I due gemelli ritratti
con le ali, si ritrovano sia nella tradizione ebraica che in quella
filosofica greca, nella funzione di Spiriti psicagoghi, cioè di
Angeli che hanno il compito di accompagnare l’anima all’ultimo
destino.
Raffaele K.
Salinari
Hypnos e Thanatos, il
Sonno e la Morte
Hypnos e
Thanatos, il Sonno e la Morte: i «gemelli veloci» che Omero chiama
in gioco nella deposizione dell’eroe Sarpendonte nel canto XVI
dell’Iliade. In questo episodio omerico il figlio Laodamia, della
stirpe di Bellerofonte, e di Zeus, dunque fratellastro di Elena, è
ferito a morte da Patroclo sotto le mura di Troia; sarà loro il
compito di sollevarne il corpo, pulirlo dal sangue, avvolgerlo nelle
bende ed infine trasportarlo nella terra dei padri. Indistinguibili
nell’aspetto esteriore, entrambi alati, a volte barbati altre
imberbi, i due gemelli sono però diversi nei particolari simbolici
che li raffigurano insieme, in particolare nella loro postura
iconografica: mentre Hypnos non sembra avere tratti caratteristici,
suo fratello viene raffigurato spesso con una torcia capovolta,
simbolo della vita che si è spenta, o come un bel giovane dai piedi
intrecciati, rimando alla posizione in cui venivano sepolti i morti
nell’antica Grecia.
Nelle teogonie
classiche il Sonno e la Morte sono parti di una relazione
intrinsecamente complementare; è questo a determinare in essenza il
mitologema che li accomuna: stati speculari che trapassano l’uno
nell’altra. Entrambi, infatti, nascono dalla Notte, Nyx, e dalla
Tenebra infera, l’Erebo. E dunque, seppure generati della
combinazione delle stesse Potenze – la notte che porta i sogni e la
esiziale tenebra eterna – le esprimono in proporzioni differenti,
il che li rende speculari sì, ma non per questo identici; anzi.
Mentre il Sonno dimora nell’antro che si affaccia sull’Ade in
prossimità del fiume Lethe, in cui scorrono eterne le acque
dell’oblio, la Morte abita invece il suo tenebroso interno.
È in questo luogo
inospitale che Thanatos fissa la sua dimora; ed in esso, non solo
trae le anime, ma non permette loro di uscirne. La loro specularità
è dunque sostanziale; il Sonno, insieme ai suoi molteplici figli,
tra cui i sogni, pertiene allo stato dell’essere: entra ed esce dai
corpi, «senza fare o subire alcuna violenza» – come afferma
Platone riferendosi al daimon Eros, che con esso fa mostra di
un’affinità evidente – ed, al contempo, permette ai corpi di
uscire ed entrare in lui. Al contrario, il suo gemello senza figli,
«dal cuore di ferro e dalle viscere di bronzo», pertiene invece
allo stato del non essere: opposto per ciò anche ad Eros, entra
solamente e, con questo atto, separa l’anima eterna dal corpo
mortale. Eppure entrambi, come vedremo sul Cratere di Eufronio, sono
indispensabili al gesto della deposizione, che dunque simboleggia il
passaggio dal sonno, con le sua varie fasi, alla morte.
Il sonno ed il suo
sognare
A differenza degli
antichi Egizi, la Grecia classica non ammetteva che potesse esserci
vita alcuna nel «sonno profondo», come definivano la morte gli
abitanti della terra nilotica. Per gli Egiziani l’essere aveva tre
corpi: ogni volta che ci si addormentava, il Ka, il «corpo di
sogno», si librava nell’etere per poi ritornare, ed unirsi, al
«corpo mortale» nello stato di veglia. Ma la veglia non
rappresentava che il pallido riflesso della vera vita: quella nel
Regno dei Morti, in cui si era immortali, dato che solamente un morto
è tale in quanto non può più morire. Per questo il Ba, il «corpo
del sonno profondo», imbalsamato nella mummia – involucro necrico
di preservazione per questo stato particolare – non era solamente
una forma estrema di esistenza, ma l’essenza stessa della vita
immortale.
Nell’antico Egitto
è dunque la morte a specchiarsi nel sonno. La morte non è che
l’inizio: si «nasce alla morte», alla sua «immensità
indefinita». Da qui il senso del mistero che ancora aleggia su
queste credenze. Per la Grecia classica, al contrario, il sonno
portatore di sogni è una componente determinante della vita;
possiamo dire che ne orienta lo svolgimento. Nei tempi antichi,
incubare sogni – dormire cioè in un luogo ritenuto sacro –
significava entrare in contatto diretto con il numinoso, con
l’Invisibile. Tutta la biografia degli eroi omerici è governata da
sogni e visioni, apparizioni oniriche di ombre che li visitano e li
guidano: «Tu dormi, Atride», dice il sogno nel II libro
dell’Iliade, «Tu dormi, Achille», dice lo spettro di Patroclo.
L’ate, lo stato d’animo
che spesso domina l’agire dei guerrieri iliaci, altro non è che un
temporaneo annebbiarsi della coscienza lucida; una forma di onirismo
che toglie il senno, ispirato dagli stessi Dei: conduce Agamennone a
rifarsi per la perdita della concubina portando via ad Achille la
sua. D’altra parte i Greci non parlavano mai di avere o fare un
sogno, ma sempre di vederlo. Ancora, non solo il sogno visita il
sognatore, ma «gli sta sopra», dice Erodoto; «stava sopra la sua
testa» canta addirittura Omero, a significare la potestà onirica di
influenzare, profondamente, la realtà soggettiva del dormiente.
Sul Cratere di
Eufronio, capolavoro attico con figure in rosso del V secolo a.C.,
attualmente conservato presso il Museo di Villa Giulia a Roma, la
scena della deposizione di Sarpedonte è magistralmente raffigurata.
Qui i due gemelli veloci vengono individuati scrivendo il loro nome
ma, ecco l’arcano, quello di Thanatos è scritto al contrario, come
se fosse riflesso nell’oggetto che, elettivamente, permette di
coglierne l’isotropa simiglianza col gemello Hypnos: lo specchio.
Qui è dunque la Morte a fare da specchio al Sonno, perché è
quest’ultimo che interagisce con la vita; è la vita stessa, mentre
la morte rappresenta il suo speculare contrario: la vita si specchia
nella morte.
Non basta, allora, solo
il nome per simboleggiare Thanatos; per portare ad effetto il suo
significato essenziale di nomen omen, lo si deve vedere come riflesso
su di una superfice che rimanda al vivente l’immagine della sua
ineludibile condizione futura: Thanatos è lo specchio del destino di
Hypnos, cioè di colui che al momento dorme ma che, inevitabilmente,
un giorno passerà dal sonno alla morte.
Passano i secoli e
vediamo come i due gemelli, che anche sul cratere sono ritratti con
le ali, si ritrovano sia nella tradizione ebraica che in quella
filosofica greca, nella funzione di Spiriti psicagoghi, cioè di
Angeli che hanno il compito di accompagnare l’anima all’ultimo
destino. La tradizione rabbinica ci dice che possono entrare in cielo
soltanto quelli la cui anima è portata da questi particolari
messaggeri.
Nella Parabola del povero
Lazzaro e del ricco Epulone è Gesù stesso che gli attribuisce
questa funzione: “Il mendicante morì e fu portato dagli Angeli nel
seno di Abramo” (Lc. 16, 22). E ancora, esattamente come fanno i
gemelli col corpo di Sarpedonte, nella lettura apocalittica
giudaico-cristiana dei primi secoli si parla di angeli psycopomnes
che coprono il corpo «con lini preziosi e lo ungono con olio
fragrante, poi lo mettono in una grotta rocciosa, dentro una fossa
scavata e costruita per lui. Ivi resterà fino alla resurrezione
finale».
Il «Compianto»
E così vediamo che,
nel canto dell’Iliade come nella sua raffigurazione sul Cratere di
Eufronio, i due gemelli depongono Sarpedonte traendolo dal campo di
battaglia per depositarlo nel suo sacello in Lidia. Il gesto è
dunque l’archetipo di ogni deposizione dell’eroe e, nel corso dei
secoli, verrà ripetuto innumerevoli volte attingendo proprio da
questo schema e con gli stessi personaggi simbolici: il Sonno e la
Morte. Saranno, infatti, gli stessi personaggi, seppur adattati alla
nuova narrazione religiosa, che ricompariranno sia nella cosiddetta
figura del «Compianto», cioè nella deposizione del Cristo Morto
sulla croce e nella sua traslazione verso il sepolcro, sia in quella
che è la sua controparte femminile, cioè la Koimesis o Dormitio
Verginis.
In particolare il
Compianto medioevale e rinascimentale, i periodi in cui questa
immagine viene dipinta più frequentemente e con più attinenza
all’episodio evangelico, attinge alle fonti letterarie del Vangelo
apocrifo di Nicodemo, detto anche Acta Pilati, nonché ai sermoni di
Giorgio di Nicomedia del X secolo. Le prime raffigurazioni di questa
scena vengono però dalle miniature bizantine del IX secolo, in cui
inizialmente compaiono solo due personaggi, oltre al Cristo Morto:
Nicodemo e Giuseppe di Arimatea, due fratelli membri del Sinedrio
che, come vedremo, altro non sono che le trasposizioni in chiave
cristiana di Hypnos e Thanatos.
In più, se prendiamo
le scene miniate che illustrano le omelie di Gregorio Nazianzeno
(329-390), Padre e Dottore della Chiesa nonché maestro di San
Girolamo, dedicate all’Imperatore bizantino Basilio I –
attualmente conservate presso la Biblioteca Nazionale di Francia –
vediamo chiaramente come le posture delle figure di Nicodemo e
Giuseppe di Arimatea siano derivate da quelle di Hypnos e Thantos sul
Cratere: immobili nell’atto di sorreggere il Cristo Morto mentre
San Giuseppe, come Hermes, sta ritto sulla scena nel gesto di dare
ordini ai due. In questa immobilità, in questa ieratica staticità
delle figure bizantine, possiamo allora ritrovare il filo
dell’immagine originaria presente nel canto omerico e ripresa dal
ceramografo Eufronio, che per la prima volta ci mostra la deposizione
di un essere divino. Il cosiddetto Threnos – la figura composta dai
quattro personaggi visti nel loro insieme – è dunque originato da
questa sospensione dell’azione, da questa pausa quasi meditativa
che invita lo spettatore ad immedesimarsi nell’attimo del passaggio
dalla vita alla morte.
Ma certo la postura
delle figure, ripresa poi in innumerevoli dipinti con l’inserimento
della Vergine e di altri personaggi di contorno, non basta a
verificare il passaggio dall’archetipo figurativo greco, della
Pathosformel della deposizione come avrebbe detto Aby Warburg, al suo
omologo bizantino. E allora, per far combaciare ulteriormente le due
rappresentazioni dobbiamo chiederci: chi rappresenta Thanatos e chi
Hypnos in chiave cristiana? Ebbene se guardiamo alla storia narrata
dai Vangeli ci accorgiamo immediatamente che Giuseppe di Arimatea è
Thanatos mentre Nicodemo è Hypnos, perché?
Giuseppe di Arimatea
e Nicodemo
Giuseppe di Arimatea
è il membro del Sinedrio che annuncerà a Pilato la morte del Cristo
e così rende possibile che egli venga deposto dalla Croce. Qui
abbiamo già un attributo chiaro che lo identifica con Thanatos: è
lui che stende la dichiarazione di morte di Gesù di Nazareth.
Dichiarare deceduta una persona, specie sottoposta al supplizio della
croce, non era un compito facile. Bisognava avere una certa
esperienza empirica di come si presentava un corpo morto in quel
modo, poiché al tempo gli strumenti diagnostici non erano esistenti.
E dunque chi meglio di Thanatos riconosce, per così dire, la sua
opera? Ma non è tutto.
Giuseppe di Arimatea
ha anche i tratti caratteristici di un’altra divinità legata alla
morte: Anubis. Infatti gli attributi della divinità dei morti
egiziana sono: «Colui che presiede l’imbalsamazione», «Colui che
è sulla montagna», intendendo la montagna dove erano scavate le
tombe, ed infine «Colui che è nelle bende» intendendo non solo le
bende funerarie ma la loro simbologia resurrezionale. Ed è proprio
Giuseppe di Arimatea che metterà a disposizione del Corpus Cristi
sia gli unguenti per lavarlo, come avviene per Sarpedonte, sia le
bende del sudario sia, infine, la sua stessa tomba scavata appunto
sul fianco di una montagna. Dal lato opposto troviamo invece
Nicodemo-Hypnos.
Anche qui l’archetipo
muta nella forma mantenendo così intatta la sostanza. Se guardiamo
alla sua figura in chiave simbolica ci accorgiamo che essa è tutta
in un susseguirsi di sogni; Nicodemo, infatti, vive, per così dire,
una vita che è sogno, come avrebbe detto Pedro Calderón de la
Barca. I sogni che marcano la sua figura, tutti inerenti la
deposizione di Cristo, sono certamente tre. Nel primo si racconta che
Nicodemo si prefisse il compito di riprodurre nel legno l’immagine
di Gesù Morto così come egli se lo ricordava. Dopo aver scolpito il
corpo si arrestò di fronte alla difficoltà di riprodurne il Volto.
Dopo lunga preghiera, cadde addormentato; al suo risveglio ebbe la
sorpresa di vedere l’opera compiuta da mano angelica.
Qui appare evidente
la relazione tra il Volto del Salvatore e la sua intrinseca natura
divina, come magistralmente ci dice Pavel Florenskij nel suo saggio
sull’iconostasi Le Porte Regali. Per questo studioso delle icone è
il Volto che racchiude l’essenza numinosa, ed in particolare lo
sguardo, che egli definisce come vero e proprio «simbolo
ontologico». Un simbolo è sempre «più di ciò che appare» e
dunque l’Immagine evocata in sogno da Nicodemo corrisponde al Ba,
al «corpo del sonno profondo» del Cristo.
Dice ancora
Florenskij che certe Immagini che separano il sogno dalla realtà,
separano il mondo visibile da quello invisibile, ed in tal modo
congiungono i due mondi. Il sogno visionario del Volto, si badi bene
del Volto come Nicodemo lo ricordava, non di una semplice
riproduzione, cioè di una mera ed imperfetta maschera funeraria,
diviene così il limite comune alla serie delle situazioni terrene e
alla serie delle esperienze celesti. Nicodemo entra dunque,
attraverso il suo sonno profetico, in diretto contatto col suo stesso
volto attraverso quello di Dio: si scopre come essere nell’infinito
Essere; questa è «l’abolizione dionisiaca dei ceppi del
visibile», conclude Florenskij. Influenzato a vita dal suo primo
sonno estatico Nicodemo, prossimo a morire, affida l’opera a
Isacar, uomo giusto e timorato di Dio.
Di generazione in
generazione essa fu segretamente custodita e venerata. Circa seicento
anni dopo, nei pressi del luogo dove l’opera era custodita, giunse
il Vescovo Gualfredo, al quale apparve in sogno lo stesso angelo
scultore che gliene svelò la presenza. La scultura fu collocata
allora su una barca affidata alla Divina Provvidenza perché la
facesse giungere in luogo degno. Nella barca furono poste anche due
ampolle contenenti il sangue di Cristo raccolto da Giuseppe
d’Arimatea con Nicodemo. Dopo un lungo viaggio la barca giunse nei
pressi di Luni. A capo della diocesi di Lucca vi era allora un
Vescovo noto per aver traslato nella città i corpi di molti santi,
al quale apparve in sogno l’angelo che gli suggerì di andare a
Luni a recuperare la barca ed il suo prezioso carico. E dunque la
catena di sogni termina con la traslazione della reliquia in un luogo
protetto dove simbolicamente si compie il sogno di Nicodemo.
La Dormizione di
Maria
Ma la figura che
chiude il cerchio archetipico, che dunque essenzialmente assomma e
sussume entrambi gli aspetti della Deposizione, fonde e confonde il
Sonno e la Morte riportandole all’unità originaria, è certamente
quella di Maria nell’atto della sua Koimesis, la «Dormizione». La
Madonna altro non è, nella raffigurazione cristiana, che l’ultima
ipostasi della Grande Madre, della Grande Potnia mediterranea,
dell’unica Dea totipotente che dominava la religiosità arcaica
prima dell’avvento delle divinità legate al patriarcato.
È lei che crea
tutto, che è tutto. Tra le sue creature ci sono i primi Dei e le
prime Potenze, i Titani ed Eros protogeno, la Notte ed Erebo – dai
quali vengono poi generati i «gemelli veloci» – via via
enumerando sino a Gesù di Nazareth. Tutto è tutti sono allora suoi
figli e, al tempo stesso, sue manifestazioni. E dunque neanche la
spiccata misoginia ecclesiastica ha potuto soffocare alla radice la
potente evidenza arcaica, l’intuizione profonda, sacrale, che la
Creazione è generata e curata da una Essere dalle qualità
femminili. Il corrispettivo di questa ascendenza, nell’iconografia
cristiana, è certamente quello della Madonna della Misericordia che,
sotto il suo vasto mantello, ospita tutto il Creato, morti inclusi.
Perciò Maria non può
morire, ed alla fine della sua esistenza terrena si addormenta e
viene assunta in cielo in questo stato peculiare, unico, come si
conviene alla Madre di Dio, a colei che lo ha generato, partorito e
curato; non solo, ma che lo ha resuscitato, poiché sappiamo che
senza il suo sguardo amorevole sul corpo morto del Figlio, senza la
carica resurrezionale che emana dal suo Volto intenso ed estatico, il
Cristo non sarebbe mai risorto, non avrebbe avuto motivo di farlo.
Come la Basilinna durante
le Grandi Dionisiache si accoppia con un simulacro del dio per
rigeneralo e consentirgli di riprendere il ciclo della vita
indistruttibile, così Maria fa rinascere la vita eterna dalla morte
del Cristo. L’erotismo che traspare nei suoi gesti altro non è che
la quintessenza della sua stessa definizione secondo Georges
Bataille: portare la vita sin dentro la morte. «Ti sei addormentata
ma non per morire, assunta, ma non abbandoni il genere umano».
Così recita il testo
di un panegirico sulla Dormizione del secolo VIII. «Colei che
diviene madre partorendo, rimane vergine incorrotta, perché Dio era
Colui che veniva generato; così nella tua Dormizione vitale, tu sola
a buon diritto, rivesti la gloria della persona completa di anima e
di corpo» dice Teodoro Studita, giustificando al contempo il dogma
della Immacolata Concezione senza per questo dover rinnegare la forza
numinosa dell’archetipo precristiano.
Non a caso la Festa della
Dormizione della Madre di Dio, celebrata il 15 agosto, che risale ai
secoli VI e VII, ed è originariamente legata alla comunità di
Gerusalemme, veniva preparata ed introdotta dall’Ufficio della
cosiddetta «Paraclisis», cioè chiedere l’intercessione della
Grande Madre che tutto può perché tutto è. E così nel suo sonno
eterno che non è né morte né sonno, ma eterno sogno, Maria di
Nazareth sogna se stessa, sogna il Mondo.
il manifesto – 26 marzo
2016