TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 25 ottobre 2023

Italo Calvino e la Massoneria

 


Nel fiume di pubblicazioni che stanno celebrando il centenario della nascita di Italo Calvino e che ne tratteggiano i molteplici aspetti della vita e della creazione letteraria non si trova quasi traccia del rapporto profondo che legò il grande scrittore alla Massoneria. Rapporto di cui si ritrovano tracce evidenti in tutta la sua opera a partire da un passaggio de “La strada di San Giovanni”, una sorta di bilancio che Calvino fa nel 1961 della sua giovinezza. Parlando dell'amore del padre per la campagna egli scrive:

“La tavola dove si posava la frutta e la verdura e si riempivano le ceste da portare giù, era sotto il fico, a fianco dell'antico casolare di Cadorso, (dove viveva la famiglia dei manenti) con ancora la traccia sbiadita, sopra la porta, del simbolo massonico che i vecchi Calvino mettevano sulle loro case”.

Frase rivelatrice del legame profondo che da sempre univa la sua famiglia alla Massoneria. Legame antico se nel 1874 fra i dieci fondatori della loggia “Liguria”, prima loggia del GOI a Sanremo risultano il nonno e lo zio dello scrittore, il medico e floricoltore GioBernardo Calvino e suo fratello GioBatta. Il 26 marzo 1900 la “Liguria” gemmava una nuova officina: la “Giuseppe Mazzini”. Fra i fondatori ritroviamo il nonno di Calvino, GioBernardo poco dopo raggiunto dai figli, Mario e Quirino, rispettivamente padre e zio di Italo.

In un articolo uscito l'anno precedente nel numero di settembre-dicembre della rivista “Il Paradosso”, Calvino aveva descritto con ricchezza di particolari l'ambiente culturale nel quale era cresciuto, sottolineando come la vita della famiglia fosse improntata a rigorosi principi etici di origine laica e repubblicana e come ciò comportasse una netta presa di distanza dal regime fascista allora all'apice del consenso:

“ La mia famiglia era piuttosto insolita sia per San Remo sia per l'Italia d'allora: i miei genitori erano persone non più giovani, scienziati, adoratori della natura, liberi pensatori, personalità diverse tra loro ed entrambe all'opposto dal clima del paese. Mio padre, sanremese, di famiglia mazziniana repubblicana anticlericale massonica, era stato in gioventù anarchico kropotkiniano e poi socialista riformista, aveva vissuto nell'America Latina molti anni e non aveva conosciuto l'esperienza della Guerra mondiale; mia madre, sarda, di famiglia laica, era cresciuta nella religione del dovere civile e della scienza, socialista interventista nel '15 ma con una tenace fede pacifista. Ritornati in Italia dopo anni all'estero mentre il fascismo stabiliva il suo potere, avevano trovato un'Italia diversa, difficilmente comprensibile. Mio padre cercava senza fortuna di mettere al servizio del suo paese la sua competenza e la sua onestà (…) mia madre, sorella d'un professore universitario firmatario del manifesto Croce, era d'un antifascismo intransigente. Cosmopoliti entrambi per vocazione ed esperienze (...) Il fascismo s'inseriva in questo quadro come una via tra le tante, ma condotta da ignoranti e disonesti. La critica al fascismo nella mia famiglia, oltre che per la violenza, l'ingordigia, la soppressione della libertà di critica, l'aggressività in politica estera, si appuntava soprattutto su due peccati capitali: l'alleanza con la monarchia e la conciliazione col Vaticano (…) Da bambino sentendo i discorsi dei grandi a casa mia, ebbi sempre per ovvia l'impressione che in Italia andasse tutto per traverso”.

Date queste premesse non stupisce che in uno dei suoi primi scritti importanti, “La Riviera di Ponente”, suo esordio su “Il Politecnico” di Elio Vittorini, rivista centrale nel panorama culturale italiano di quegli anni, il giovane scrittore tracciasse nel novembre 1945 una sintetica ricostruzione del ruolo importante svolto dalla Massoneria in Liguria e più in generale in Italia, nel Risorgimento prima e nella costruzione dello Stato unitario poi:

“ Battuto Napoleone, nel 1814, i Savoia si trovarono padroni della regione. Come conseguenza si ebbe che, al Risorgimento, la borghesia ligure, tradizionalmente repubblicana, diede i suoi uomini migliori alla cospirazione ed alla lotta dei Mazzini e dei Garibaldi. Delle vecchie famiglie borghesi, chi non era bigotto e clericale era nei carbonari, o nei mazziniani, o nella Massoneria. La Massoneria soprattutto finì per raggruppare intorno a sé tutte le energie progressive dell’epoca e per temperar ogni slancio rivoluzionario: il repubblicanesimo diventò un puro sfogo verbale e la lotta si polarizzò sull’anticlericalismo. Così due forze dominarono la vita pubblica della Liguria di Ponente: la Chiesa e la Massoneria. E due furono i partiti che si contesero le amministrazioni: il conservatore (clericale e monarchico) e il socialista (sostenuto e temperato dalla Massoneria)…”.

A quell'epoca lo scrittore è fresco di militanza comunista, si era iscritto al partito nel 1944 durante la guerra partigiana, ma, nonostante la diffidenza se non l'ostilità del PCI verso la Massoneria, non esita a riconoscere l'importanza del ruolo svolto da questa nella storia d'Italia. E non è, come si potrebbe pensare, una semplice ripresa adattata al contesto ligure delle tesi gramsciane sul Risorgimento sviluppate nei “Quaderni del carcere”, di cui allora non si conosceva neppure l'esistenza visto che la casa editrice Einaudi ne iniziò la pubblicazione solo nel 1948, ma di una riflessione del tutto personale, acutissima nella sua sinteticità, derivante dalla conoscenza diretta frutto della sua personale esperienza dato che, come si è visto, le due storie, quella della Massoneria nel Ponente ligure alla fine dell'Ottocento e quella della famiglia Calvino, risultavano inestricabilmente connesse. Una conoscenza profonda della storia e dei riti massonici che riemergerà un decennio più tardi nel romanzo “Il barone rampante”.

Il barone rampante”

Nel 1957 Calvino pubblica “Il barone rampante”, secondo capitolo de “I nostri antenati”, insieme a “Il visconte dimezzato” (1952) e “Il cavaliere inesistente” (1959). In questo romanzo, che abbraccia tutto il periodo della Rivoluzione francese iniziando nel ventennio immediatamente precedente e concludendosi in piena Restaurazione lo scrittore fa precisi riferimenti alla Massoneria. In particolare nel capitolo XXV che è interamente dedicato alla vita massonica non proprio ortodossa del protagonista e in cui si può leggere questa illuminante annotazione:

“Nella Massoneria Cosimo dunque non faceva che ripetere quel che già aveva fatto nelle altre società segrete o semisegrete cui aveva partecipato. E quando un certo Lord Liverpuck, mandato dalla Gran Loggia di Londra a visitare i confratelli del Continente, capitò a Ombrosa mentre era Maestro mio fratello, restò così scandalizzato dalla sua poca ortodossia che scrisse a Londra questa d’Ombrosa dover essere una nuova Massoneria di rito scozzese, pagata dagli Stuart per fare propaganda contro il trono degli Hannover, per la restaurazione giacobita”.

Per il lettore comune un periodo buttato là con nonchalance, come una annotazione fra le tante, ma per chi ha gli strumenti per comprenderne le implicazioni profonde, la testimonianza della conoscenza di prima mano che l'autore aveva delle cose massoniche, considerato che la cosiddetta massoneria dissidente “giacobita” è da sempre argomento per accademici e specialisti della materia e in quanto tale, non solo del tutto sconosciuto ai “profani”, ma spesso poco noto anche agli stessi appartenenti all'istituzione libero muratoria.

Tornando al “Il barone rampante”, il romanzo racconta la storia di un giovane aristocratico del Ponente ligure, Cosimo Piovasco di Rondò, che all’età di dodici anni, in seguito a un litigio con i genitori si arrampica su un albero del giardino di casa per non scendervi più per il resto della vita. Come via via raccontato dal fratello, voce narrante del romanzo, quell'atto di ribellione diventa una scelta di vita, un percorso di formazione e maturazione destinato a durare tutta la vita nel tentativo di passare dal caos del mondo a un ordine fondato sulla ragione e su una visione etica della vita. Il romanzo si chiude con un ultimo colpo di scena: ormai anziano, Cosimo non si arrende e non scende a terra, al passaggio di una mongolfiera, si aggrappa ad un cima penzolante e scompare nel cielo alla ricerca di nuovi superiori orizzonti.

Come si comprende fin dalle prima pagine quella di Cosimo non è una fuga dal mondo, né il rifiuto snobistico o capriccioso di mantenere rapporti con gli altri uomini. Cosimo non è un eremita. Fedele alla sua scelta di vita, Cosimo vive sugli alberi, ma continua a partecipare attivamente alla vita del suo tempo, tanto da interloquire idealmente anche con il grande Voltaire. Semplicemente, scrive Calvino, Cosimo ha compreso che “per essere con gli altri veramente, la sola via era d’essere separato dagli altri”. Detto in altri termini, un'azione mirante ad un cambiamento in meglio del mondo e al “benessere dell'umanità” deve partire da un punto di osservazione esterno alle dispute ideologiche e personali, mantenendosi estranea ad ogni fanatismo. Esattamente quanto predicava negli anni in cui il romanzo è ambientato il massone Voltaire, in questo fedele interprete degli ideali su cui il giorno di San Giovanni Battista del 1717 era stata fondata a Londra, nei locali della taverna “L'oca e la graticola”, la Gran Loggia d'Inghilterra. E d'altronde la frase altro non è che una citazione del filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte che nelle sue famose “Lezioni sulla Massoneria”, pubblicate nel 1802-1803, aveva affermato che solo «uscendo dalla società» e cercando di superare gli svantaggi di una «cultura unilaterale», si poteva diventare uomini veramente liberi e di buoni costumi come i massoni amano definirsi.

Figlio e nipote di massoni, Calvino non fu mai iniziato alla Massoneria, né per quello che se ne sa provò mai il desiderio di esserlo, forse proprio perché massone si sentiva già nel senso più profondo del termine e l'adesione formale sarebbe stata probabilmente fonte di delusione. Perché gli ideali camminano sulle gambe degli uomini che sono spesso terribilmente corte e di questo Calvino, che aveva appena rotto con il PCI, era pienamente consapevole. Di questa adesione ideale, che era anche – sia detto per inciso – riconciliazione con il padre e il suo percorso di vita - “Il barone rampante” resta testimonianza viva nel suo essere non solo romanzo filosofico, intriso di ironia alla maniera settecentesca, ma anche espressione in forma di favola dei fondamenti del pensiero massonico: l'iniziazione (l'abbandono della vita terrestre e la salita sugli alberi) come cambiamento di stato; la ricerca costante della verità non fine a sé stessa ma finalizzata al miglioramento della condizione umana; il Tempio (la chioma degli alberi) come luogo separato dal caos del mondo dove meditare sulla vita per raggiungere uno stato superiore di coscienza. E nel cielo stellato che sovrasta sia il bosco che il Tempio massonico, Cosimo sparisce a simboleggiare che la morte è solo un ulteriore passaggio di stato, proprio come lo è da sempre l'iniziazione ai Misteri.

Ne abbiamo già accennato: il momento in cui il romanzo viene scritto è estremamente significativo. Calvino è ad una svolta fondamentale della sua vita, analoga per importanza a quella operata nel 1944 quando era salito in montagna per unirsi alle Brigate Garibaldi e aveva chiesto l'iscrizione al Partito comunista. Una scelta etica più che ideologica: “Quando seppi – scrive in “Autobiografia politica giovanile” del 1960 – che il primo capo partigiano della nostra zona, il giovane medico Felice Cascione, comunista, era caduto combattendo contro i tedeschi a Monte Alto nel febbraio 1944 chiesi a un amico comunista di entrare nel partito”.

Sono gli anni della crisi politica dello scrittore, della sua rottura con il Partito comunista e l'abbandono di una militanza politica intensa come conseguenza diretta del dramma dell'Ungheria e delle rivelazioni del XX Congresso del PCUS. Anche questa volta l'aspetto etico è predominante, risposta al fallimento di una fede salvifica rivelatasi fallace. “Il dio che è fallito” aveva non a caso titolato nel 1950 l'ex comunista Silone un suo libro importante che raccoglieva, oltre la sua, testimonianze di altri intellettuali che avevano vissuto gli stessi entusiasmi e la stessa disillusione. Per Calvino, che pure ci aveva creduto fortemente, il comunismo nella sua versione storicamente realizzata non rappresenta, come aveva utopicamente pensato Marx, la risposta finalmente trovata alla alienazione della condizione umana. Altra è la via. La rivoluzione è prima di tutto rivoluzione interiore, conoscenza e miglioramento di sé. Conquiste da riportare nel mondo, perché la vita degli uomini si regga su quei principi di armonia (libertà, eguaglianza, fratellanza) che lo scrittore aveva appreso a conoscere e ad amare in famiglia a contatto con il padre e lo zio e nel ricordo del nonno, combattente alla presa di Porta Pia nel 1870. Per essere con gli altri veramente, la sola via è essere separato dagli altri, afferma Calvino. Proprio quello che aveva scritto centocinquanta anni prima Fichte e che rappresenta l'essenza di quel “segreto” massonico su cui tanto si è scritto a sproposito. Una scelta che i “profani” spesso non comprendono, vedendo in questa voluta separazione dal vociare confuso e caotico del mondo la prova di chissà quali oscure e inconfessabili manovre, ma che rende la Massoneria scuola di vita e non partito o sorta di religione come qualcuno vuole dipingerla per meglio combatterla.

Sarà da queste esperienza traumatica ma illuminante che nasceranno le riflessioni contenute in un altro scritto autobiografico di Calvino, quel già citato “La strada di san Giovanni” in cui nel 1961 lo scrittore ricostruisce il rapporto con il padre negli anni dell'adolescenza.

La strada di San Giovanni”

Nella Strada di San Giovanni Calvino contrappone l’universo del padre, Mario, agronomo e floricoltore di fama internazionale, al proprio di adolescente inquieto:

“Una spiegazione generale del mondo e della storia deve innanzi tutto tener conto di com'era situata casa nostra, nella regione un tempo detta «punta di Francia», a mezza costa sotto la collina di San Pietro, come a frontiera tra due continenti. In giù, appena fuori del nostro cancello e della via privata, cominciava la città coi marciapiedi le vetrine i cartelloni dei cinema le edicole, e Piazza Colombo li a un passo, e la marina; in su, bastava uscire dalla porta di cucina nel beudo che passava dietro casa a monte (sapete i beudi, che derivano le acque dei torrenti per irrigare i terreni della costa: un canaletto a ridosso d'un muro, fiancheggiato da uno stretto marciapiede di lastre di pietra, tutto in piano) e subito si era in campagna, su per le mulattiere acciottolate, tra muri a secco e pali di vigne e il verde.

Era sempre di là che usciva mio padre, vestito alla cacciatora, coi gambali, e si sentiva il passo delle scarpe chiodate per il beudo, e lo scampanellio d'ottone del cane, e il cigolare del cancelletto che dava nella strada di San Pietro. Per mio padre il mondo era di là in su che cominciava, e l'altra parte del mondo, quella di giù, era solo un'appendice, talvolta necessaria per cose da sbrigare, ma estranea e insignificante, da attraversare a lunghi passi quasi in fuga, senza girare gli occhi intorno. Io no, tutto il contrario: per me il mondo, la carta del pianeta, andava da casa nostra in giù, il resto era spazio bianco, senza significati; i segni del futuro mi aspettavo di decifrarli laggiù da quelle vie, da quelle luci notturne che non erano solo le vie e le luci della nostra piccola città appartata, ma la città, uno spiraglio di tutte le città possibili”.

Il paesaggio come punto di partenza per definire un percorso umano, una identità, dunque, ma ancora non basta. Per attribuire senso e significato alla vita il paesaggio non è sufficiente. Perché il paesaggio non è un dato oggettivo, che basta a sé stesso, ma la cristallizzazione dell'occhio che si posa sulle cose e dunque prima di tutto uno stato dell'animo, una presa di posizione. Per poter essere rappresentato il paesaggio deve poter essere introiettato, in qualche modo vissuto, fatto proprio. E proprio a questo serve la vita vissuta come ricerca di sé: a dare senso e significato al caos che ci circonda, alla apparente irrazionalità e casualità dell'esistere. “Ordo ab chao” il motto del Rito Scozzese Antico e Accettato in cui Mario Calvino aveva raggiunto il 33° grado, ma anche la conclusione a cui giunge Italo e che lo riconcilia idealmente con il padre nel riconoscere che, anche se in forme diverse, la strada cercata era stata la stessa:

“Capite come le nostre strade divergevano, quella di mio padre e la mia. Ma anch'io, cos'era la strada che cercavo se non la stessa di mio padre scavata nel folto d'un'altra estraneità, nel sopramondo (o inferno) umano, cosa cercavo con lo sguardo negli androni male illuminati nella notte (l'ombra d'una donna, a volte, vi spariva) se non la porta socchiusa, lo schermo del cinematografo da attraversare, la pagina da voltare che immette in un mondo dove tutte le parole e le figure diventassero vere, presenti, esperienza mia, non più l'eco di un'eco di un'eco”.

Attraversare lo schermo del cinematografo, voltare pagina alla ricerca di un altrove dove le parole abbiano sostanza e non siano l'eco di altri echi, scrive Calvino. E questo per scoprire la propria individualità, il proprio essere autentico. Sono i motivi per cui si bussa alla porta del Tempio, per cui si cerca la Luce. Ed è questa ricerca che innerva la vita e l'opera letteraria di Italo Calvino a rendere lo scrittore un Massone non iniziato, un Massone nel cuore.

Savona - Ottobre 2023