A
metà degli anni Settanta a Savona usciva con una certa periodicità
una rivistina culturale, in larga parte destinata ad “arredare” le
sale d'aspetto degli studi professionali. Il suo scopo principale,
proprio per il fatto di esser letta da un pubblico vasto ed
eterogeneo, era la raccolta di pubblicità di carattere locale. Di
questo viveva il suo direttore, personaggio comunque non banale,
aperto anche a tematiche non proprio ortodosse come quelle che allora
gli proposi ed egli accettò senza battere ciglio, anzi incuriosito
da un tema, quelle della minoranze nazionali, di cui fino a quel
momento non aveva minimamente sospettato neppure l'esistenza.
L'articolo che segue tratta
proprio del silenzio sulle “minoranze” nazionali in Italia. Qualche anno prima avevo avuto la fortuna di conoscere personalmente
François Fontan e di leggere il suo libro sull'etnismo, E
l'articolo risente, oltre che degli ardori (e dell'ingenuità) propri
dell'età, anche di questo incontro che ancora considero molto
importante per la mia formazione culturale e politica. Seguì un
articolo sulla “rivoluzione corsa” che mi valse l'amicizia
duratura di alcune persone molto vicine al neocostituito Fronte Nazionale
di Liberazione. L'articolo, ritrovato per caso nello scatolone di cui
parlo da qualche mese, è dedicato a due amici fraterni, Alessandro
Strano, tenace difensore della cultura occitana, e Angelo Sanna,
coraggioso combattente per una Sardegna non più colonia interna
dello stato italiano.
Giorgio
Amico
Le
minoranze etniche
«La
popolazione italiana presenta, sia dal punto di vista etnico che
linguistico, una notevole omogeneità....se i massicci stanziamenti
di altri popoli avvenuti dopo la fine dell'Impero romano e per tutto
l'alto Medioevo e lo spezzettamento politico della Penisola, con il
conseguente isolamento fra regione e regione, determinarono
l'affermarsi di caratteri fisici, ma soprattutto culturali distinti
in ciascuna regione, il fenomeno non assunse mai tale rilevanza da
potersi parlare di vere e proprie nazionalità separate in seno al
popolo italiano. Pertanto oggi ... le minoranze allogene e alloglotte
occupano solo posizioni periferiche (p. es. franco—provenzali in
Val d'Aosta, tirolesi in Alto Adige) e costituiscono ridottissime
isole la cui importanza va sempre più diminuendo (è il caso dei
Greci e degli Albanesi in Calabria e Sicilia)." — da "Atlante
Garzanti" -.Milano 1964 —
In
modo pi§ o meno simile tutti i manuali geografici pubblicati nel
nostro Paese, dalle enciclopedie ai libri di testo, concordano nel
rilevare l'omogeneità linguistica della popolazione italiana e nel
negare l'esistenza di una "questione nazionale".
È
una vera e propria menzogna collettiva. Infatti, contrariamente
all'opinione dominante, l'Italia non è abitata da un solo gruppo
etnico a cui fanno da contorno ristrette minoranze ai confini; ma sul
territorio nazionale, oltre alla minoranza italiana, vivono diverse
nazionalità di minoranza: i friulani, i sardi, gli occitani.
Queste
popolazioni sottoposte durante il fascismo ad un delirante programma
di italianizzazione forzata — di tale estrema e repellente
brutalità da arrivare persino a cambiare i nomi sulle tombe — dopo
l'avvento della repubblica democratica non sono state minimamente
risarcite dei danni patiti, anzi una spessa coltre di silenzio è
calata sulle realtà delle minoranze etniche viventi sul suolo
italiano.
Nonostante
l'articolo 6 della Costituzione affermi chiaramente che: "La
Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche"
quasi nulla è stato fatto in concreto per impedire la progressiva
liquidazione del patrimonio culturale rappresentato da queste realtà
"diverse".
Se
da una parte la minoranza tedesca della provincia di Bolzano e i
Franco—provenzali della Valle d'Aosta hanno ottenuto un minimo di
tutela delle loro caratteristiche nazionali, lo stesso non si può
dire per gli Occitani delle valli cuneesi, per i Friulani, per i Sardi. La condizione di tali minoranze e di una emarginazione totale,
il potere — saldamente nelle mani délla maggioranza di lingua
italiana — ne impedisce ogni sviluppo e condanna queste culture
"diverse", considerate inferiori, alla scomparsa.
In
alcune situazioni (Occitani, Sardi) si può parlare di un vero e
proprio atteggiamento colonialistico da parte delle autorità
centrali, basti pensare che "l'essere spedito in Sardegna"
ha significato fin dalle origini del nostro Stato unitario la massima
punizione per i funzionari pubblici.
Le
classi dominati — e con esse la cultura "ufficiale" —
hanno declassato tali idiomi nazionali al rango di dialetti, ossia di
subculture regionali in via di estinzione; riuscendo in questo modo
ad eludere i dettami costituzionali. Infatti, definendo i gruppi
etnici di minoranza come comunità parlanti dialetti italiani, si
elimina il presupposto fondamentale dell'articolo 6 della
Costituzione: l'esistenza di minoranze linguistiche. Da minoranze
nazionali queste popolazioni vengono trasformate in parti integranti
della comunità nazionale e come tali non godenti alcun particolare
diritto.
La
stessa attuazione dell'ordinamento regionale — che non poche
speranze aveva suscitato — ha lasciato la situazione inalterata. Ne
è derivato di conseguenza che i gruppi etnici di minoranza si sono
visti costretti a sviluppare movimenti politici finalizzati alla
difesa dei loro diritti misconosciuti. Movimenti nazionali esistevano
già (Sud-Tiroler Volkspartei, Union Valdotaine, Partito Sardo
d'Azione), ma mentre tradizionalmente si trattava di partiti
piccolo—borghesi a base contadina, recentemente la questione
nazionale ha preso un indirizzo diverso, caratterizzato da una
accentuata intonazione rivoluzionaria.
Il
fenomeno non è tipico solo del nostro Paese: in Francia, Spagna,
Gran Bretagna e persino nella pacifica Svizzera il problema delle
minoranze nazionali è diventato la piú scottante questione interna.
Basterà accennare al problema basco, all'endemica guerriglia
nord-irlandese e ai recentissimi sanguinosi tumulti nella vicina
Corsica.
Ma
perché proprio negli ultimi anni si è assistito a questo `revival"
del sentimento nazionale dei piccoli popoli? Se da una parte elemento
determinante è stato la rinascita del sentimento nazionale
conseguente alle strepitose vittorie dei popoli di colore (Vietnam,
Angola, Cina stessa) che hanno dimostrato che anche un piccolo popolo
può battere potenze molto piú grandi, questa spiegazione non basta.
Al desiderio tradizionale di recuperare la propria identità
etnico-linguistica si è unita la presa di coscienza dello
sfruttamento subito del gruppo di maggioranza, sfruttamen-to che
riproduce all'interno dei singoli Stati il rapporto neocoloniale
esistente tra Paesi avanzati e Terzo Mondo. Presa di coscienza
facilitata dalla grave crisi in cui si dibatte da anni l'economia
dell'Europa occidentale e che aggrava sensibilmente le condizioni di
vita di queste popolazioni emarginate dallo sviluppo economico. E
quanto diciamo non vuole essere una forzatura polemica suggeritaci
dalla simpatia con cui guardiamo alle lotte di questi piccoli popoli.
Non
è un caso, infatti, che la CEE stessa abbia definito le zone in cui
si sono sviluppati questi movimenti autonomisti il "Terzo mondo
europeo ". Oppressione culturale e miseria vanno di pari passo e
lo testimoniano le condizioni ingrate di esistenza in cui vivono
queste nazionalità destinate a fungere da serbatoi di braccia per i
lavori piú umili e peggio retribuiti.
Su
due milioni di sardi, 700 mila sono stati costretti ad emigrare (di
cui 300 mila all'estero); di questi il 60 per cento in condizioni di
lavoro salariato e solo lo 0,03 per cento come imprenditore o libero
professionista. L'emigrazione di laureati e diplomati è in continuo
aumento per la mancanza di prospettive occupazionali in loco; in
Sardegna i diplomati e laureati sono il 4 per cento della
popolazione, ma tra gli emigranti raddoppiano passando al 7 per
cento. Ma l'aspetto più tragico di questa emarginazione forzata è
la distruzione della personalità umana degli emigrati: su cento
emigrati sardi, dieci sono ricoverati in manicomi in Sardegna e fuori
per aver contratto malattie mentali — derivanti dallo sfruttamento
o dall'isolamento — tipiche di chi, strappato dalla propria terra,
non ha nemmeno piú la possibilità di comunicare con gli altri nella
sua lingua natale.
Arrivati
a questo punto la liquidazione di una cultura diversa rischia di
divenire la progressiva sparizione dei piccoli popoli in quanto
entità autonome. Sono dati che commentano da soli e che confermano
1' assunto precedente che non di sola sopraffazione culturale si
tratti, ma di vero e proprio colonialismo. Ma anche senza la fred-da
evidenza dei dati statistici questa realtà sconosciuta può imporsi
alla nostra coscienza di uomini liberi. Basta la poesia di una
canzone occitana dello "chantaire" Daire d'Angel che narra
la storia di un piccolo paese eccitano condannato, nell'indifferenza
piú totale, a morire lentamente. A noi non resta che sperare che
questo grido d'amore per la propria terra non resti inascoltato.
Erian
2000, erian la vito
din
en joli pais,
erian
2000 ma chal agù parte
a
trabaiar da luegn.
E
i avio lou Marques, apres lou Rei,
e
pei lou Duze
'din
la mizerio nous an tengu,
embé
lour gueres nous an tuà.
Erian
encà 1000, encà mai paoure
'din
en joli pais.
Erian
encà 1000 ma chal agù parte
a
trabaiar da luegn
E
la Coustitusioun Italiano es aribà
e
un e dui e tres e quatre e sinc
e
apres lou sies...
Isì
parlo de tu paoure Ousitan
que
vouliers pa partir.
Isì
parlo de tu ma chal que partes
a
trabaiar de luegn.
E
part aquest e aquel
es
la mizerio tan coume dran
es
per Paris eu per Turin
ma
la lour tere i l'an lisà.
Sien
restà 100 'din meun pais
que
vol pa mourir.
Chansoun
de Daire d'Angel
Sampeyre
L'Alfiere
– n.2 - 1976