martedì 27 settembre 2022

Come eravamo. Maoisti in Calabria

 


Negli anni della contestazione, del Movimento studentesco e dell'assalto al cielo, con il mito di Mao e della Rivoluzione culturale nacque il gruppo dell'Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti), meglio conosciuto come "Servire il popolo".

Il movimento si diffuse con molta rapidità in molte parti d'Italia, ma in Calabria fu un'esplosione. In pochi mesi si aprirono decine di sezioni. Paola, sul Tirreno cosentino, diventò un punto di forza della nuova organizzazione, una base rossa per la lunga marcia delle masse meridionali.

Molti intellettuali guardarono con interesse e curiosità a questa esperienza e scesero in Calabria ad osservare il metodo e lo stile di lavoro.

Di quel periodo rimane un bel documentario di propaganda realizzato da Marco Bellocchio. Il libro vuole appunto riconsiderare quell'avventura, con particolare riferimento alle vicende di Paola e a quelle accadute in altri centri calabresi in cui l'Unione operò.

Oltre a raccontare episodi e fatti, si riconsiderano alcuni principi, temi ed analisi a cui il gruppo si ispirò e si presentò nell'azione pubblica, collocandoli nel contesto socio-economico e politico di quel periodo. Ma anche i limiti, gli eccessi e le contraddizioni che portarono al suo rapido dissolvimento.


Alfonso Perrotta
Maoisti in Calabria
Etabeta 2022

domenica 18 settembre 2022

La diplomazia oscura. Servizi segreti e terrorismo nella Guerra fredda

 


Un libro di grande interesse documentatissimo, scritto da uno dei massimi esperti del settore (Gianluca Falanga lavora da anni a Berlino come ricercatore negli archivi della Stasi, la polizia segreta della DDR). Particolare attenzione è riservata al ruolo dei servizi segreti dell'EST nel terrorismo palestinese ed italiano, a partire dalla struttura parallela del PCI, dalla ancora non ben chiarita figura di Feltrinelli e dal caso Moro. Di seguito una pagina dall'introduzione.


Nel periodo della Guerra fredda le superpotenze e i bloccchi rivali si diedero battaglia preminentemente in una forma che si usa definire surrogata, impropria non ortodossa, con modalità di conflitto cosiddette low-level, a bassa intensità militare. Ne scaturì «una condizione di belligeranza endemica diffusa e permanente», nella quale, come ha scritto un noto studio americano del terrorismo, Brian Jenkins, la guerra cessava di essere finite, un fatto circoscritto, nettamente delimitato nel tempo e nello spazio. cominciava a sfumare e svanire anche it confine fra guerra e pace.

Le operazioni di guerra non ortodossa furono il vero cavallo di battaglia della Guerra fredda, all'ombra sinistra degli arsenali nucleari l'arma principale dell'anomala terza guerra mondiale non apertamente guerreggiata che per decenni ha lacerato l'umanità. Una contesa totalizzante che coinvolse ogni aspetto della vita politica, sociale e culturale delle nazioni.

La natura clandestina dell'operatività cosiddetta "coperta” unita al principio della «negabilità plausibile» ne rende spesso proibitivo l'esame oggettivo, la sua ricostruzione e valutazione. ll carattere elusivo, criptico, resiste alla verifica, talvolta anche in presenza di documentazione ufficiale che ne attesta la paternità e gli obiettivi proposti.

La disinformazione rientrava a pieno titolo nell'arsenale di guerra non ortodossa, come vi rientravano it sabotaggio, le operazioni di guerra psicologica e it sovvertimento del sistema politico di altri paesi con vari strumenti, non ultimo facendosi levatori di violenza politica eversiva allo scopo di servirsi di conflitti e tensioni esistenti e montanti, radicalismi di diverso segno per tenere sulla corda determinati contesti politici sensibili, disunire l'avversario e compattare it proprio campo.

Molti paesi furono coinvolti nella silenziosa guerra sporca dei Servizi, esposti a varie forme d'intervento occulto e colpiti duramente da questo modo nuovo di condurre la contrapposizione ideologica e politica. Alcuni di loro, per via della loro "criticita", fragilità e delicatezza geopolitica, divennero teatro prediletto delle operazioni clandestine, autentici campi battaglia della guerra surrogata.

In taluni casi l'intervento fu drammatico e pubblicamente riconoscibile: operazioni paramilitari, rovesciamenti governi o installazioni di regimi autoritari, tutte forme estreme dell'operare "coperto". Altrove le interferenze mantennero un più basso profilo, chi agì seppe farlo muovendosi sottotraccia, protetto da una cortina fumogena che resta ancora oggi difficile da squarciare, da diradare.

Quest'ultimo senz'altro il caso dell' Italia, terra di confine d'importanza strategica decisiva, ma dove gli equilibri politici mostravano nell' immediato dopoguerra una forte precarietà. La situazione italiana si presentava nel suo complesso più delicata e insidiosa di quella della Germania occupata e divisa, campo di manovra dello spionaggio internazionale e principale scenario di guerra impropria nel teatro europeo del braccio di ferro fra le superpotenze e i relativi blocchi della Guerra fredda.

In Italia la CIA esordì con la prima covert operation della sua storia, aggiudicandosi una prima battaglia campale nella lunga guerra clandestina: it sostegno alle forze politiche atlantiste e l'impcdimento di una vittoria comunista alle storiche elezioni politiche dell'aprile 1948. Seguirono numerosi altri interventi negli affari politici ed economici della penisola, così numerosi e importanti che, alla fine degli anni Settanta, l'ex capo della CIA William Colby riconobbe: «L'Italia è stata piu grande laboratorio di manipolazione politica dandestina»


Gianluca Falanga
La diplomazia oscura
Servizi segreti e terrorismo nella Guerra fredda
Carocci, 2021


sabato 17 settembre 2022

Castelvittorio e Pigna, alla ricerca del Canavesio e di Calvino. Pagine di diario.

 


Giorgio Amico


Castelvittorio e Pigna,  alla ricerca del Canavesio e di Calvino.
Pagine di diario.


Sarà la bellezza aspra dei luoghi o che lì affondiamo le nostre radici, ma in nessun altro luogo ci è capitato come nelle vallate dell'estremo Ponente ligure di sentire il richiamo archetipale della terra che fu dei padri. Lungo sarebbe l'elenco dei luoghi dove ci siamo sentiti a casa, come Ulisse nella sua Itaca ritrovata. Alcuni di questi luoghi negli anni sono cambiati. Snaturati dal turismo di massa, non li sentiamo più nostri. Affollatissimi, sembrano aver ripreso nuova vita, ma in realtà non hanno più anima né identità. Esiste purtroppo anche una chirurgia estetica dei luoghi che non elimina le rughe lasciate dal tempo, ma le utilizza trasformando il paesaggio, che da esperienza interiore, diventa cartolina o, peggio ancora, set da fiction televisiva.

Non è il caso dell'alta Val Nervia, di Pigna e Castelvittorio. Terra aspra, che pare chiusa al forestiero, ma che in realtà è pronta a concedersi a chi sappia coglierne la profonda bellezza. Ricordo sbiadito, ma ancora vivo, di tempi lontani in cui cuore dei liguri era la montagna e non la costa. I tempi delle vie del sale, dei pastori transumanti, dei pellegrinaggi annuali al Santuario di Nostra Signora del Laghetto quando le montagne non dividevano, ma univano e di cui resta l'eco in un dialetto che sa di Provenza.

Per Calvino, che la percorse tutta, prima ragazzo al seguito del padre agronomo e cacciatore, e poi da partigiano, una “terra di montagne coperte dai boschi fittissimi dove si nascondono i cinghiali”. 

Una terra attraversata da sentieri punteggiati da cappelle, chiesette, piloni, croci a proteggere il viandante dai pericoli del cammino, ma ancora di più a sancire la sacralità di quei luoghi dove un tempo il Signore delle vette manifestava la sua potenza dall'alto del Monte Bego con la tempesta e la folgore simboli terribili della presenza del numinoso nell'esistenza quotidiana degli uomini. E ancora più indietro, al tempo in cui su animali e piante regnava la Dea che nel potere vivificante delle fonti si mostrava Grande Madre. Un passato testimoniata ancora oggi dal santuario di Nostra Signora del Fontan, ma anche dalla implacabile caccia a chi nonostante lo scorrere del tempo e delle culture, continuava a tramandare ciò che la Dea aveva insegnato alle donne. Quelle herbarie, guaritrici e ostetriche, bruciate come streghe.

Terre aspre, di montagna, rifugio di eretici, catari e valdesi, a cui i Signori di Tenda offrivano riparo dai domenicani che dal grande convento di Taggia si partivano per dar loro una caccia spietata.

Fin qui, si è detto, saliva da Sanremo nei primi anni Trenta il giovane Calvino, seguendo il padre che, titolare di una cattedra ambulante di olivicoltura, veniva, lui scienziato insigne, ad istruire i contadini nei primi rudimenti di un'agricoltura moderna che non si risolvesse solo in fatica e scarno frutto.

Contadini tenaci, abbarbicati a fazzoletti di terra, strappati alla montagna con un lavoro di secoli e passati con orgoglio da padre in figlio, generazione dopo generazione. Pastori transumanti che scendevano dagli alti pascoli diretti al mare e finivano a svernare con le greggi sulla costa, lontano fino alla spiaggia di Spotorno.

Liguri di montagna, duri come la pietra, dai volti rugosi come gli ulivi, carichi di memoria come il Pietravecchia o il Toraggio, ma capaci di erigere chiese simili a gioielli di luce dove l'arte del Canavesio ancora ci colpisce con la sua forza visionaria. Lucente come la spada dell'Arcangelo Michele o magica come il grande fiore di pietra che adornano la facciata della Parrocchiale di Pigna.

Comunità libere di uomini liberi, ribelli per natura ad ogni forma di oppressione. “Chi canterà – scrive Calvino che in quelle valli combatté giovanissimo partigiano- la gloriosa popolazione di Castelvittorio, i vecchi cacciatori di cinghiali insorti alla difesa del loro paese, che resistettero con tanto valore?”.

Non saranno certo gli uomini a cantare questa canzone, lo sappiamo bene, ma il vento che soffia dal Toraggio e che di inverno porta la neve, assieme al canto degli uccelli e allo scrosciare dei torrenti che scendono a valle.

Luoghi magici dove la voce tonante del Signore delle vette e il canto armonioso della Dea ancora risuonano.

Savona, 1 ottobre 2016






venerdì 16 settembre 2022

Nascita di un teppista

 


Giorgio Amico

Nascita di un teppista


La conquista del primo paio di jeans fu una dura battaglia. In Italia iniziarono a diffondersi fra i giovani alla fine degli anni Cinquanta sull'onda lunga di un certo cinema americano che aveva lanciato il mito del ribelle senza una causa, fosse l'efebico James Dean di Gioventù bruciata o il tenebroso Marlon Brando de Il ribelle.

Non ci fu nulla da fare. A poco era servito Alberto Sordi con il suo Nando Moriconi di Un americano a Roma. Ancora minori risultati ottenne Renato Carosone con la peraltro molto orecchiabile canzoncina Tu vuo fa l'americano.

Gli adolescenti volevano i jeans, con tanto di enorme risvolto. Fu uno dei primi sintomi che, come cantò poi il poeta, the times they are a-chancing. Non c'erano difese possibili.

E così anch'io, allora poco più di un bambino, pretesi il mio paio di jeans. Non dai miei genitori che non ci pensavano neppure, ma da una zia che assieme ai miei nonni mi ospitava in estate, dandomi tutto l'affetto che avrebbe dato ai figli che non aveva avuto.

A complicare le cose ci si misero i giornali che all'improvviso iniziarono a battere la grancassa sul tema della devianza giovanile, i famosi teddy boys di cui si parlava il più delle volte a sproposito, sull'emozione del momento e senza saperne nulla. Giusto per vendere un po' di copie in più ad un pubblico di piccolo-borghesi benpensanti. Tanto che pure i Gufi ci fecero una canzone sbeffeggiante, arruolando fra i proto-teppisti l'incolpevole, almeno di quello, Giuseppe Garibaldi e i suoi Mille.

La zia, stimata Dama di Cristo Re, nicchiava fra il desiderio di accontentarmi e la paura della riprovazione di un ambiente pettegolo e bigotto come l'Oneglia cattolica e borghesuccia di allora.

Io te li comprerei – diceva – ma che figura ci facciamo con i conoscenti e i vicini. Sono calzoni da delinquenti.”

A complicar le cose ci si mise pure l'idiota di turno. Il gestore di un negozio di abbigliamento che li esponeva, unico in città – allora non esistevano negozi dedicati alla moda giovanile – in vetrina assieme a gessati e principi di Galles. Inconsapevole come tutti i cretini, a mia zia, quasi ormai semiconvinta, spiegò tutto serio che il taschino sopra la tasca destra era fatto per tenerci il coltello.

Mia zia fuggì inorridita dal negozio e per un paio di settimane non volle più nemmeno parlarne. Poi l'affetto materno ebbe il sopravvento sugli scrupoli e finalmente accettò di acquistarmene un paio ma....

Ma a patto che non lo scrivessi -allora il telefono era prerogativa di pochi e ci si teneva informati per lettera – ai miei genitori e che al termine delle vacanze li lasciassi da lei e non li portassi casa.

Un compromesso accettabile che salvava i rapporti interparentali oltre che le mie vacanze.

Furono i miei primi jeans e, anche se continuavo a giocare con i soldatini, quei magici pantaloni mi diedero il coraggio di incominciare a guardare le ragazzine sotto i portici di Oneglia. Stando ben attento, sia chiaro, a non farmene accorgere da mia zia che mi avrebbe immediatamente spedito da Don Luigi a confessarmi.

E così eccomi immortalato sulla Spianata di Borgo Peri in maglietta a strisce e jeans con risvolto d'ordinanza, molto compiaciuto e del tutto ignaro che negli stessi giorni a Genova, ragazzi di qualche anno più grandi ma vestiti allo stesso modo, buttavano i celerini del Battaglione Padova nel vascone di Piazza De Ferrari.




mercoledì 14 settembre 2022

Un rivoluzionario dimenticato. Michelangelo Pappalardi 9. Il distacco da Bordiga e l'avvicinamento a Korsch

 


Giorgio Amico

Un rivoluzionario dimenticato. Michelangelo Pappalardi 9


Il distacco da Bordiga e l'avvicinamento a Korsch

Da questo momento inizierà da parte di Pappalardi un graduale distacco dalle posizioni di Bordiga di cui fino ad allora era stato un fedelissimo seguace. Il rivoluzionario molisano ritiene che i partiti comunisti e l'Internazionale non siano più recuperabili ad una politica di classe rivoluzionaria. Occorre di conseguenza costituire gruppi autonomi nella prospettiva della creazione a breve termine di nuovi partiti comunisti collegati fra di loro a livello internazionale.

Su questa base egli va a intavolare una serrata discussione con Karl Korsch, esponente di punta della dissidenza tedesca. Non si tratta però di un dibattito a livello personale, ma di un confronto politico fra organizzazioni. Korsch dirige il gruppo «Entschiedene Linke» (Sinistra intransigente) che comprendeva circa 5000 militanti, mentre Pappalardi va a costituire con qualche decina di compagni, fra cui molti di quelli che avevano dato vita all'effimero tentativo del Comitato d'Intesa parigino, un «Gruppo autonomo comunista» che da Parigi si estenderà poi anche a Lione e Marsiglia. La notizia ovviamente non sfugge alle autorità italiane che tengono gli emigrati sotto stretto controllo. Il sette luglio 1926 l’Ambasciata fascista di Parigi comunica al Ministero dell’Interno che Pappalardi dirigeva, nella capitale francese, un «Gruppo autonomo comunista», non riconosciuto dal Partito”. La rottura con Bordiga si può dunque datare on una certa precisione a fine giugno, inizio luglio 1926.

Nel marzo 1928, nel quarto [in realtà il terzo] numero di «Le Réveil Communiste», Pappalardi espliciterà le motivazioni di fondo della rottura:

«Ci siamo trovati in presenza di un processo di decomposizione del Comintern, processo che fissa da una parte il carattere social-democratico e al tempo stesso reazionario della sua forma organizzativa, e dall'altra rivela l'impotenza dei suoi elementi leninisti, sia a rigenerare un organismo definitivamente liquidato dal punto di vista rivoluzionario, sia a dar vita a una nuova forma politica della lotta rivoluzionaria del proletariato internazionale. Abbiamo già esaminato allora le cause di questa decomposizione e di questa impotenza dei leninisti nel Comintern, e rimpiangiamo soltanto che il processo di rigenerazione della lotta rivoluzionaria avanzi assai lentamente e che non esista ancora una linea di carattere internazionale. D'altronde non abbiamo dubbi che ciò si svilupperà come una reazione dialettica a questa decomposizione del vecchio organismo degenerato e che ciò avverrà nella prossima fase della lotta delle classi. Perché, se questo non si realizzasse, se il proletariato non fosse capace di dare alla storia del suo movimento nuove forze rivoluzionarie, dovremmo dire che ci siamo sbagliati nella valutazione dialettica del movimento storico. Cosa impossibile, salvo negare la storia stessa e l'intero suo divenire. (…)

Dobbiamo allora rimarcare come questa preoccupazione di ridursi allo stato di una setta priva di prospettive, corrisponda assolutamente alla impostazione timorosa del problema da parte della frazione del compagno Bordiga. Questa preoccupazione di rimanere un numero ristretto di compagni validi, troppo limitato, per mantenere il contatto con la grande massa del proletariato conduce questo compagno a negare la necessità di formare dei gruppi di base finalizzati allo sviluppo di una frazione internazionale. Egli vorrebbe ad ogni costo restare dentro al Comintern per non abbandonare il terreno di massa. Non si deve dimenticare che questa concezione di Bordiga data dal 1925-1926. Sembra inoltre che per questo compagno la preoccupazione di restare all'interno del Comintern non fosse dovuta alla fiducia nella possibilità di rigenerazione di questo organismo, ma soprattutto dal timore dell'isolamento. Questa possibilità di rigenerazione era vista in ogni caso da lui come un elemento accessorio. Il compagno Bordiga non aveva fiducia nella costituzione di frazioni in quanto queste non avrebbero rappresentato altro che un tentativo di accelerazione artificiale della “rifioritura” delle forze rigenerative del movimento rivoluzionario . (…)

Ciò che si deve dire è che noi non ci trovammo d'accordo con il compagno Bordiga sul punto dell'attesa passiva degli avvenimenti che dovevano produrre spontaneamente lo sbocciare di nuove forze rivoluzionarie in seguito alla liquidazione pratica della politica centrista. Noi pensiamo innanzitutto che occorra inserirsi nel processo di questa liquidazione graduale come frazione aperta che denunzia al proletariato gli elementi, a volte invisibili, di questi sviluppi opportunisti. Ci teniamo molto a sottolineare questo disaccordo con il compagno Bordiga, soprattutto a fronte delle insinuazioni dei nostri bolscevizzatori italiani che hanno dichiarato che noi pretendiamo di rappresentare la pura linea bordighista. Noi non abbiamo mai concepito la nostra adesione alla linea bordighista come una sottomissione scolastica del nostro pensiero a questa linea.

(…) Noi abbiamo dunque, sono ormai due anni, sostenuto faccia a faccia con il compagno Bordiga la necessità della frazione aperta, perché sostenevamo che la bolscevizzazione aveva già compiuto il suo ruolo di socialdemocratizzazione del Comintern, e non vedevamo assolutamente alcuna possibilità di organizzare, sul terreno della disciplina di partito, una resistenza seria a partire dalla base del Comintern. Non temevamo allora, né temiamo oggi un isolamento provvisorio dalle masse. Questo isolamento che ci da il carattere di setta ( o sarebbe meglio dire, di piccolo gruppo, comunque estraneo a ogni forma di settarismo), non ci impedisce il contatto con il movimento reale della massa proletaria nella storia.»

È in questo periodo che, come testimonia Michel Roger, Pappalardi ha contatti con Pierre Naville che ne manterrà un ricordo positivo di uomo «assai fine, molto intelligente e capace di una conversazione gradevole». Contatti che avvengono nei locali della «libreria operaia» in Boulevard de Belleville a Parigi, gestita dai coniugi Proudhommeaux.

In quel momento il gruppo conta fra i 50 e i 60 membri, tutti operai, sparsi fra Parigi, Lione e Marsiglia.

Termina qui la pubblicazione delle bozze provvisorie della prima parte del lavoro su Michelangelo Pappalardi. Nella seconda parte, in via di completamento, viene ricostruita la storia tormentata del gruppo e dello stesso Pappalardi fino alla sua morte prematura nel 1940. Nel testo definitivo, oltre ad un ricco apparato di note omesso in questa presentazione, è compresa un'ampia raccolta degli articoli più significativi apparsi sulle riviste del gruppo. Le Réveil communiste e L'ouvrier communiste. La ricostruzione della storia, quasi sconosciuta, di Pappalardi, unico esponente italiano del comunismo dei consigli, rappresenta il completamento del mio vecchio libro su Karl Korsch del 2004 di cui è prevista per i prossimi mesi una nuova edizione a cura di Massari Editore. Pur mantenendo l'impostazione originaria, il testo è stato integralmente rivisto. Ma ne parleremo quando il libro sarà disponibile.



lunedì 12 settembre 2022

Un rivoluzionario dimenticato.Michelangelo Pappalardi 8. Il Congresso di Lille del Pcf e la battaglia del Centro contro i «bordighisti»

 


Giorgio Amico

Un rivoluzionario dimenticato.Michelangelo Pappalardi 8

Il Congresso di Lille del Pcf e la battaglia del Centro contro i «bordighisti» 


Tornato Bibbi a Parigi il Comitato d'Intesa non solo non viene sciolto, ma intensifica la sua attività fra i militanti di base, italiani e non solo, del partito francese. Pappalardi traduce in francese le tesi presentate dalla minoranza bordighiana al congresso di Lione. Le Tesi, integrate da un paragrafo riguardante la Francia, diventeranno un opuscolo con il titolo «Plateforme de la gauche. Projet de thèses présenté par un groupe de "gauchistes" (bordiguistes) à l'occasion du Ve Congrès du Parti Communiste Français», presentato prima al Quinto congresso del Pcf a Lille (20-26 giugno 1926), e poi diffuso come materiale di propaganda fra i compagni di base francesi. Le questioni dibattute nel Pcf non riguardavano solo gli operai francesi, era dovere dunque degli emigrati italiani far conoscere il loro punto di vista. A questo scopo Pappalardi prepara un capitolo aggiuntivo alle tesi di Lione riguardante la situazione francese. Nello scritto, letto e approvato da Bordiga, si definisce la situazione francese come una situazione di crisi caratterizzata dal crescere dell'inflazione, dal peggioramento delle condizioni di vita delle masse proletarie e dalla conseguente crescita delle tensioni sociali. Una situazione che per molti aspetti ricordava l'Italia:

«È assai possibile che allargandosi la crsi economica, e delineandosi una offensiva padronale, si debba constatare un cambiamento radicale di programma nell'ambito politico. Questa fase di politica di destra potrà presentare delle analogie con il fascismo italiano, e certamente la valutazione dell'esperienza italiana è utilissima per una analisi della politica francese attuale».

Tuttavia Pappalardi non prevedevano la possibilità a breve termine dell'avvento di un regime di tipo fascista. Mancava la condizione principale: una minaccia rivoluzionaria tale da spaventare la borghesia al punto di spingerla ad una drastica svolta reazionaria. E comunque occorreva respingere ogni tentazione di alleanza antifascista in difesa della democrazia sul modello del blocco aventiniano:

«Ciò che è essenziale, è comprendere che il piano fascista è in primo luogo un piano contro il proletariato e la rivoluzione socialista, e dunque che è agli operai che tocca fronteggiare e respingere il suo attacco. È una concezione sbagliata quella di considerare il fascismo come una crociata contro la democrazia borghese, lo stato parlamentare, gli strati piccolo-borghesi e i loro uomini e partiti politici al potere... Secondo questa idea, il proletariato non dovrebbe vhe dare l'allarme, prendere “l'iniziativa”... di questa lotta antifascista, battersi con gli altri per difendere i vantaggi di un governo “di sinistra”, considerare come obiettivo vittorioso il fallimento del fascismo in Francia...».

Per i bordighisti italiani era la classe operaia, per il suo peso numerico e per le sue tradizioni storiche, a rappresentare il fattore decisivo. A patto naturalmente che essa fosse conquistata ad una linea risolutamente rivoluzionaria. Da qui l'importanza di una lotta decisa all'interno del Partito comunista contro la politica seguita dal gruppo dirigente fedele esecutore della linea dettata dall'Internazionale comunista e incentrata sulla tattica del fronte unico e dell'unità antifascista per la conquista di un «governo operaio e contadino». In questa battaglia occorreva demarcarsi nettamente dalle opposizioni cui non si poteva fare alcun affidamento. Per la prima volta il termine «bordighista» fa la sua apparizione sulla scena politica a denotare la sinistra comunista italiana. La cosa, di sicuro, non piace a Bordiga, sempre restio a personalizzare la battaglia politica. In realtà fu Pappalardi che si intestardì, nonostante il parere contrario di una parte del gruppo, ad aggiungere l' aggettivo per distinguersi dalla sinistra zinovievista di Treint, Barré, Girault e dalla destra di Souvarine.

Ma l'attività del gruppo non si limita al lavoro teorico. A Parigi, Lione, Marsiglia, dove, come si è visto più consistenti erano i collettivi di lavoro italiani nel Pcf e più forte al loro interno la presenza della sinistra, i membri del Comitato d'Intesa parigino organizzano riunioni clandestine in vista della preparazione del congresso di Lille. Gli incontri sono organizzati in maniera piuttosto approssimativa, tanto che la direzione del partito ne viene presto a conoscenza e questò scatenerà una violenta campagna contro il «frazionismo» della sinistra e a una serie di espulsioni. In merito abbiamo la testimonianza di Piero Corradi, uno dei protagonisti di quegli avvenimenti:

«Noi eravamo maggioranza nei Gruppi del partito e tenevamo riunioni di frazione... all'insaputa del partito. Fummo scoperti a causa di un compagno che aveva ricevuto una convocazione da Rossi, che cumulava la funzione di segretario federale del partito e quella di segretario del Comitato della Sinistra; eravamo in riunione di frazione in un locale del partito, Michele [Pappalardi, nda] stava volgarizzando gli articoli di Bordiga quando Gnudi ci piombò addosso. Prese subito pretesto non solo [dal fatto] che tenevamo riunioni frazioniste, ma che queste erano capeggiate da un elemento che era fuori dal partito. Rossi prese la responsabilità della riunione e fu il primo ad essere espulso.»

Enio Gnudi, membro effettivo del Comitato centrale del Pcd’I, era stato da poco incaricato di supervisionare l'attività dei gruppi italiani nel partito francese e di liquidare l'opposizione dei «sinistri». Attività che fin da subito si accinse a svolgere con estremo zelo tanto che il 7 aprile 1926 così relazionava al Centro:

«Al mio arrivo la situazione interna del partito non era certamente buona, i cosiddetti sinistri capeggiati dal Rossi erano in piena offensiva per meglio svalutare l’opera del partito francese e in particolare di quello italiano. Vi basti sapere che i capeggiatori della frazione hanno distribuito a tutti i loro fiduciari l’ultima parte del discorso fatto da Bordiga al nostro congresso , e dato ordine di tenere la suddetta dichiarazione come base di tutta l’azione critica che essi intendono svolgere nei due partiti … Era per me troppo evidente, nonostante le loro smentite, che i frazionisti passavano forse per ordini ricevuti ad un lavoro organizzativo, senza esitazioni avevo perciò disposto perché fossero vigilati. Un biglietto caduto nelle mie mani in una riunione di gruppi, e firmato da Rossi, mi dava la prova che i cosiddetti sinistri erano invitati ad una riunione della massima urgenza. Fissato i necessari pedinamenti non mi è stato difficile scoprire il luogo della riunione, e penetrare nella [sala?] dopo che circa una quindicina di compagni presieduti da Rossi avevano già iniziata la discussione. E’ inutile dirvi la impressione che alla suddetta riunione ha fatto la mia presenza, mio scopo preciso era di staccare i buoni compagni dal Rossi, ed ho perciò anche in questa riunione lungamente discusso dimostrando a coloro che più ciecamente lo seguono che il Rossi non è degno di permanere più oltre nel partito. Ho la convinzione con la scoperta di questa riunione di avere inferto un forte colpo al frazionismo francese. Sfrutteremo alla base questo episodio scandaloso e inizieremo una vasta campagna sulla “Riscossa”. Ho proposto intanto al partito francese la espulsione del Rossi. Vi allego la lettera trasmessa dopo averla fatta tradurre al partito francese. La espulsione del Rossi è già stata convalidata dall’organizzazione francese parigina, e l’esecutivo francese mi assicurava che con la massima sollecitudine la sanzionerebbe». »

Dopo Rossi, toccò a Bibbi di essere messo sotto processo.

«L’espulsione del Rossi – riferì Gnudi in un suo rapporto nel mese di maggio – non ha dato luogo, nonostante le minacce fatte in precedenza, a nessun incidente. Sembra che lo stesso Rossi abbia chiesto consigli ad Amadeo. Vedremo di quale natura saranno questi consigli. Attualmente il gruppetto frazionista è molto calmo. Poche sere or sono alla riunione del primo gruppo di Parigi un certo Bruno [Bibbi], che ha assunto il ruolo del Rossi, ed evidentemente ispirato, muoveva accuse a me e alla Centrale per l’opera svolta a Napoli. Poiché questo dimostrava chiaramente che gli elementi parigini sono tutt’ora in collegamento con quelli d’Italia io non ho voluto lasciare cadere la questione. Il Bruno, invitato da me a precisare le sue affermazioni e a leggere le lettere che gli sono giunte dall’Italia, si è rifiutato di farlo dicendo che il momento opportuno lo avrebbe scelto lui... Noi non ci limiteremo a denunciare il Bruno solo per aver ingannato il S.R., ma esigeremo che egli specifichi in modo preciso quale fu la sua attività politica svolta a Marsiglia dove egli si fermò per qualche giorno. Inoltre egli dovrà ancora precisare di quale natura sarebbero le colpe commesse da me e dalla Centrale a Napoli”

L'attivismo dei suoi seguaci in Francia preoccupa Bordiga che il 19 giugno 1926 invia una lettera ai compagni in cui, per evitare ciò che sta accadendo nel partito tedesco dove l'opposizione di sinistra e in particolare Karl Korsch puntano ormai alla creazione di una organizzazione politica comunista rivoluzionaria contrapposta alla Kpd, li invita ancora una volta alla massima prudenza:

«I tedeschi pare si siano messi su una china pericolosa e si facciano espellere in molti. La nostra situazione è difficile. Bisogna evitare di farsi trascinare dove non abbiamo deciso di andare, e di determinare crisi a carattere puramente organizzativo e disciplinare, infeconde agli effetti del nostro compito politico che presto o tardi vedrà l'ora del suo “épanouissement”».

Dal 20 al 26 giugno si tenne finalmente a Lille il Quinto Congresso del Pcf. La selezione fu severa, nessun esponente della Sinistra italiana fu delegato al Congresso nonostante il peso che questa aveva fra i compagni italiani. I «bordighisti» presentarono il loro documento nei congressi locali, ma non oltrepassarono la fase intermedia dei congressi regionali. Da qui, come si è visto, la trasformazione delle tesi da documento congressuale in un opuscolo di propaganda aperto da una premessa che così recitava: «Non potendoci esprimere liberamente sulla stampa ufficiale del Partito prendiamo la decisione di far conoscere, tramite i nostri mezzi, il nostro pensiero ai comunisti francesi. Un gruppo di membri del Partito comunista francese».

8. Continua

domenica 11 settembre 2022

Un rivoluzionario dimenticato. Michelangelo Pappalardi 7 Il Congresso di Lione e il Comitato d'Intesa di Parigi

 


Giorgio Amico

Un rivoluzionario dimenticato. Michelangelo Pappalardi 7

Il Congresso di Lione e il Comitato d'Intesa di Parigi

Dunque tutto era rimandato allo svolgimento del congresso del Partito comunista italiano che definisse una volta per tutte con chiarezza la linea strategica e al contempo risolvesse la questione posta dall'esistenza di una corposa mnoranza che ancora si rifaceva alle posizioni da sempre sostenute da Bordiga. Il congresso si svolse in forma clandestina proprio in Francia, a Lione, dal venti al ventisei gennaio 1926. Il fatto è troppo noto per trattarne diffusamente anche in questa occasione.Ci limiteremo ad osservare come il congresso sancì la vittoria schiacciante del Centto gramsciamo sull'opposizione, nonostante il tentativo di questa di evitare che tutto si risolvesse in un pronunciamento a favore o contro Bordiga in quanto leader carismatico. Ottorino Perrone era intervenuto a rimarcare come la «Sinistra» non si riducesse alla sola persona di Bordiga, ma rappresentasse una linea strategica internazionale e non solo italiana, alternativa a quella della direzione del Comintern. Amadeo Bordiga era solo il compagno più dotato e dunque più in vista, ma la battaglia intrapresa dalla «Sinistra» sarebbe continuata a livello internazionale anche nel caso di un suo abbandono della lotta:

«E’ certo che Bordiga rappresenta tra noi, per le doti eccezionali del suo ingegno, il compagno che meglio formula le opinioni della sinistra, ma egli capeggerà questa corrente alla sola condizione che metta a profitto delle opinioni che ha tante volte espresso il suo ingegno, la sua volontà, il suo spirito di sacrificio. Se domani egli dovesse comunque cambiare parere, il problema della sinistra rimarrà ontegro e diventerà più difficile per il proletariato italiano la elaborazione delle sue esperienze rivoluzionarie, ma Bordiga sarà travolto ed il proletariato farà ugualmente le sue battaglie».

Perrone non poteva saperlo, ma il suo sarebbe stato un intervento profetico. Pochi anni più tardi, nel 1930, Bordiga si sarebbe ritirato completamente da ogni forma di azione politica rompendo drasticamente i rapporti con suoi seguaci all'estero che avrebbero però continuato nonostante tutto a lottare in suo nome con ostinazione e con coraggio.

Nel febbraio del 1926, all’indomani del congresso, Bordiga è uno sconfitto, di fatto ormai ai margini del partito. Il congresso ha dato il 90 % dei suffragi alla mozione della Centrale e solo il 9,2 % alla sinistra. Bordiga è riluttante, ma finisce per cedere alle insistenze di Gramsci ed entra, con Venegoni, a rappresentare la sinistra nel Comitato centrale. Il partito è retto da un Ufficio politico, composto solo di membri della maggioranza. I rappresentanti della sinistra, Bordiga e Venegoni, non hanno alcun incarico operativo né lo richiedono. Bordiga ha accettato di entrare nel Cc solo per non incrinare l’unità formale del partito, ma non intende in alcun modo collaborare alla direzione di un partito che considera ormai avviato sulla via dell’opportunismo. È quanto ha dichiarato a Lione, rifiutando recisamente ogni forma di collaborazione con la maggioranza radunata attorno a Gramsci: 

«Il gruppo che è stato artefice di questa politica […] noi lo consideriamo come rappresentante del disfattismo opportunista visibilmente avanzato nel partito del proletariato. Noi crediamo nostro dovere, giunti a questo punto […] di dire senza esitazioni e con completo senso di responsabilità questa grave cosa, che nessuna solidarietà potrà unirci a quegli uomini che abbiamo giudicato, indipendentemente dalle loro intenzioni e dai loro caratteri psicologici, come rappresentanti dell’ormai inevitabile prospettiva dell’inquinamento opportunista del nostro partito».

Sconfitto a Lione, Bordiga, per il quale la lotta non riguarda il solo partito italiano ma l'intero movimento comunista internazionale, intensifica i suoi rapporti con i compagni in Francia in vista del V Congresso del Pcf, in programma a Lille dal 20 al 27 giugno 1926. Agli inizi di febbraio con una lettera da Napoli ai compagni parigini Bordiga da indicazioni precise sulla situazione francese e come muoversi all'interno del Pcf:

«Dobbiamo approfittare delle attuali possibilità di parlare in Francia. La parte generale delle nostro tesi, ampiamente completate al congresso, e che vi farò avere potrà esservi utile. Bisogna poi pigliare posizione sui problemi francesi. Spero di avere modo di lavorare un poco per voi in questo senso. Sulle cose interne del partito francese sono giuste le critiche della destra, della R[évolution] P[proletarienne] e del B[ulletin] C[ommuniste], ma questi gruppi hanno il torto di farne la quistione di base, mentre dobbiamo evitare di porre alla base una quistione di carattere morale e procedurale. Del resto le critiche ai bolscevizzatori francesi, alla loro asinità disfattista e al loro livore di tirnnalli in sedicesimo è la stessa critica che va fatta ai centristi di tutti i partiti e in ultima analisi al metodo di lavoro artificiale ed erroneo della Comintern, di cui abbiamo parlato apertamente al congresso. Quanto alle basi politiche di quei gruppi: non possiamo che combattere apertamenti quelli della R[évolution] P[roletarienne] per l'errore tattico sindacalista, e quelli della destra perché preconizzano una tattica di fronte unito politico a tipo brandleriano cogli opportunisti. Dobbiamo però dire che una tale tesi in se stessa è logica, come logica è la nostra di opporci ad ogni manovra coi socialdemocratici e i loro partiti, mentre la più assurda è quella ufficiale che non sa definirsi e copre di frasi estremiste il vero pericolo opportunista: Souvarine e i destri compiono poi l'errore di far capire chiaramente che sono pronti a schierarsi con l'esecutivo di Mosca e a dichiararsi loro i veri leninisti, bolscevichi, etc. purché Mosca colpisca alcune persone e offra alcune garanzie: noi non possiamo contentarci di questo, e sosteniamo che la critica deve raggiungere ed investire Mosca e i suoi metodi. Più rettilinei sono a tal proposito quelli della R[évolution] P[proletarienne], a parte la loro piattaforma completamente errata. Bisogna lottare nel senso che la soluzione della quistione del P[artito] F[francese] non sia più cercata nei limiti della quistione “des postes” come sempre, e nell'avvicendamento di individui, gruppi...e coppie alla dirigenza. Si dve porla come una quistione di elevamento della capacità politica del partito, che è rimasta alla zero iniziale di quattro o cinque anni fa nella coscienza teorica, nella capacità di azione e in tutto. Questo è possibile solo se internazionalmente si rompesse il trucco della immobilizzazione bolscevizzatrice. Non è solo quistione di permettere un congresso in tutta democrazia, come chiede la destra. Questo significherà che Mosca permette aun nuovo gruppetto di fregare gli altri che ora sono caduti in disgrazia, cogli stessi loro sistemi. Naturalmente noi dobbiamo porre alcune tesi sulla situazione francese e i compiti del proletariato e del P[artito] C[omunista] soprattutto in ordine alle quist[ioni] sindacali. Un P[artito] C[omunista] deve avere eguale preparazione a lottare contro la tattica fascista e quella democratica della borghesia. In Francia è più pericolosa la seconda, sia per la situazione oggettiva, sia per le tradizioni dei difetti del partito. Il partito dve esere teoricamente rieducato in questo senso. La più assoluta indipendenza verso i partiti cartellisti e socialdemocratici deve essere assicurata. Le quistioni sindacali devono essere viste come quistioni che interessano il partito che interviene in esse senza preservativi. La situazione consente la formazione di un inquadramento sindacale serio del partito, ben più importante che le cellule, mentre la base organizzativa dovrebbe essere la territoriale, non però a scopi elettoralistici. Gli italiani devono essere contro i comitati antifascisti misti. Contro il fascismo francese il P[artito] C[omunista] deve mirare ad assumere la direzione esclusiva della lotta sul suo terreno e coi mezzi diretti, denunziando il pacifismo di ogni altro partito come il vero ossigeno al fascismo nascente. Mi pare giusto il dire che il fascismo in Francia non è maturo anche perché è mancata una vera grande minaccia rivoluzionaria nel dopoguerra. Bisogna illustrare per la Francia il gioco democrazia-fascismo in Italia visto da noi non come contrapposizione ma come necessaria preparazione e successiva dialettica: vedi nostre tesi».

Come si vede, è la riproposizione pura e semplice delle posizioni espresse al congresso di Lione con l'aggiunta dell'accenno alle particolari caratteristiche della situazione francese e dell'inesistenza in quella realtà di un effettivo pericolo fascista.

Proprio per permettere ai compagni in Francia di avere una migliore conoscenza di ciò che era avvenuto a Lione un rappresentante della sinistra italiana a Parigi fu convocato a Milano per la fine di marzo. Di questo viaggio Bruno Bibbi, il compagno incaricato della missione, ha lasciato una viva descrizione:

«In Francia costituimmo, a similitudine dei compagni d'Italia, un "Comitato d'Intesa" per mantenere i contatti con tutti i compagni della sinistra emigrati ed essere pronti a rispondere all'eventuale appello, che ormai ritenevamo inevitabile dai compagni italiani. Fu a questo punto che ricevemmo un invito a delegare un compagno a prendere contatti a Milano per avere un resoconto del III Congresso del partito che nel frattempo aveva avuto luogo a Lione, senza che alcun esponente della sinistra italiana in Francia, che pur tanto rappresentava oltre l'ottanta per cento di tutti i membri del partito sul posto, fosse stato delegato al congresso.

A Milano il nostro rappresentante, che al ritorno portò una copia della dichiarazione di Bordiga al Congresso di Lione, da voi pubblicata nell'apertura delle note sulla storia della Sinistra, ebbe una profonda delusione. Si attendeva che dietro le [notizie] pubblicate dal centrismo a proposito del Comitato d'Intesa si trovasse il comitato direttivo di una solida organizzazione che, malgrado gli sforzi del centrismo, riuscisse a controllare la maggior parte del partito; ma al posto di trovare una rete organizzativa di collegamento tra il Comitato d'Intesa e tutti i gruppi della sinistra sparsi attraverso l'Italia, trovò un vuoto ed una disorganizzazione completa. Di fronte alla sorpresa del nostro inviato il compagno Vercesi sorridente ci spiegò che tutto quello che aveva pubblicato la nostra stampa ed i rappresentanti ufficiali del neocentrismo era un bluff e che la funzione del Comitato d'Intesa alla sua costituzione era esclusivamente quella di regolare gli interventi dei compagni della Sinistra nella discussione precongressuale e che nessuno, tanto meno Amadeo pensava ad atti di forza o di rottura con il partito e con l'Internazionale [...]. Con obiettività i compagni italiani informarono i nostri rappresentanti che Repossi dissentiva dalla linea della maggioranza della sinistra ed aveva compilato una circolare per la rottura che aveva deposto personalmente al domicilio dei compagni della sinistra di Milano.

Al suo ritorno a Parigi il nostro compagno fece una estesa relazione dei colloqui di Milano e di fronte ai fatti reali la quasi totalità dei compagni accettò adeguandosi alla posizione dei compagni italiani. Fu in questo frangente che una mezza dozzina di compagni capeggiati da Pappalardi e da Rossi si ribellarono e ruppero con la sinistra italiana in modo definitivo e presero contatti con gli operaisti tedeschi e notoriamente con Korsch».

In realtà le cose andarono in maniera diversa e la ricostruzione di Bibbi anticipa di almeno un anno la spaccatura del gruppo italiano ad opera di Pappalardi.


7.Continua


giovedì 8 settembre 2022

Danilo Montaldi. Vita di un militante politico di base (1929-1975)

 

Presentazione editoriale

Danilo Montaldi (1929-1975) è stato un militante comunista «senza partito» e, negli anni Cinquanta, punto di contatto fra la realtà italiana e le esperienze francesi, americane, inglesi più avanzate.

Con la sua ricerca ha contribuito alla riscoperta, contro un marxismo ossificato ridotto a dogma, della centralità non solo della fabbrica ma anche della vita quotidiana di una classe operaia spogliata di ogni alone mitico. Per questa concretezza la ricerca di Montaldi si è rivelata irriducibile a ogni tentativo di recupero, mantenendo intatto il suo potenziale sovversivo.

Precursore del '68, il pensare e l'agire «dal basso» di Montaldi, il suo tentativo di dar voce e volto agli invisibili — dalle bellissime Autobiografie della leggera a Militanti politici di base — resta motivo di ispirazione per chi oggi, nonostante la crisi della sinistra novecentesca, continua a pensare che «bisogna sognare» un mondo centrato sull'uomo e non sullo spettacolo della merce.

Il libro ripercorre la vita dell'intellettuale cremonese, dagli anni tormentati dell'adolescenza all'elaborazione di un suo personalissimo metodo di lavoro, fino alla sua prematura scomparsa.


Indice


1. Gli anni di formazione (1929-1953)

L'infanzia e la guerra (1929-1943) • La militanza partigiana (1943-1945) • Il tempo del disincanto (1945- 1946) • Tra biblioteche e osterie (1946-1947) • Anni di studio e di silenzio (1947-1952)

2. Tra «sociobarbari» e internazionalisti (1953-1955)

La collaborazione con il Partito comunista internazionalista • Il mancato trasferimento a Parigi • Il rapporto con «Socialisme ou Barbarie» • Montaldi: un leninista operaista? • L'operaio americano (1954) • Un carteggio con Arrigo Cervetto • Il distacco dal Partito comunista internazionalista • Bilancio di un anno (1955) • Il gruppo di studio.

3. Allargare gli orizzonti (1956-1958)

Recuperare l'espressione popolare • Montaldi e il Pci • Il carteggio con Roberto Guiducci e Alessandro Pizzorno (1956) • La collaborazione con l'«Avanti!» • Una inchiesta nel Cremonese • Montaldi «sociologo» e il contrasto con Gianni Bosio • La classe operaia come esperienza • Le elezioni comunali del 1957 a Cremona e la nascita di Unità Proletaria • La Piattaforma programmatica del Gruppo di Unità proletaria.

4. Preparando la ripresa del movimento (1958-1959)

La collaborazione con Azione Comunista • La crisi del mondo contadino • Il dibattito sulla cultura di sinistra • Il Primo Congresso Nazionale di Sociologia (1958) • Contro l'offensiva padronale per l'auto-organizzazione operaia • Montaldi e Panzieri • Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati.

5. I fatti di Genova e la lotta degli elettromeccanici (1960-1962)

Il tentativo di costruire una rete nazionale delle avanguardie e la centralità della fabbrica • I fatti del luglio '60 • I «limiti» di «Prometeo» • La lotta degli elettromeccanici e la ripresa operaia • La rottura con «Nuova Presenza» • Redattore alla Feltrinelli • Il convegno di Parigi del maggio 1961 • Montaldi e i «Quaderni rossi» • Autobiografie della leggera (1962)

6. Aspettando il '68 (1963-1967)

1963. Un anno di svolta • L'incontro mancato con gli operaisti di «Classe operaia» • L'inizio della ricerca sul Pci • La fondazione della galleria Renzo Botti (1965) • La cascina • Il Gruppo Karl Marx (1966) • Una lettera a Feltrinelli e il problema della guerra.

7. La stagione dei movimenti (1968-1975)

I trasporti e la classe operaia • Il '68 a Cremona • «Ottobre. Per l'unità studenti-operai» • La Piattaforma politica di Pouvoir Ouvrier e i limiti dei gruppi • L'esperienza del doposcuola e i rapporti con Avanguardia operaia • I a morte di Ruggero Zangrandi e l'amicizia con Toni Negri • Militanti politici di base (1971) • Saggio sulla politica comunista in Italia • 1972. La fine del Psiup • Montaldi e il Vietnam • Feltrinelli, la strategia della tensione e il problema della lotta armata • Il saggio su Korsch • Una ricerca sull'autunno caldo • Esperienza operaia o spontaneità • Una morte mai del tutto chiarita.

Bibliografia.

Una pagina dal primo capitolo del libro 

«Proprio dalle frequentazioni delle osterie il giovane Danilo acquista a partire dal 1947 una vivissima consapevolezza dell'arretramento che il Paese sta vivendo, della caduta di coscienza politica negli strati popolari conseguente agli esiti totalmente fallimentari della politica di unità nazionale portata avanti da Togliatti e di cui la cacciata delle sinistre dal governo è solo l'inevitabile coronamento a livello istituzionale.

Il contatto diretto con i proletari offre a Montaldi un punto di osservazione privilegiato sulle contraddizioni profonde che il proletariato manifesta.

In quella sorta di lento apprendistato alla politica che va dal 1946 al 1953, l'ambiente delle osterie gioca per Montaldi un ruolo importantissimo, largamente sottovalutato da chi, come la gran parte dei ricercatori, ha preferito soffermarsi soprattutto sugli influssi della allora nascente scienza sociologica.

È nelle osterie che egli incontra i suoi amici e si mescola agli ultimi esponenti di quella leggera di cui ascolta i racconti. È nel tono dei discorsi che gli si manifesta con la massima chiarezza il processo di restaurazione in atto non solo ai livelli alti della politica istituzionale, ma anche nel modo di pensare quotidiano dei proletari».


Giorgio Amico
Danilo Montaldi
Vita di un militante politico di base (1929-1975)
DeriveApprodi, 2022

giovedì 1 settembre 2022

Per un Europa dei popoli, soprattutto di quelli "senza Stato"

 


A metà degli anni Settanta a Savona usciva con una certa periodicità una rivistina culturale, in larga parte destinata ad “arredare” le sale d'aspetto degli studi professionali. Il suo scopo principale, proprio per il fatto di esser letta da un pubblico vasto ed eterogeneo, era la raccolta di pubblicità di carattere locale. Di questo viveva il suo direttore, personaggio comunque non banale, aperto anche a tematiche non proprio ortodosse come quelle che allora gli proposi ed egli accettò senza battere ciglio, anzi incuriosito da un tema, quelle della minoranze nazionali, di cui fino a quel momento non aveva minimamente sospettato neppure l'esistenza. L'articolo che segue tratta proprio del silenzio sulle “minoranze” nazionali in Italia. Qualche anno prima avevo avuto la fortuna di conoscere personalmente François Fontan e di leggere il suo libro sull'etnismo, E l'articolo risente, oltre che degli ardori (e dell'ingenuità) propri dell'età, anche di questo incontro che ancora considero molto importante per la mia formazione culturale e politica. Seguì un articolo sulla “rivoluzione corsa” che mi valse l'amicizia duratura di alcune persone molto vicine al neocostituito Fronte Nazionale di Liberazione. L'articolo, ritrovato per caso nello scatolone di cui parlo da qualche mese, è dedicato a due amici fraterni, Alessandro Strano, tenace difensore della cultura occitana, e Angelo Sanna, coraggioso combattente per una Sardegna non più colonia interna dello stato italiano.


Giorgio Amico

Le minoranze etniche


«La popolazione italiana presenta, sia dal punto di vista etnico che linguistico, una notevole omogeneità....se i massicci stanziamenti di altri popoli avvenuti dopo la fine dell'Impero romano e per tutto l'alto Medioevo e lo spezzettamento politico della Penisola, con il conseguente isolamento fra regione e regione, determinarono l'affermarsi di caratteri fisici, ma soprattutto culturali distinti in ciascuna regione, il fenomeno non assunse mai tale rilevanza da potersi parlare di vere e proprie nazionalità separate in seno al popolo italiano. Pertanto oggi ... le minoranze allogene e alloglotte occupano solo posizioni periferiche (p. es. franco—provenzali in Val d'Aosta, tirolesi in Alto Adige) e costituiscono ridottissime isole la cui importanza va sempre più diminuendo (è il caso dei Greci e degli Albanesi in Calabria e Sicilia)." — da "Atlante Garzanti" -.Milano 1964 — 

In modo pi§ o meno simile tutti i manuali geografici pubblicati nel nostro Paese, dalle enciclopedie ai libri di testo, concordano nel rilevare l'omogeneità linguistica della popolazione italiana e nel negare l'esistenza di una "questione nazionale".

È una vera e propria menzogna collettiva. Infatti, contrariamente all'opinione dominante, l'Italia non è abitata da un solo gruppo etnico a cui fanno da contorno ristrette minoranze ai confini; ma sul territorio nazionale, oltre alla minoranza italiana, vivono diverse nazionalità di minoranza: i friulani, i sardi, gli occitani.

Queste popolazioni sottoposte durante il fascismo ad un delirante programma di italianizzazione forzata — di tale estrema e repellente brutalità da arrivare persino a cambiare i nomi sulle tombe — dopo l'avvento della repubblica democratica non sono state minimamente risarcite dei danni patiti, anzi una spessa coltre di silenzio è calata sulle realtà delle minoranze etniche viventi sul suolo italiano.

Nonostante l'articolo 6 della Costituzione affermi chiaramente che: "La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche" quasi nulla è stato fatto in concreto per impedire la progressiva liquidazione del patrimonio culturale rappresentato da queste realtà "diverse".

Se da una parte la minoranza tedesca della provincia di Bolzano e i Franco—provenzali della Valle d'Aosta hanno ottenuto un minimo di tutela delle loro caratteristiche nazionali, lo stesso non si può dire per gli Occitani delle valli cuneesi, per i Friulani, per i Sardi. La condizione di tali minoranze e di una emarginazione totale, il potere — saldamente nelle mani délla maggioranza di lingua italiana — ne impedisce ogni sviluppo e condanna queste culture "diverse", considerate inferiori, alla scomparsa.

In alcune situazioni (Occitani, Sardi) si può parlare di un vero e proprio atteggiamento colonialistico da parte delle autorità centrali, basti pensare che "l'essere spedito in Sardegna" ha significato fin dalle origini del nostro Stato unitario la massima punizione per i funzionari pubblici.

Le classi dominati — e con esse la cultura "ufficiale" — hanno declassato tali idiomi nazionali al rango di dialetti, ossia di subculture regionali in via di estinzione; riuscendo in questo modo ad eludere i dettami costituzionali. Infatti, definendo i gruppi etnici di minoranza come comunità parlanti dialetti italiani, si elimina il presupposto fondamentale dell'articolo 6 della Costituzione: l'esistenza di minoranze linguistiche. Da minoranze nazionali queste popolazioni vengono trasformate in parti integranti della comunità nazionale e come tali non godenti alcun particolare diritto.

La stessa attuazione dell'ordinamento regionale — che non poche speranze aveva suscitato — ha lasciato la situazione inalterata. Ne è derivato di conseguenza che i gruppi etnici di minoranza si sono visti costretti a sviluppare movimenti politici finalizzati alla difesa dei loro diritti misconosciuti. Movimenti nazionali esistevano già (Sud-Tiroler Volkspartei, Union Valdotaine, Partito Sardo d'Azione), ma mentre tradizionalmente si trattava di partiti piccolo—borghesi a base contadina, recentemente la questione nazionale ha preso un indirizzo diverso, caratterizzato da una accentuata intonazione rivoluzionaria.

Il fenomeno non è tipico solo del nostro Paese: in Francia, Spagna, Gran Bretagna e persino nella pacifica Svizzera il problema delle minoranze nazionali è diventato la piú scottante questione interna. Basterà accennare al problema basco, all'endemica guerriglia nord-irlandese e ai recentissimi sanguinosi tumulti nella vicina Corsica.

Ma perché proprio negli ultimi anni si è assistito a questo `revival" del sentimento nazionale dei piccoli popoli? Se da una parte elemento determinante è stato la rinascita del sentimento nazionale conseguente alle strepitose vittorie dei popoli di colore (Vietnam, Angola, Cina stessa) che hanno dimostrato che anche un piccolo popolo può battere potenze molto piú grandi, questa spiegazione non basta. Al desiderio tradizionale di recuperare la propria identità etnico-linguistica si è unita la presa di coscienza dello sfruttamento subito del gruppo di maggioranza, sfruttamen-to che riproduce all'interno dei singoli Stati il rapporto neocoloniale esistente tra Paesi avanzati e Terzo Mondo. Presa di coscienza facilitata dalla grave crisi in cui si dibatte da anni l'economia dell'Europa occidentale e che aggrava sensibilmente le condizioni di vita di queste popolazioni emarginate dallo sviluppo economico. E quanto diciamo non vuole essere una forzatura polemica suggeritaci dalla simpatia con cui guardiamo alle lotte di questi piccoli popoli.

Non è un caso, infatti, che la CEE stessa abbia definito le zone in cui si sono sviluppati questi movimenti autonomisti il "Terzo mondo europeo ". Oppressione culturale e miseria vanno di pari passo e lo testimoniano le condizioni ingrate di esistenza in cui vivono queste nazionalità destinate a fungere da serbatoi di braccia per i lavori piú umili e peggio retribuiti.

Su due milioni di sardi, 700 mila sono stati costretti ad emigrare (di cui 300 mila all'estero); di questi il 60 per cento in condizioni di lavoro salariato e solo lo 0,03 per cento come imprenditore o libero professionista. L'emigrazione di laureati e diplomati è in continuo aumento per la mancanza di prospettive occupazionali in loco; in Sardegna i diplomati e laureati sono il 4 per cento della popolazione, ma tra gli emigranti raddoppiano passando al 7 per cento. Ma l'aspetto più tragico di questa emarginazione forzata è la distruzione della personalità umana degli emigrati: su cento emigrati sardi, dieci sono ricoverati in manicomi in Sardegna e fuori per aver contratto malattie mentali — derivanti dallo sfruttamento o dall'isolamento — tipiche di chi, strappato dalla propria terra, non ha nemmeno piú la possibilità di comunicare con gli altri nella sua lingua natale.

Arrivati a questo punto la liquidazione di una cultura diversa rischia di divenire la progressiva sparizione dei piccoli popoli in quanto entità autonome. Sono dati che commentano da soli e che confermano 1' assunto precedente che non di sola sopraffazione culturale si tratti, ma di vero e proprio colonialismo. Ma anche senza la fred-da evidenza dei dati statistici questa realtà sconosciuta può imporsi alla nostra coscienza di uomini liberi. Basta la poesia di una canzone occitana dello "chantaire" Daire d'Angel che narra la storia di un piccolo paese eccitano condannato, nell'indifferenza piú totale, a morire lentamente. A noi non resta che sperare che questo grido d'amore per la propria terra non resti inascoltato.


Erian 2000, erian la vito
din en joli pais,
erian 2000 ma chal agù parte
a trabaiar da luegn.
E i avio lou Marques, apres lou Rei,
e pei lou Duze
'din la mizerio nous an tengu,
embé lour gueres nous an tuà.
Erian encà 1000, encà mai paoure
'din en joli pais.
Erian encà 1000 ma chal agù parte
a trabaiar da luegn
E la Coustitusioun Italiano es aribà
e un e dui e tres e quatre e sinc
e apres lou sies...
Isì parlo de tu paoure Ousitan
que vouliers pa partir.
Isì parlo de tu ma chal que partes
a trabaiar de luegn.
E part aquest e aquel
es la mizerio tan coume dran
es per Paris eu per Turin
ma la lour tere i l'an lisà.
Sien restà 100 'din meun pais
que vol pa mourir.


Chansoun de Daire d'Angel

Sampeyre


L'Alfiere – n.2 - 1976