Il significato
profondo di un apparato che torna periodicamente: il ciuffo, dalle
ascendenze fiabesche, che lo collegano al mondo dell'avventura
ribelle e a quello della magia.
Raffaele K. Salinari
Quei ragazzi col
ciuffo
«Mi han detto che ti
piacciono i ragazzi col ciuffo, mi han detto che ti piacciono i tipi
come me, ed io mi sono fatto crescere i capelli, per farmi guardare
da te, ye, ye, ye, ye, ye, ye, ye, ye». Così cantava Little Tony
nei lontani anni ‘60 del secolo scorso, segno che anche in
contemporanea all’emergente stagione Beat, quella dei capelli
lunghi e fluenti sia per i ragazzi che per le ragazze, il fascino del
«ragazzo col ciuffo», manteneva la sua centralità estetica, il suo
fascino disfunzionale. Dopo quel periodo di splendore, però, il
ciuffo sembrava eclissato da altre fogge, anche se ha sempre
mantenuto una sua carsica presenza pronta a riemergere ciclicamente,
tanto che oggi molti adolescenti ne sono dotati come particolare di
una acconciatura che sempre si accompagna al gesto di aggiustarlo. E
allora, che origini potrebbe rivelare questa particolare modalità di
portare i capelli, e quale significato potrebbe avere il gesto di
rassettarli toccandosi così la fronte, sede naturale del ciuffo?
Kairos
Se indaghiamo le
ascendenze mitologiche del ciuffo, cioè le sue origini archetipiche,
quelle che precedono la moda poiché la creano nel suo significato
cosmetico-cosmologico, cioè di creazione dell’Ordine dal Caos,
arriviamo immancabilmente alla figura di Kairos. Nelle raffigurazioni
allegoriche dell’antica Grecia Kairos, il tempo dell’opportunità,
dell’occasione, del soggettivo, è contrapposto a Kronos, quello
lineare ed oggettivo della quantità, degli orologi. Il dio ha
appunto un ciuffo di capelli sulla fronte, per poterlo «acciuffare»,
ma la nuca è calva poiché, una volta passato, non torna. C’è
ancora uno splendido bassorilievo, risalente al III secolo a.C.: il
dio vi è raffigurato come un giovane nudo, che corre rapido sui
talari; ora si trova al Museo Municipale della città croata di Traù,
l’antica Tragurium romana.
L’artista greco Lisippo
aveva scolpito una statua di Kairos che teneva presso il cortile
della sua casa, nella città ellenica di Sikyon. Sul piedistallo
dell’opera era inciso un epigramma di Posidippo: «E chi sei tu? Il
Tempo che controlla tutte le cose. Perché ti mantieni sulla punta
dei piedi? Io non corro mai. E perché hai un paio di ali sui tuoi
piedi? Io volo con il vento. E perché hai un rasoio nella mano
destra? Come segno per gli uomini che sono più tagliente di
qualsiasi lama. E perché hai dei capelli davanti al viso? Per colui
che mi incontra per prendermi per il ciuffo. E perché, in nome del
cielo, hai la parte posteriore della testa calva? Perché nessuno che
una volta ha corso sui miei piedi alati lo faccia ora, benché si
auguri che accada, mi afferri da dietro. Perché l’artista ti ha
foggiato? Per amor tuo, sconosciuto, e mi mise su nel portico come
insegnamento».
Già qui notiamo le
convergenze tra la giovinezza, il ciuffo, e la figura di Kairos. In
questo periodo della vita, quando ancora tutto è possibile, quando i
dispositivi della normalizzazione non hanno sedimentato quel
disincanto cui diamo il nome di maturità, tutto è Kairos: a noi
tutti è sembrato di volare come lui sui talari, magari verso il
primo amore, mentre il ciuffo ci indicava la strada dell’opportunità,
dell’avventura. Ed anche se il ciuffo non era sulla nostra fronte
come tale, bastava un soffio di vento a crearlo anche giusto per un
momento, come noi stavamo facendo con la nostra vita. «Il vento
vuole sempre giocare con i tuoi capelli» diceva Gibran, e cosa più
del ciuffo cairologico, istantaneo, generato dallo zefiro improvviso,
simboleggia la libertà dello spirito? Vento nei capelli, vento nei
pensieri… Ecco perché, se ci pensiamo bene, alla vista di un
«ragazzo col ciuffo», torna per un momento in noi la consapevolezza
che subiamo un’epoca di coscienza infelice, nella quale avvertiamo
confusamente la necessità di orientare la molteplicità dispersa dei
nostri pensieri proprio in una prospettiva cairologica: rinascere
«nell’assentimento alla legge d’armonia che collega e unisce
ogni cosa nell’Universo», come dice l’egizio Plotino; lasciare
la plumbea dittatura di Kronos, il dio che divora i suoi stessi
figli, per praticare la leggerezza alata, ma non per questo meno
impegnativa, anzi, di Kairos. Questa «metamorfosi degli dèi», come
diceva Jung, ossia dei principi e dei simboli fondamentali che
governano la nostra esistenza, nasce anche dall’evidenza che siamo
pericolosamente al limite degli equilibri vitali complessivi, come la
pandemia di Covid-19 ha ampiamente dimostrato.
Dai Promessi sposi ai
Teddy Boys
La parola ciuffo deriva
forse dal longobardo zupfa, simile al tedesco Zopf, che
significa appunto ciuffo o treccia. Il dizionario Treccani così ci
dice, aggiungendo, a mo’ di esempio: «ciocca di capelli che scende
sulla fronte o sta ritta sul capo: i bravi di mestiere … usavan
portare un lungo ciuffo, che si tiravan poi sul volto, come una
visiera». Ecco che qui traspare un’altra caratteristica, per così
dire essenziale e del tutto complementare alla prima, del ciuffo: il
suo lato «ribelle». Ciuffo e ribelle, infatti, sono due parole che
vanno, non a caso, sovente insieme. E questo ci dice che la foggia
dei capelli messi in quel modo vuole spesso simboleggiare proprio
questa caratteristica. La ciocca sulla fronte o che, come nel caso
dei Bravi di Don Rodrigo, può essere usata addirittura come
maschera, emana sempre un ché di incoercibile, che non può essere
costretto, fissato, composto: un qualcosa di ribelle appunto, un
particolare che illumina tutta una maniera di essere.
E qui entriamo nel grande
campo dei rebel without a cause, di quella «gioventù bruciata»
immortalata nell’omonimo film del 1955 diretto da Nicholas Ray con
un mitico James Dean che sfoggia il celebre ciuffo. Dall’altra
parte dell’Atlantico, non a caso, si vivono le stesse dinamiche
esistenziali. Sono gli anni in cui il nostro Tony Renis, a Londra per
cominciare la sua carriera di rocker, si fa crescere il ciuffo. Lungo
il Tamigi incontriamo infatti i Teddy Boys, una delle bande di
giovani proletari che, insieme ai Blouson Noir francesi,
rappresentavano le prime manifestazioni di contestazione generica,
anarcoide, senza una causa appunto, del «sistema». Tanto per
misurare la distanza ideale, se non ideologica, tra quel periodo ed
il ’68, basti citare un altro film, completamente diverso, ma
altrettanto iconico, Barbarella, di Roger Vadim con l’attivista
Jane Fonda, in cui il capo dei rivoluzionari contro il tiranno di
turno, riassume all’avvenente agente segreta terrestre il credo del
suo movimento: «chi non ha causa non ha effetto».
Ebbene, in quegli anni,
invece, a maggior ragione il ciuffo esprimeva, insieme agli altri
particolari dell’abbigliamento, una rabbia spesso inconsulta,
ancora non politicizzata, spesso rivolta contro se stessa, come
dimostra il fatto che i Teddy Boys si riunivano in bande
che sovente si scontravano ferocemente fra loro. Fra gli scontri più
violenti si ricordano i fatti di Notting Hill del 1958. Negli anni
successivi il ciuffo diventa caratteristica stilistica dei Rocker,
altra tendenza giovanile degli anni ’60 che si contrapponevano
ai Mods. Non è questa la sede per analizzare in dettaglio la
storia delle differenze, e dunque delle immancabili analogie, tra i
due blocchi contrapposti, che sfociarono nella leggendaria battaglia
nel 1964 a Clacton. Sempre per rimanere nell’ambito delle citazioni
filmiche basterebbe andarsi a rivedere Quadrophenia, la
pellicola del 1979 tratta dall’omonima opera rock degli Who.
Naturalmente corre l’obbligo di citare la presenza del ciuffo sulla
fronte di cantanti iconici di questo periodo, da Little Richard ad
Elvis Presley, ben ondeggianti sulla fronte a tempo di rock a
significare il tono ribelle ed irriverente della loro musica, inclusi
i tanti epigoni rockabilly.
Infine, per chi volesse
immergersi nell’ossimoro, ricordiamo Ricky Shayne, che nel 1965
incise il pezzo Uno dei Mods avendo in tutto e per tutto
l’aspetto, ciuffo ipertrofico incluso… di un Rocker. Anche nei
fumetti di quegli anni il ciuffo connotava personaggi ribelli e poco
socializzati: basti pensare alla testata Il Monello dove
campeggiava un ricciuto e ciuffato ragazzino dallo sguardo assai
birichino, ed a personaggi come Accio, Superbone e Narciso Putiferio,
contrapposti al bravo bambino Cuoricino, dotato di un taglio molto
composto.
Richetto dal ciuffo e
ciuffettino
Ma il ciuffo ha anche
ascendenze fiabesche, che lo collegano non solo al mondo
dell’avventura ribelle, ma anche a quello della magia. In qualità
di attributo magico, infatti, lo troviamo in diverse favole tra cui
le più significative sono certamente due: Enrichetto dal ciuffo
e Ciuffettino.
Riquet à la
houppe (Enrichetto dal ciuffo) è il titolo di una fiaba
popolare francese, resa celebre dalla versione di Charles Perrault
del 1697. La storia è quella legata al magico potere del ragazzo col
ciuffo di «regalare lo spirito» a chi gli garbava. In particolare
Enrichetto sceglie come oggetto del suo potere una bella principessa
totalmente stupida alla quale però, in cambio dell’amore
incondizionato, concederà il suo dono. La bella, infatti, lo
incontra in un bosco dove si era ritirata a piangere sulla sua
assoluta mancanza di spirito. «Se non è che questo, signorina, io
posso facilmente far cessare le vostre pene. – E come farete?
esclamò la principessa. – Io ho il potere, signorina, disse
Richetto dal ciuffo, di dare tutto lo spirito possibile e
immaginabile alla persona da me amata; e poiché questa persona siete
proprio voi, signorina, da voi solo dipende aver quanto spirito
volete, purché acconsentiate a sposarmi». La favola, naturalmente,
dopo varie peripezie, ha un lieto fine: la principessa dotata di
spirito si ricorda, mercé il dono magicamente ricevuto, di poter
rendere bello chiunque avesse amato, e dato che Enrichetto era brutto
assai, ecco la mutua trasformazione: lei spiritosa ed intelligente,
lui bello ed aitante. Qui il ciuffo è indicato, dalla nascita di
Enrichetto, come il contenitore stesso del suo potere trasformativo,
un vero e proprio dispositivo dello spirito, caratteristica che
tornerà, come vedremo tra poco, negli studi di Giorgio Agamben
sul Genius.
Anche Ciuffettino è
molto significativo del potere magico insito nel ciuffo. Il
protagonista di questo racconto è un personaggio il cui fortunato
esordio risale al 1902, nell’omonimo libro scritto e illustrato da
Yambo, al secolo Enrico Novelli (Pisa, 5 giugno 1876 – Firenze, 29
dicembre 1943). Ecco come il piccolo Ciuffettino viene presentato:
«Un bambinetto alto quanto… eh no, il solito soldo di cacio non lo
dico, neanche se mi bastonano. Mettiamo tanto per cambiare, alto come
una pianta di basilico. La faccia sarebbe stata passabile, anzi,
piuttosto carina, se lui l’avesse sempre tenuta pulita: ma siccome
si lavava due volte la settimana per finta, così era nera e brutta
come un carboncino. Egli portava fieramente, ritto su la fronte, un
ciuffo immenso di capelli che gli dava un’aria curiosa, e lo faceva
somigliare ad uno spolvera-mobili. E lui ci teneva, sapete, al suo
ciuffo! Guai se qualche amico gli consigliava giudiziosamente di
farselo tagliare! Appena Ciuffettino ebbe cinque anni, il babbo lo
mandò a scuola. Bisogna premettere, a lode del nostro eroe, che era
venuto su un monello di prima forza: svogliato, bugiardo, sfacciato,
sporco… Basta: a sei anni, Ciuffettino era più asino che a cinque.
A sette, peggio che mai.
A otto, non ve ne parlo. A nove…». Come si vede siamo di fronte ad
un epigono dell’archetipo stesso del bambino ribelle ed infingardo:
Pinocchio che, come Ciuffettino, alla fine compirà la sua
metamorfosi attraversando le diverse prove iniziatiche che il grande
Collodi, Libero Muratore, gli fa esperire. Ora, la cosa interessante,
è che le avventure di Ciuffettino, veramente fantasmagoriche, vedono
nel ciuffo una specie di antenna rabdomante che lo spinge, in una
atmosfera francamente onirica, insieme al fido cane che si chiama,
guarda caso Melampo, a visitare popoli e paesi fantastici sino al
ritorno, finalmente «maturo», al suo paesello di origine che,
chissà perché, si chiama Cocciapelata!.Significativo è che in ogni
avventura c’è un dato che sempre ritorna: tutti vorrebbero
tagliargli il ciuffo!
Genius
«I latini
chiamavano Genius il dio a cui ciascun uomo viene affidato
in tutela al momento della nascita. L’etimologia è trasparente ed
è ancora visibile nella nostra lingua nella prossimità fra genio e
generare. Che Genius avesse a che fare con il generare, è
del resto evidente dal fatto che l’oggetto per eccellenza «geniale»
era, per i latini, il letto: genialis lectus, perché in esso si
compie l’atto della generazione. E sacro a Genius era il
giorno della nascita, che per questo noi chiamiamo ancora
genetliaco». Così Giorgio Agamben, nella raccolta di saggi
brevi Profanazioni (2007), definisce le caratteristiche
del Genius. Ora, ciò che a noi interessa, per concludere questo
excursus sul ciuffo, è il gesto che richiama alla mente il Genius di
ognuno di noi, inteso qui non solo come nume personale, ma come
essenza stessa del nostro essere, ciò che ci rende unici e dunque
che in qualche modo contribuisce, o forse è alla radice stessa, del
nostro processo di individuazione.
Senza entrare
ulteriormente nei risvolti psicologici di questo processo,
richiamiamo qui allora solo l’atto di toccarsi la fronte quando
dobbiamo ricordarci qualcosa, o quando qualcosa che già sapevamo ci
appare però nel suo significato più intimo e veritiero, sotto
un’altra luce. In sintesi quando siamo in presenza di un momento di
consapevolezza del nostro essere. Ecco che allora possiamo pensare
che i «ragazzi col ciuffo», che in continuazione si toccano la
fronte per rassettarlo, utilizzino questo espediente come continua
forma di rammemorazione del loro essere, come gesto autopoietico del
cammino verso la coscienza del sé. E qui il cerchio aperto dal dio
Kairos sembra così chiudersi per poi immediatamente trasformarsi
nella spirale delle continue trasmutazioni che ognuno di noi vive
nella propria esistenza, anche mercé un ciuffo di capelli che,
seppure su molte delle nostre teste non appare più come tale, resta
pur sempre, come Genius nella nostra essenza più profonda.
Il manifesto del 5
settembre 2020