione capitalistica. Le attività di stoccaggio, trasporto
merci e gestione delle scorte rappresentano fasi “rimosse” di un
processo produttivo che invece si compie e si materializza
nell’esercizio del consumo.
Ma sotto il velo della
versione del capitale, in cui il consumo assolve i tratti di una
funzione liberatoria in grado di soddisfare l’appetito del
consumatore, c’è la materialità di rapporti di produzione basati
sulla messa a valore di ogni aspetto della vita umana.
L’intensificazione dello sfruttamento nel settore della logistica
diventa quindi il paradigma della trasformazione dei processi di
accumulazione del capitale: e non si tratta solo della messa a valore
della forza lavoro, ma riguarda anche la sfera della riproduzione
sociale, ossia della nostra vita.
L’intensificazione dei
tempi di lavoro, che è un tratto tipico dell’organizzazione del
lavoro nel settore logistico, mette in soffitta qualsiasi distinzione
temporale tra il piano dell’accumulazione dei profitti nella sfera
produttiva (il tempo del lavoro) e quella riproduttiva (il tempo
libero). Gli operatori della logistica sperimentano nel quotidiano
della loro attività la totale privazione di un tempo di vita libero,
rappresentando un esempio concreto dei meccanismi di funzionamento
alla base del sistema capitalistico.
Gli orari di lavoro che
si spingono fino alle dodici ore consecutive sono il tratto evidente
del controllo esercitato dal nuovo modello di produzione e consumo.
Inoltre, la separazione tra chi produce e chi consuma maschera anche
l’impoverimento generalizzato dei lavoratori.
Un’elevata percentuale
di chi lavora nella logistica è composta da immigrati a cui non è
riconosciuta quella sfera riproduttiva, quel tempo libero, di cui
invece gode, magari fittiziamente, il precariato italiano.
Anche in altre sfere
produttive, in particolare nell’ambito del terziario (servizi,
ristorazione, cura) e del lavoro cognitivo, il modo più semplice per
fare profitti è il prolungamento dei tempi di lavoro. Ma da
periferia del modello produttivo ad avanguardia delle nuove forme di
sfruttamento, è proprio il settore della logistica che coinvolge
sempre più persone, si espande, e diventa una chiave di lettura
utile per riconoscere le contraddizioni di fondo del progetto
neoliberista.
Le difficoltà del
sindacato
Dall’introduzione
del rapporto di lavoro interinale istituito dall’ex ministro del
lavoro Tiziano Treu alla legge numero 276 del 2003 (legge Biagi) che
introduce nel nostro ordinamento il lavoro in somministrazione, il
settore della logistica è al centro di un processo progressivo di
precarizzazione.
La competizione
internazionale, basata sulla compressione dei costi, e la tendenza
crescente del sistema delle imprese a esternalizzare alcune fasi
della produzione, hanno coinciso con una serie di leggi che hanno
lasciato ampio margine per frazionare l’organizzazione del lavoro.
A fare le spese di questo processo è il settore della logistica, in
cui si fa sempre più ricorso al subappalto di manodopera, spesso
affidato a cooperative “spurie”, prive di quei connotati
mutualistici riconosciuti dalla nostra costituzione.
E qui arrivano le
difficoltà per i sindacati. Frammentare la produzione e
l’organizzazione del lavoro ha alimentato una crescente difficoltà
per le organizzazioni sindacali di costruire lotte unitarie. Si sono
così create nel tempo delle divisioni nell’ambito del movimento
sindacale, arrivando a una scissione di fatto tra sindacati di base,
più vicini alle rivendicazioni dei lavoratori del settore, e
sindacati confederali più attenti a salvaguardare un piano di
mediazione generale con il sistema dell’impresa.
Questa separazione ha
determinato la vera difficoltà nel cercare di ottenere contratti
collettivi che possano tutelare l’intero comparto produttivo e i
diritti dei lavoratori coinvolti. La marginalità della logistica e
la sua espulsione progressiva da un piano di regole costituzionali
hanno accelerato quel processo di precarizzazione dei rapporti di
lavoro, che è all’origine delle tragiche notizie di cronaca.
Seppur con le dovute
eccezioni, le grandi organizzazioni sindacali hanno registrato un
limite evidente nella sottovalutazione delle nuove forme di
organizzazione del lavoro funzionali agli obiettivi
dell’accumulazione capitalistica. In particolare, non hanno saputo
interpretare i tratti salienti della nuova divisione del lavoro,
mancando di una visione complessiva sul funzionamento della macchina
capitalistica. Hanno pensato di tamponare una slavina.
Si è accettato che
produzione e consumo siano due dimensioni scisse, distanti, che non
hanno a che fare l’una con l’altra. E la supremazia del diritto
del consumatore all’acquisto della merce, come la distinzione
gerarchica tra chi consuma e chi produce, hanno allontanato il
sindacato dalla vera posta in gioco, che resta la messa in
discussione dell’intero modello di sviluppo.
Da questa tendenza
difensiva che privilegia la conservazione di una posizione di rendita
per i sindacati, deriva l’incapacità di spostare la dimensione del
conflitto verso l’insieme dell’organizzazione del lavoro per
incidere invece su tutto il processo: produzione, logistica, vendita,
consumo.
(Da:
https://www.internazionale.it/opinione/marta-fana/2016/09/25/piacenza-logistica-diritti-lavoro
)