TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 25 ottobre 2023

Italo Calvino e la Massoneria

 


Nel fiume di pubblicazioni che stanno celebrando il centenario della nascita di Italo Calvino e che ne tratteggiano i molteplici aspetti della vita e della creazione letteraria non si trova quasi traccia del rapporto profondo che legò il grande scrittore alla Massoneria. Rapporto di cui si ritrovano tracce evidenti in tutta la sua opera a partire da un passaggio de “La strada di San Giovanni”, una sorta di bilancio che Calvino fa nel 1961 della sua giovinezza. Parlando dell'amore del padre per la campagna egli scrive:

“La tavola dove si posava la frutta e la verdura e si riempivano le ceste da portare giù, era sotto il fico, a fianco dell'antico casolare di Cadorso, (dove viveva la famiglia dei manenti) con ancora la traccia sbiadita, sopra la porta, del simbolo massonico che i vecchi Calvino mettevano sulle loro case”.

Frase rivelatrice del legame profondo che da sempre univa la sua famiglia alla Massoneria. Legame antico se nel 1874 fra i dieci fondatori della loggia “Liguria”, prima loggia del GOI a Sanremo risultano il nonno e lo zio dello scrittore, il medico e floricoltore GioBernardo Calvino e suo fratello GioBatta. Il 26 marzo 1900 la “Liguria” gemmava una nuova officina: la “Giuseppe Mazzini”. Fra i fondatori ritroviamo il nonno di Calvino, GioBernardo poco dopo raggiunto dai figli, Mario e Quirino, rispettivamente padre e zio di Italo.

In un articolo uscito l'anno precedente nel numero di settembre-dicembre della rivista “Il Paradosso”, Calvino aveva descritto con ricchezza di particolari l'ambiente culturale nel quale era cresciuto, sottolineando come la vita della famiglia fosse improntata a rigorosi principi etici di origine laica e repubblicana e come ciò comportasse una netta presa di distanza dal regime fascista allora all'apice del consenso:

“ La mia famiglia era piuttosto insolita sia per San Remo sia per l'Italia d'allora: i miei genitori erano persone non più giovani, scienziati, adoratori della natura, liberi pensatori, personalità diverse tra loro ed entrambe all'opposto dal clima del paese. Mio padre, sanremese, di famiglia mazziniana repubblicana anticlericale massonica, era stato in gioventù anarchico kropotkiniano e poi socialista riformista, aveva vissuto nell'America Latina molti anni e non aveva conosciuto l'esperienza della Guerra mondiale; mia madre, sarda, di famiglia laica, era cresciuta nella religione del dovere civile e della scienza, socialista interventista nel '15 ma con una tenace fede pacifista. Ritornati in Italia dopo anni all'estero mentre il fascismo stabiliva il suo potere, avevano trovato un'Italia diversa, difficilmente comprensibile. Mio padre cercava senza fortuna di mettere al servizio del suo paese la sua competenza e la sua onestà (…) mia madre, sorella d'un professore universitario firmatario del manifesto Croce, era d'un antifascismo intransigente. Cosmopoliti entrambi per vocazione ed esperienze (...) Il fascismo s'inseriva in questo quadro come una via tra le tante, ma condotta da ignoranti e disonesti. La critica al fascismo nella mia famiglia, oltre che per la violenza, l'ingordigia, la soppressione della libertà di critica, l'aggressività in politica estera, si appuntava soprattutto su due peccati capitali: l'alleanza con la monarchia e la conciliazione col Vaticano (…) Da bambino sentendo i discorsi dei grandi a casa mia, ebbi sempre per ovvia l'impressione che in Italia andasse tutto per traverso”.

Date queste premesse non stupisce che in uno dei suoi primi scritti importanti, “La Riviera di Ponente”, suo esordio su “Il Politecnico” di Elio Vittorini, rivista centrale nel panorama culturale italiano di quegli anni, il giovane scrittore tracciasse nel novembre 1945 una sintetica ricostruzione del ruolo importante svolto dalla Massoneria in Liguria e più in generale in Italia, nel Risorgimento prima e nella costruzione dello Stato unitario poi:

“ Battuto Napoleone, nel 1814, i Savoia si trovarono padroni della regione. Come conseguenza si ebbe che, al Risorgimento, la borghesia ligure, tradizionalmente repubblicana, diede i suoi uomini migliori alla cospirazione ed alla lotta dei Mazzini e dei Garibaldi. Delle vecchie famiglie borghesi, chi non era bigotto e clericale era nei carbonari, o nei mazziniani, o nella Massoneria. La Massoneria soprattutto finì per raggruppare intorno a sé tutte le energie progressive dell’epoca e per temperar ogni slancio rivoluzionario: il repubblicanesimo diventò un puro sfogo verbale e la lotta si polarizzò sull’anticlericalismo. Così due forze dominarono la vita pubblica della Liguria di Ponente: la Chiesa e la Massoneria. E due furono i partiti che si contesero le amministrazioni: il conservatore (clericale e monarchico) e il socialista (sostenuto e temperato dalla Massoneria)…”.

A quell'epoca lo scrittore è fresco di militanza comunista, si era iscritto al partito nel 1944 durante la guerra partigiana, ma, nonostante la diffidenza se non l'ostilità del PCI verso la Massoneria, non esita a riconoscere l'importanza del ruolo svolto da questa nella storia d'Italia. E non è, come si potrebbe pensare, una semplice ripresa adattata al contesto ligure delle tesi gramsciane sul Risorgimento sviluppate nei “Quaderni del carcere”, di cui allora non si conosceva neppure l'esistenza visto che la casa editrice Einaudi ne iniziò la pubblicazione solo nel 1948, ma di una riflessione del tutto personale, acutissima nella sua sinteticità, derivante dalla conoscenza diretta frutto della sua personale esperienza dato che, come si è visto, le due storie, quella della Massoneria nel Ponente ligure alla fine dell'Ottocento e quella della famiglia Calvino, risultavano inestricabilmente connesse. Una conoscenza profonda della storia e dei riti massonici che riemergerà un decennio più tardi nel romanzo “Il barone rampante”.

Il barone rampante”

Nel 1957 Calvino pubblica “Il barone rampante”, secondo capitolo de “I nostri antenati”, insieme a “Il visconte dimezzato” (1952) e “Il cavaliere inesistente” (1959). In questo romanzo, che abbraccia tutto il periodo della Rivoluzione francese iniziando nel ventennio immediatamente precedente e concludendosi in piena Restaurazione lo scrittore fa precisi riferimenti alla Massoneria. In particolare nel capitolo XXV che è interamente dedicato alla vita massonica non proprio ortodossa del protagonista e in cui si può leggere questa illuminante annotazione:

“Nella Massoneria Cosimo dunque non faceva che ripetere quel che già aveva fatto nelle altre società segrete o semisegrete cui aveva partecipato. E quando un certo Lord Liverpuck, mandato dalla Gran Loggia di Londra a visitare i confratelli del Continente, capitò a Ombrosa mentre era Maestro mio fratello, restò così scandalizzato dalla sua poca ortodossia che scrisse a Londra questa d’Ombrosa dover essere una nuova Massoneria di rito scozzese, pagata dagli Stuart per fare propaganda contro il trono degli Hannover, per la restaurazione giacobita”.

Per il lettore comune un periodo buttato là con nonchalance, come una annotazione fra le tante, ma per chi ha gli strumenti per comprenderne le implicazioni profonde, la testimonianza della conoscenza di prima mano che l'autore aveva delle cose massoniche, considerato che la cosiddetta massoneria dissidente “giacobita” è da sempre argomento per accademici e specialisti della materia e in quanto tale, non solo del tutto sconosciuto ai “profani”, ma spesso poco noto anche agli stessi appartenenti all'istituzione libero muratoria.

Tornando al “Il barone rampante”, il romanzo racconta la storia di un giovane aristocratico del Ponente ligure, Cosimo Piovasco di Rondò, che all’età di dodici anni, in seguito a un litigio con i genitori si arrampica su un albero del giardino di casa per non scendervi più per il resto della vita. Come via via raccontato dal fratello, voce narrante del romanzo, quell'atto di ribellione diventa una scelta di vita, un percorso di formazione e maturazione destinato a durare tutta la vita nel tentativo di passare dal caos del mondo a un ordine fondato sulla ragione e su una visione etica della vita. Il romanzo si chiude con un ultimo colpo di scena: ormai anziano, Cosimo non si arrende e non scende a terra, al passaggio di una mongolfiera, si aggrappa ad un cima penzolante e scompare nel cielo alla ricerca di nuovi superiori orizzonti.

Come si comprende fin dalle prima pagine quella di Cosimo non è una fuga dal mondo, né il rifiuto snobistico o capriccioso di mantenere rapporti con gli altri uomini. Cosimo non è un eremita. Fedele alla sua scelta di vita, Cosimo vive sugli alberi, ma continua a partecipare attivamente alla vita del suo tempo, tanto da interloquire idealmente anche con il grande Voltaire. Semplicemente, scrive Calvino, Cosimo ha compreso che “per essere con gli altri veramente, la sola via era d’essere separato dagli altri”. Detto in altri termini, un'azione mirante ad un cambiamento in meglio del mondo e al “benessere dell'umanità” deve partire da un punto di osservazione esterno alle dispute ideologiche e personali, mantenendosi estranea ad ogni fanatismo. Esattamente quanto predicava negli anni in cui il romanzo è ambientato il massone Voltaire, in questo fedele interprete degli ideali su cui il giorno di San Giovanni Battista del 1717 era stata fondata a Londra, nei locali della taverna “L'oca e la graticola”, la Gran Loggia d'Inghilterra. E d'altronde la frase altro non è che una citazione del filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte che nelle sue famose “Lezioni sulla Massoneria”, pubblicate nel 1802-1803, aveva affermato che solo «uscendo dalla società» e cercando di superare gli svantaggi di una «cultura unilaterale», si poteva diventare uomini veramente liberi e di buoni costumi come i massoni amano definirsi.

Figlio e nipote di massoni, Calvino non fu mai iniziato alla Massoneria, né per quello che se ne sa provò mai il desiderio di esserlo, forse proprio perché massone si sentiva già nel senso più profondo del termine e l'adesione formale sarebbe stata probabilmente fonte di delusione. Perché gli ideali camminano sulle gambe degli uomini che sono spesso terribilmente corte e di questo Calvino, che aveva appena rotto con il PCI, era pienamente consapevole. Di questa adesione ideale, che era anche – sia detto per inciso – riconciliazione con il padre e il suo percorso di vita - “Il barone rampante” resta testimonianza viva nel suo essere non solo romanzo filosofico, intriso di ironia alla maniera settecentesca, ma anche espressione in forma di favola dei fondamenti del pensiero massonico: l'iniziazione (l'abbandono della vita terrestre e la salita sugli alberi) come cambiamento di stato; la ricerca costante della verità non fine a sé stessa ma finalizzata al miglioramento della condizione umana; il Tempio (la chioma degli alberi) come luogo separato dal caos del mondo dove meditare sulla vita per raggiungere uno stato superiore di coscienza. E nel cielo stellato che sovrasta sia il bosco che il Tempio massonico, Cosimo sparisce a simboleggiare che la morte è solo un ulteriore passaggio di stato, proprio come lo è da sempre l'iniziazione ai Misteri.

Ne abbiamo già accennato: il momento in cui il romanzo viene scritto è estremamente significativo. Calvino è ad una svolta fondamentale della sua vita, analoga per importanza a quella operata nel 1944 quando era salito in montagna per unirsi alle Brigate Garibaldi e aveva chiesto l'iscrizione al Partito comunista. Una scelta etica più che ideologica: “Quando seppi – scrive in “Autobiografia politica giovanile” del 1960 – che il primo capo partigiano della nostra zona, il giovane medico Felice Cascione, comunista, era caduto combattendo contro i tedeschi a Monte Alto nel febbraio 1944 chiesi a un amico comunista di entrare nel partito”.

Sono gli anni della crisi politica dello scrittore, della sua rottura con il Partito comunista e l'abbandono di una militanza politica intensa come conseguenza diretta del dramma dell'Ungheria e delle rivelazioni del XX Congresso del PCUS. Anche questa volta l'aspetto etico è predominante, risposta al fallimento di una fede salvifica rivelatasi fallace. “Il dio che è fallito” aveva non a caso titolato nel 1950 l'ex comunista Silone un suo libro importante che raccoglieva, oltre la sua, testimonianze di altri intellettuali che avevano vissuto gli stessi entusiasmi e la stessa disillusione. Per Calvino, che pure ci aveva creduto fortemente, il comunismo nella sua versione storicamente realizzata non rappresenta, come aveva utopicamente pensato Marx, la risposta finalmente trovata alla alienazione della condizione umana. Altra è la via. La rivoluzione è prima di tutto rivoluzione interiore, conoscenza e miglioramento di sé. Conquiste da riportare nel mondo, perché la vita degli uomini si regga su quei principi di armonia (libertà, eguaglianza, fratellanza) che lo scrittore aveva appreso a conoscere e ad amare in famiglia a contatto con il padre e lo zio e nel ricordo del nonno, combattente alla presa di Porta Pia nel 1870. Per essere con gli altri veramente, la sola via è essere separato dagli altri, afferma Calvino. Proprio quello che aveva scritto centocinquanta anni prima Fichte e che rappresenta l'essenza di quel “segreto” massonico su cui tanto si è scritto a sproposito. Una scelta che i “profani” spesso non comprendono, vedendo in questa voluta separazione dal vociare confuso e caotico del mondo la prova di chissà quali oscure e inconfessabili manovre, ma che rende la Massoneria scuola di vita e non partito o sorta di religione come qualcuno vuole dipingerla per meglio combatterla.

Sarà da queste esperienza traumatica ma illuminante che nasceranno le riflessioni contenute in un altro scritto autobiografico di Calvino, quel già citato “La strada di san Giovanni” in cui nel 1961 lo scrittore ricostruisce il rapporto con il padre negli anni dell'adolescenza.

La strada di San Giovanni”

Nella Strada di San Giovanni Calvino contrappone l’universo del padre, Mario, agronomo e floricoltore di fama internazionale, al proprio di adolescente inquieto:

“Una spiegazione generale del mondo e della storia deve innanzi tutto tener conto di com'era situata casa nostra, nella regione un tempo detta «punta di Francia», a mezza costa sotto la collina di San Pietro, come a frontiera tra due continenti. In giù, appena fuori del nostro cancello e della via privata, cominciava la città coi marciapiedi le vetrine i cartelloni dei cinema le edicole, e Piazza Colombo li a un passo, e la marina; in su, bastava uscire dalla porta di cucina nel beudo che passava dietro casa a monte (sapete i beudi, che derivano le acque dei torrenti per irrigare i terreni della costa: un canaletto a ridosso d'un muro, fiancheggiato da uno stretto marciapiede di lastre di pietra, tutto in piano) e subito si era in campagna, su per le mulattiere acciottolate, tra muri a secco e pali di vigne e il verde.

Era sempre di là che usciva mio padre, vestito alla cacciatora, coi gambali, e si sentiva il passo delle scarpe chiodate per il beudo, e lo scampanellio d'ottone del cane, e il cigolare del cancelletto che dava nella strada di San Pietro. Per mio padre il mondo era di là in su che cominciava, e l'altra parte del mondo, quella di giù, era solo un'appendice, talvolta necessaria per cose da sbrigare, ma estranea e insignificante, da attraversare a lunghi passi quasi in fuga, senza girare gli occhi intorno. Io no, tutto il contrario: per me il mondo, la carta del pianeta, andava da casa nostra in giù, il resto era spazio bianco, senza significati; i segni del futuro mi aspettavo di decifrarli laggiù da quelle vie, da quelle luci notturne che non erano solo le vie e le luci della nostra piccola città appartata, ma la città, uno spiraglio di tutte le città possibili”.

Il paesaggio come punto di partenza per definire un percorso umano, una identità, dunque, ma ancora non basta. Per attribuire senso e significato alla vita il paesaggio non è sufficiente. Perché il paesaggio non è un dato oggettivo, che basta a sé stesso, ma la cristallizzazione dell'occhio che si posa sulle cose e dunque prima di tutto uno stato dell'animo, una presa di posizione. Per poter essere rappresentato il paesaggio deve poter essere introiettato, in qualche modo vissuto, fatto proprio. E proprio a questo serve la vita vissuta come ricerca di sé: a dare senso e significato al caos che ci circonda, alla apparente irrazionalità e casualità dell'esistere. “Ordo ab chao” il motto del Rito Scozzese Antico e Accettato in cui Mario Calvino aveva raggiunto il 33° grado, ma anche la conclusione a cui giunge Italo e che lo riconcilia idealmente con il padre nel riconoscere che, anche se in forme diverse, la strada cercata era stata la stessa:

“Capite come le nostre strade divergevano, quella di mio padre e la mia. Ma anch'io, cos'era la strada che cercavo se non la stessa di mio padre scavata nel folto d'un'altra estraneità, nel sopramondo (o inferno) umano, cosa cercavo con lo sguardo negli androni male illuminati nella notte (l'ombra d'una donna, a volte, vi spariva) se non la porta socchiusa, lo schermo del cinematografo da attraversare, la pagina da voltare che immette in un mondo dove tutte le parole e le figure diventassero vere, presenti, esperienza mia, non più l'eco di un'eco di un'eco”.

Attraversare lo schermo del cinematografo, voltare pagina alla ricerca di un altrove dove le parole abbiano sostanza e non siano l'eco di altri echi, scrive Calvino. E questo per scoprire la propria individualità, il proprio essere autentico. Sono i motivi per cui si bussa alla porta del Tempio, per cui si cerca la Luce. Ed è questa ricerca che innerva la vita e l'opera letteraria di Italo Calvino a rendere lo scrittore un Massone non iniziato, un Massone nel cuore.

Savona - Ottobre 2023


giovedì 12 ottobre 2023

A proposito di un graffito antisemita attribuito a Banksy

 

Si può discutere della questione palestinese, delle responsabilità e delle colpe dei governi israeliani, della condizione terribile in cui molti palestinesi sono da decenni costretti a vivere, di tutto quello che si vuole. Ognuno ha il diritto di pensarla come vuole e di sostenere le sue idee. E' la base stessa della convivenza civile e della democrazia.

Ma equiparare la condizione dei bambini palestinesi oggi a quella dei bambini ebrei nei campi di sterminio, rappresenta una tale mancanza di cultura storica, una menzogna così grande che non ci può essere confronto possibile.

Ho amici di ogni idea politica, anche di destra, che rispetto e con cui mi confronto volentieri pur sapendoli lontanissime dalle mie idee. Ma gli antisemiti, soprattutto quelli di sinistra, no. Con loro non voglio avere alcun rapporto.

Mi ripeto, sarete anche andati ad Auschwitz, celebrerete pure la Giornata della Memoria, ma se mettete sullo stesso piano la condizione dei bambini ebrei nei campi di sterminio con quella dei bambini palestinesi oggi, vuol dire che non avete capito nulla. Vi scandalizzate se qualcuno accosta le foibe o il gulag ai crimini nazisti, dite, giustamente, che non sono fenomeni paragonabili, ma quando si tratta di Israele allora i distinguo non valgono più.

Vergognatev

martedì 10 ottobre 2023

A qualcuno gli ebrei piacciono solo morti

 


Oltre a lanciare 5000 missili sulle città israeliane, Hamas ha occupato una ventina di insediamenti ebraici sul confine di Gaza. Ma non si è limitata all'effetto propagandistico della riconquista simbolica di una parte del territorio che considera storicamente suo, ne ha ucciso sistematicamente gli abitanti senza di distinzione di età e di sesso, ha violentato le donne, ha rapito bambini e donne esposte nude nelle vie di Gaza o , come i bambini, chiusi in gabbie per cani.

Nel suo documento fondativo Hamas si propone da sempre la distruzione dello Stato di Israele. Con questa azione ha voluto dimostrare che distruzione di Israele significa concretamente e deliberatamente lo sterminio del popolo ebraico. Ogni ebreo è per Hamas un nemico da abbattere, anche se è un bambino di quatto anni o una ragazza di sedici o una donna di 85.

Chi parla del probabile attacco israeliano a Gaza come di una rappresaglia, e prende una posizione di equidistanza, o non capisce o non vuol capire che Israele sta lottando per la sua sopravvivenza, fisica prima che politica, contro una guerra di sterminio. Non capisce che la prima vittima del fanatismo di Hamas sono proprio i civili palestinesi usati cinicamente come scudo e, se vittime, come arma di propaganda per rinfocolare nel mondo arabo e non solo, basta vedere le reazioni di una certa sinistra italiana, l'odio contro gli ebrei. Anche solo per questo, chi sostiene le legittime ragioni del popolo palestinese, chi davvero è per la pace, non può non essere contro i tagliagole di Hamas.

Chi difende Hamas, con i distinguo da anima bella sui se e i ma, chi non si schiera, chi parla di pace in astratto, si rende complice, ne sia consapevole o no, di una nuova Shoah. Sono magari andati a Aushwitz ma non hanno imparato nulla. Il loro è stato solo un macabro turismo dell'orrore. Perché per questi "pacifisti", per questi spiriti superiori, gli ebrei devono essere sempre e solo vittime. Questo è il loro unico modo di accettare l'ebreo. Se gli ebrei si alzano in piedi e combattono, se non accettano più di farsi massacrare senza reagire, tornano ad essere i "perfidi giudei". Sono antisemiti nel profondo del cuore, ma parlano di pace e fratellanza.



domenica 1 ottobre 2023

I servizi segreti USA nella campagna d'Italia e nella Resistenza

 


Giorgio Amico

I servizi segreti USA nella campagna d'Italia e nella Resistenza


Abbiamo appena terminato la lettura di "La campagna d'Italia dei servizi segreti americani 1943-1945" dell'italo-americano Max Corvo che di quella storia fu uno dei principali protagonisti.

Dettagliatissimo sul piano militare, il libro (uscito negli Sati Uniti nel 1990 e in Italia nel 2006) risulta invece estremamente deludente su quello politico, disattendendo le attese di chi si aspettava qualche informazione sui rapporti dei servizi americani con la realtà complessa e contradditoria della Sicilia.

Attesa inutile perché l'autore, uno dei principali capi dell'OSS in Italia, si guarda bene dall'accennare anche di sfuggita ai rapporti con la mafia. Rapporti che pure ci furono e intensi, come documentato da una significativa mole di documenti via via desecretati negli anni dalla CIA che nel 1947 prese il posto dell'OSS, sciolto nel 1946.

Pur dedicando quasi metà del libro prima alla preparazione della Operazione Husky, nome in codice dello sbarco in Sicilia e poi alla conquista dell'isola, Max Corvo evita con la massima attenzione di usare il termine mafia, che non appare mai nel libro.

Nella postfazione all'edizione italiana il figlio (Max Corvo era morto nel 1994) si affanna a smentire quanti, e sono molti, hanno accennato a questi legami che costarono il richiamo in America nel settembre 1945 di Corvo, Scamporino e i loro principali collaboratori definiti in un rapporto a Washington "la banda dei siciliani".

D'altronde lo stesso racconto di Corvo su come divenne prima un agente e poi di fatto la mente strategica della missione OSS in Italia appare, per chi conosca anche vagamente le logiche di un apparato militare, assolutamente non credibile.

Racconta Max Corvo, ricordiamolo emigrato negli USA dalla Sicilia a nove anni, di avere mentre frequentava un centro addestramento reclute (si era arruolo volontario nell'esercito nel 1942) di aver trasmesso ai suoi superiori le linee guida di un piano per l'invasione della Sicilia.

Corvo era allora un giovane di 22 anni, di estrazione popolare e senza alcun titolo di studio o particolare preparazione in materia, eppure – udite, udite – gli si spalancarono immediatamente le porte di Washington. Fu immediatamente arruolato nell'OSS, ricevuto dai "grandi capi" Bill Donovan e Earl Brennan, inserito nella struttura che preparava l'invasione e dotato di pieni poteri nella scelta dei suoi collaboratori. Cosa che egli prontamente fece, arruolando quella che uno studioso ha chiamato la "Connecticut connection", cioè una serie di italoamericani di origine siciliana residenti nel Connecticut, Stato da dove proveniva lo stesso Corvo.

Insomma, uno sconosciuto soldatino di vent'anni che da un giorno all'altro si trova a dare disposizioni a generali e esperti di fama. Tanto che, ricorda, per salvar le forme mi dovettero nominare almeno tenente.

Una storia francamente poco credibile. Più realistico pensare ai contatti che le famiglie, tutte di recente immigrazione, di Corvo e dei suoi collaboratori ancora mantenevano in Sicilia. Ovviamente non si può affermare che si trattasse di contatti mafiosi, ma molte cose portano a pensarlo.

Che poi i metodi di Corvo non fossero dei più ortodossi anche per un servizio segreto, cioè per una organizzazione deputata a giocare sporco, lo dimostra il caso del maggiore Holohan, un ufficiale dell'OSS misteriosamente scomparso dopo essersi paracadutato a capo di una missione nei dintorni del lago d'Orta. L'ufficiale scompare nel dicembre 1944 e ancora nel 1990 Corvo lo dichiara "disperso". In realtà il povero maggiore proprio disperso non era, tanto che il suo cadavere fu ripescato dal lago nel 1947 con due fori di proiettile in testa. Furono due partigiani a far ritrovare il corpo, conducendo i carabinieri nel luogo dove due anni prima avevano occultato il cadavere. Ne seguì un processo terminato con la condanna per omicidio degli altri due militari americani componenti la missione. Militari, detto per inciso, processati in contumacia, perché il governo americano non acconsentì mai all'estradizione neppure dopo la condanna.

Un avvenimento dagli aspetti ancora misteriosi, legato a questioni sordide, i 16 mila dollari destinati ai partigiani che l'ufficiale aveva con se, e a una lotta di potere dentro la sezione italiana dell'OSS che in qualche modo coinvolgeva anche lo stesso Corvo.

Nel suo libro Corvo fa un accenno sprezzante al processo definendolo una farsa gestita da un giudice comunista. In realtà si trattò di una inchiesta condotta con grande serietà come documenta l'accurato studio dedicatogli da Adriano Maini, serissimo ricercatore e fraterno amico, reperibile al seguente link La Missione Chrysler Mangosteen ed il lago dei misteri | Storia minuta .

Anche questo un motivo in più per nutrire seri dubbi sull'attendibilità di quanto raccontato da Corvo nel suo libro. Unica eccezione, il racconto dettagliato di come l'OSS, nella persona del capitano Emilio "Mim" Daddario, riuscì nei giorni dell'insurrezione dell'aprile 1945 a raggiungere e mettere poi in salvo a Roma il generale Graziani, massimo responsabile delle Forze armate della RSI, nonché feroce criminale di guerra durante la conquista dell'Etiopia, sottraendolo alla giustizia partigiana che gli avrebbe riservato il destino di Mussolini e dei gerarchi fucilati a Dongo.


Max Corvo
La campagna d'Italia dei servizi segreti americani 1943-1945
Libreria Editrice Goriziana
Gorizia 2006

Per una storia della Massoneria nell'Italia repubblicana

 


Giorgio Amico

Per una storia della Massoneria nell'Italia repubblicana


La bibliografia sulla storia della Massoneria italiana è vastissima, ma, a parte una molteplicità di libelli antimassonici di valore scarso o nullo apparsi a partire dallo scandalo P2, non esiste a tutt'oggi un'opera sulla Massoneria negli anni della Repubblica che ne ricostruisca con rigore storico percorsi e personaggi inseriti nei concreti snodi storici di questi ottant'anni. Esistono certo contributi di valore, non molti in verità, ma come parte, spesso molto limitata, di opere di portata più complessiva. Il resto è o un tentativo di riciclare in salsa “democratico-antifascista” il tema sempre efficace del complotto pluto-giudaico-massonico, depurato almeno formalmente dai toni antisemiti, oppure si riduce sull'altro versante ad operazioni agiografiche se non apertamente nostalgiche dei bei tempi in cui c'era “Lui” (Gelli, non Mussolini. Sia chiaro!) e la Massoneria contava ancora qualcosa. Quello, di cui presentiamo di seguito un paragrafo, fa parte del tentativo di scrivere questa storia che manca, partendo dai primi fermenti di ricostituzione del 1943 per arrivare all'oggi, utilizzando criteri rigorosamente storici nell'analisi della documentazione esistente, a partire proprio dai centoventidue volumi degli Atti della Commissione P2. Il centro della nostra ricerca verterà, come è naturale, sulla autentica Massoneria, quella definita “regolare” e cioè internazionalmente riconosciuta, e dunque in larga parte sul Grande Oriente d'Italia. Tratteremo comunque, quando necessario, anche della fungaia di Gran Logge e Supremi Consigli farlocche o “spurie”, per usare il termine massonico, prive di ogni legittimità e talvolta finalizzate alla gestione di operazioni politico-economiche disinvolte se non addirittura espressione del rapporto con ambienti e personaggi del crimine organizzato. Un fenomeno non piccolo che ha riguardato, e riguarda anche oggi, centinaia di gruppi spesso di fatto inesistenti ma dai nomi altisonanti e che per un “profano”, quando ne legge sui giornali, rappresentano comunque la Massoneria. In questa confusione risiede il dramma della Massoneria italiana che non è esente comunque da responsabilità. Insomma, anche in Massoneria, maledire il destino cinico e baro porta poco lontano. Meglio fare i conti senza timori con la propria storia. E in questa prospettiva che abbiamo scelto fra il materiale in bozza un paragrafo che tratta della scelta, sciagurata, di tacere sulle deviazioni della Loggia P2, quando più necessario e urgente, oltre che massonicamente corretto, sarebbe stato fare pulizia al proprio interno. Buona lettura.


1976. La scelta del silenzio

Alla metà degli anni Settanta il Grande Oriente è sulla difensiva. Sui principali organi di stampa nazionali si intensificano gli articoli che chiedono chiarezza sulla Loggia P2, associata a eventi torbidi che vanno dal fiancheggiamento del terrorismo stragista neofascista ai rapporti con l'anonima sequestri messa in piedi a Roma dal malavitoso italo-francese Albert Bergamelli che, arrestato il 29 marzo 1976, aveva dichiarato agli inquirenti di godere della protezione di una “grande famiglia”. Le accuse sono pesanti, gli articoli si moltiplicano, soprattutto su organi non privi di autorevolezza come i settimanali “L'espresso” e “Panorama”, punti di riferimento di un segmento importante dell'opinione pubblica, laico e riformista, difficilmente rappresentabili come espressione del tradizionale antimassonismo clericale né di quello più recente di matrice comunista o fascista.

Il manifesto del Grande Oriente in occasione della ricorrenza del XX Settembre, testimonia nel 1976 dell'imbarazzo del Gran Maestro, Lino Salvini, firmatario di un proclama interamente teso alla difesa dell'Ordine:

«Italiani! L'anniversario dell'unità d'Italia trova, quest'anno, il nostro paese travagliato da incertezze sociali, politiche ed economiche. I Liberi Muratori partecipano, in silenzio, alla soluzione di queste incertezze sempre riaffermando i supremi principi di libertà e di difesa della personalità umana. Una velenosa campagna giornalistica ha tentato di ritardare quest'opera con assurde calunnie e monotone argomentazioni attribuendo all'Istituzione, per fini più o meno manifesti, fatti che le sono estranei. La Massoneria accoglie nelle sue fila uomini di tutte le razze, di tutte le religioni, di tutte le tendenze politiche e ne compie il magico affratellamento. Essa non risponde degli eventuali errori che, separatamente, qualcuno può commettere, come, direttamente, non partecipa alle azioni di quei fratelli che, uscendo allo scoperto, a costo di personali sacrifici, danno corpo ai suoi insegnamenti e sanno costruire la storia. Il 20 settembre resta patrimonio di questa realtà e di tali sacrifici».

Una difesa debole, destinata più a ricompattare una base, non poco scossa da ciò che sta accadendo, che non agli “Italiani”. Un manifesto dai toni retorici che evita accuratamente di confrontarsi con gli interrogativi che tanti iniziano a porsi, compresi alcuni autorevoli esponenti del GOI immediatamente definiti dalla stampa “massoni democratici”. Un tirarsi fuori, accennando ad “eventuali errori” da parte di non meglio precisate entità, che non solo non serve a far chiarezza, ma crea nuove domande. In particolare quell'avverbio “separatamente” fa pensare a realtà fuori controllo, a intrighi di persone o gruppi che di fatto agiscono in totale autonomia rispetto all'Istituzione. Ma se è davvero così, cosa si aspetta allora, questa è la domanda sottintesa a molti degli articoli apparsi in quel periodo sulla stampa, a fare pulizia, citando nomi e fatti e facendo finalmente chiarezza? Proprio quello che Salvini, prigioniero, come si è visto di una rete di ricatti e minacce, non può fare.

Negli stessi giorni il numero di settembre della “Rivista Massonica” pubblica un lungo editoriale del direttore Giordano Gamberini, dal significativo titolo “La scomunica del XX secolo”, nel quale l'ex Gran Maestro nonché principale mentore di Licio Gelli, sottolinea il livore antimassonico di un filone di pensiero che va da Trotsky all'Enciclopedia Sovietica, alla Terza Internazionale per soffermarsi poi a lungo sul comunismo francese. Nel modo di esprimersi allusivo e ambiguo che lo contraddistingue, lo “spiritualista” Gamberini lascia in questo modo intendere che la campagna giornalistica riguardante la Massoneria sia frutto di ambienti legati a un settore preciso del mondo politico italiano, quel Partito comunista, mai esplicitamente nominato,  che vedrebbe nella Massoneria il principale ostacolo alla sua ascesa al potere. Da qui il tentativo di delegittimazione in atto. 

"L'avversario - scrive Gamberini - ha abbandonato i riguardi per i suoi ingenui fiancheggiatori dalla firma facile e ci aggredisce quasi più senza infingimenti.  Meglio così.  L'attacco che ci viene sferrato  libererà le nostre colonne dai falsi fratelli  e libererà i fratelli veri dalla illusione di una possibile neutralità, di una «terza via»",

Un linguaggio violento, da guerra fredda, non a caso Gamberini fa un esplicito riferimento, quasi a suggerire un parallelo, con il momento cruciale delle elezioni politiche del 1948, volta a rassicurare i Fratelli americani su ciò che sta accadendo nella Massoneria italiana e a richiedere il loro sostegno in nome dell'anticomunismo. Ricordiamo sempre che siamo negli anni del compromesso storico, della possibile apertura ai comunisti da parte della DC di Aldo Moro. Una ipotesi che terrorizza non solo la parte più conservatrice della borghesia italiana, ma ben più potenti e sotterranei ambienti politico-militari atlantici e non solo. Una fase destinata a chiudersi con il rapimento e l'assassinio dell'esponente politico democristiano. Un esito reso possibile o almeno facilitato dalla fallimentare azione investigativa degli organi di sicurezza, civili e militari, i cui capi risulteranno poi pressoché senza eccezione presenti nella lista dei membri della P2 sequestrata nel 1982 a Castiglion Fibocchi.

Una ambiguità, quella dei principali esponenti massonici, destinata a continuare per culminare infine in un trafiletto della “Rivista Massonica”, non firmato e dunque attribuibile a Gamberini, in cui si afferma:

«Di fronte alla sempre più evidente organizzata e sistematica persecuzione di cui siamo fatti bersaglio da alcuni anni, ammaestrati dall'esperienza antica e recente sull'impossibilità di ottenere un'adeguata protezione contro la calunnia e la diffamazione, affermiamo che d'ora innanzi rinunceremo a censire le menzogne quasi giornaliere escogitate dai nostri nemici, a smentirle o a contraddirle, così come d'ora innanzi prevediamo che ci asterremo da ogni ulteriore tentativo di avvalerci di quelle guarentige che i fondatori della Patria intesero assicurare a tutti, in virtù di una legge uguale per tutti». (Rivista Massonica, n. 10, dicembre 1977, pag. 578.)

Ed in effetti, visto l'atteggiamento impacciato, esitante, reticente e goffo degli ex Gran Maestri Salvini, Gamberini e Battelli durante le audizioni della Commissione P2, si capisce come fosse ben chiaro a chi aveva a lungo tollerato se non addirittura coperto l'opera disgregatrice di Gelli, che ogni tentativo di querela nei confronti della stampa si sarebbe inevitabilmente trasformato in un immediato autogol, facendo diventare materiale giudiziario quel fiume inarrestabile di documenti e testimonianze che continuava ad apparire a cadenza settimanale. Cosa che poi comunque accadrà durante i lavori della Commissione Parlamentare di inchiesta sulla P2, producendo gli effetti che tutti conosciamo. Da qui la scelta di rinchiudersi in un silenzio vittimistico, ammantato di sdegno. Alla faccia, verrebbe da dire, di quella “Luce” ricercata dai nuovi Fratelli quando bussano alla porta del Tempio per essere accolti fra le colonne della Bellezza (la Verità) e della Forza (la Giustizia).