TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 27 novembre 2014

Pasquale Briscolini, Le parole



Le parole dicono tutto, anche chi siamo. Ma bisogna lasciarle parlare e saperle ascoltare.

Pasquale Briscolini

Le parole


Cominciamo con un tono leggero. Una canzone della nostra grande Mina del 1972 si chiamava: “Parole, parole”; aveva un “parlato” per la voce Alberto Lupo e poi, soprattutto, questo ritornello per Mina:
“Parole, parole, parole
Parole, parole, parole
Parole, parole, parole
Parole, parole,
Parole, parole
Parole soltanto parole
Parole tra noi…”
Insomma, era una bella melodia che ruotava tutta attorno alle “parole”.

Perché “Noi abbiamo la parola”, mi diceva Rosa Calzecchi Onesti in una delle innumerevoli conversazioni avute per tanti anni. Che poi aggiungeva: “è chiaro che anche gli animali hanno un loro linguaggio, ma solo l’uomo ha la parola”.

Quelle con Rosa erano conversazioni libere, così come venivano, ma la maggior parte riguardava il problema educativo, la scuola intesa in senso lato. Oltre a quelle su Pavese, naturalmente.



Ho poi continuato a interessarmi del problema educativo che, come ogni problema serio – ma questo sopra tutti – non si esaurisce mai. O forse dà l’impressione di essersi esaurito solo quando si è superficiali, come sintetizza con efficacia l’episodio del grande filologo Domenico Comparetti, il bisnonno di Don Milani, sulla “presunzione dei laureati”. E’ lo stesso Don Milani a raccontare che il bisnonno aveva chiesto a una ragazza laureata: “ che studi fai?”. E lei: “ho finito”. “Beata te che hai finito. Io no”, le disse Comparetti che a quel tempo aveva ottant’anni e che studiava ancora, cosa che fece fino alla morte avvenuta a novantadue anni.

La cultura di Comparetti era immensa, fu uno dei più grandi umanisti dell’ottocento; filologo, conosceva più di quindici lingue e partiva proprio dallo studio del linguaggio. In famiglia si “spaccavano le parole” anche per passatempo. Da bambini, Lorenzo Milani con il fratello e la sorella si divertivano a ripetere uno scioglilingua ascoltato dalla viva voce del bisnonno: “Alopex-pix-pox-pux-fux”. Era una sequenza che dimostrava il legame etimologico tra una parola greca e una parola tedesca, e che lascia intuire come le parole di lingue diverse si siano influenzate nel corso dei secoli e dei millenni, e come le culture si compenetrino in un continuum che è la vita dell’umanità.

E si capisce anche come ciascuno di noi porti dentro di sé la cultura delle proprie origini, del “mare” nel quale si è trovato a nuotare dopo la nascita e, forse, ancor prima di nascere.

E si capisce anche meglio come Lorenzo Milani, a contatto con la realtà sociale dei poveri, degli ultimi, abbia individuato la vera causa che li schiaccia, li umilia fino a farli sentire “razza inferiore”: l’incapacità di usare con disinvoltura lo strumento della parola.



In una delle lettere dice: “Ciò che manca ai miei è il dominio sulla parola. Sulla parola altrui per afferrarne l’intima essenza e i confini precisi, sulla propria perché esprima senza sforzo e senza tradimenti le infinite ricchezze che la mente racchiude”. E al direttore del «Giornale del Mattino» il 28/03/1956 scrive: "Sono otto anni che faccio scuola ai contadini e agli operai e ho lasciato ormai tutte le materie. Non faccio più che lingua e lingue. Mi fermo sulle parole, gliele seziono, gliele faccio vivere come persone che hanno una nascita, uno sviluppo, un trasformarsi, un deformarsi".

E’ proprio il lavoro sulle parole (e non solo il fatto quantitativo di conoscere tante parole) che costituisce il processo educativo. Così come il “programma” che nasce a Barbiana giorno per giorno dalla lettura del giornale, che costituisce l’innesco a conversazioni e approfondimenti di storia contemporanea, di geografia, di politica, di educazione sociale, di italiano, di scienze e così via. Come racconta uno degli allievi, che ha vissuto con Don Milani l’esperienza fin dall’inizio: “Si leggeva il giornale almeno due ore al giorno, da cima a fondo, sviscerandone le notizie, con l’obbligo di interrompere la lettura qualora si incontrassero parole che non si conoscevano. Le parole erano la base del nostro programma; dovevamo conoscerne il più possibile, usarle, comprenderle, renderle il megafono di un pensiero che cresceva con il nostro vocabolario”.

Le “parole”. Anche Italo Calvino ha scritto il suo ultimo libro - forse il più bello e complesso, interrotto dalla morte prematura – basandolo su sei “parole”: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, consistenza.

Ad esse aveva affidato nientemeno che altrettanti concetti ai quali la letteratura si sarebbe dovuta ispirare per il millennio che sarebbe iniziato da lì a quindici anni.

Calvino era preoccupato e quasi angosciato dalla “caduta di forma” che aveva colto proprio a partire dall’uso della parola: “Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola…”. Anche se poi aveva continuato in quest’analisi per includere oltre al linguaggio anche il mondo delle immagini. E per concludere amaramente: “Ma forse l’inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo. La peste colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio né fine. Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco d’opporre l’unica difesa che riesco a concepire: un’idea della letteratura.”.



E’ bello ricordare che anche Pavese ha scritto un articolo sulle parole, e le ha trattate come una cosa viva e delicatissima*:

  • “Tra compagni si è parlato di te e di quel che scrivi, - mi disse l’altro giorno Masino per strada. Quando ci spieghi cos’è un libro e come leggerlo, tu subito metti avanti le parole. Possibile?
  • Pensaci un momento.
Masino ha di bello che capisce un’occhiata. Mi guardò e disse:

  • Già. Ma le parole voglion dire qualche cosa.
  • Figurati. Ed è proprio per questo che bisogna stare attenti a quelle che si scelgono. Secondo che uno scrittore adopera certe parole o certe altre, tu capisci chi è. Prendi i compagni della guerra di Spagna: chi li chiamava rossi, chi lealisti, chi comunisti e sovversivi, chi patrioti. Ognuna di queste parole ti chiariva con chi parlavi, e veniva a significare una cosa diversa. Nelle parole che tu adoperi c’è la tua classe e il tuo lavoro, quello che sai, quello che mangi, le persone che frequenti. C’è tutto nelle parole.
  • Ma in un libro c’è anche una storia, dei personaggi. Noi si diceva che dovresti parlarci di questo. Un operaio come me, se legge un libro, difficilmente sa dire la sua. Le parole le capisco. Ma succedono cose nei libri, che non sempre mi convincono.
  • Se non vanno le cose, non van neanche le parole, credi a me.
  • Ma ci sono dei libri che sembran ben scritti, e poi sotto ti accorgi che l’autore è d’accordo con quelli che ammazzano il popolo. Mica ha il coraggio di dirlo, ma ti pianta su una storia dove tutti di te se ne infischiano. Ti presenta un ambiente che non si sa di dove vengono le cene che mangiano e quel che consumano. Mai che si dica che senza la classe operaia questa gente non avrebbe neanche il bagno. Mai che si sappia che il mondo non finisce con loro.
  • Lo vedi che capisci anche tu? Sta’ tranquillo che quel che manca in questi libri la gente come noi lo sente al volo. E’ come col prossimo: parli un poco e ti accorgi se una persona è dalla tua. Ci sarà chi è più serio e chi ama scherzare, ma quando ti dice come si immagina il mondo senti subito se è un poveretto. E un libro è sempre la descrizione di come uno s’immagina il mondo.


Quest’idea stupì Masino, che non ci aveva ancor pensato. Vidi che mi strizzò l’occhio come si fa quando si gode una cosa.
  • Però non devi credere che basti scrivere del popolo e raccontare come vive, -dissi a Masino. - Molti ne fanno una speculazione. Ormai ciascuno crede di sapere chi è il popolo e, con tanti libri che si son scritti sul popolo, non è difficile imitarli e parlare come loro. Ma è qui che saltan fuori le parole. Mentre l’intreccio e i personaggi di un romanzo può copiarli chiunque e anche aggiungerci, c’è un tono delle parole e del discorso che ti tradisce per quello che sei. Puoi raccontarle come tue le storielle di tutti, ma la voce che adoperi è sempre la stessa. E la voce di chi scrive è lo stile, le parole che sceglie.
  • Ma tu capisci dalla voce chi è sincero?
  • Qui ti voglio, Masino. Qui serve la pratica e averci studiato. Molti credono che perché, bene o male, tutti sanno parlare, tutti possano dare un giudizio su quello che è scritto. Ma ci sono dei libri che, se tu non sai leggerli, se non sai le parole, non puoi dire nemmeno quel che valgano dentro.
  • Sono libri per noi?
  • Sono libri per chi li vuol leggere. Mi sai dire per chi è fatto un libro? Stai lontano dai libri che son fatti per questo o per quello. Anche un libro che è scritto in cinese, l’hanno fatto per te. Si tratta sempre d’imparare le parole di un altro uomo. Tutti i libri che valgono sono scritti in cinese, e non sempre c’è chi li traduce. Viene il momento che sei solo davanti alla pagina, com’era solo lo scrittore che l’ha scritta. Se hai avuto pazienza, se non hai preteso che l’autore ti trattasse come un bambino o un minorato, ecco che incontri un altr’uomo e ti senti più uomo anche tu. Ma ci vuole fatica, Masino, ci vuole buona volontà. E molta pazienza.
Adesso mi ascoltava testa bassa e compunto.
  • Non credere a chi dice che le parole non contano. Anche l’intreccio e i personaggi sono parole. Qualche volta in un libro i personaggi sono gli alberi, le case, le montagne. E che cosa vuol dire? Vuol dire che quello che conta è quel che questi personaggi son diventati nel racconto, quel che hanno in comune – cioè la parola. Una pianta o una donna in un libro non sono legno né carne, sono le parole che te le mettono davanti.
Masino mi ascoltava e disse a un tratto:
  • Ma dietro a un libro c’è una realtà. C’è una lotta di classe. Ci sono ideologie.
  • Chi lo nega, Masino? Ma tutto nel libro diventa parole. E ti spiego che devi impararle, nient’altro. Quel che vale sarà la giustezza la finezza la profondità di queste parole. Bisogna amarle per capirle. Ed è proprio per questo che un mondo reazionario si tradisce subito con le parole che adopera: tu non sai cosa sia ma le senti ottuse, slabbrate, false. Mentre chi parla all’uomo con fede storica trova una voce fresca e nuova. E’ inevitabile.
Masino non è mai contento. Dopo un poco mi fa:
  • Ma com’è allora che voialtri, che capite queste cose, parlate bene anche dei libri vecchi che hanno già esaurito il loro compito?
Parlava per farmi parlare, è evidente. Ma noi si scherza in questo modo.
  • Le parole, -gli dissi.- Precisamente le parole. Non importa che un compito storico sia tutto esaurito. Quella fede nell’uomo che si è fatta parola, non attende che un lettore per rivivere. E ha di bello che, essendo svanita la realtà che le ha prodotte, le parole veramente danno adesso da sole tutto il senso e la freschezza che contengono. Il più antico dei libri – l’Iliade – si può leggere come un romanzo. Certo è difficile arrivarci.
  • E non c’è differenza tra lui e i moderni? – disse Masino fermandosi. – Tra quelli che si studiano a scuola e i romanzi di Steinbeck?
  • Per chi sa le parole, nessuna.
  • Quest’è bella, – mi disse Masino. – Non avrei mai creduto.
  • Però Steinbeck vale meno, – dissi.”


* Le parole, pubblicato su “L’Unità” di Torino, 8 maggio 1946


Da: Le colline di Pavese, Ottobre 2014


domenica 23 novembre 2014

Primum vivere a Vado Ligure



Un intervento interessante in merito ad una iniziativa che speriamo partecipata e propositiva. Anche se (dobbiamo dirlo) non crediamo più da molto tempo che esistano figure salvifiche in grado, se non di cambiare il mondo, almeno di migliorare la qualità dell'esistente, o anche solo di incarnare una umanità più compiuta. E' stata la grande illusione della nostra generazione e forse una delle cause di una sconfitta di cui solo ora iniziamo a vedere le spaventose dimensioni. Perchè (ce lo hanno insegnato Machiavelli e Hobbes) la politica è opera di uomini (e donne) pieni di contraddizioni e ambiguità, come realmente sono e non come ci piacerebbe fossero.



Betti Briano


Primum vivere a Vado Ligure


Primum vivere, senza il “deinde philosophari” della celebre massima latina, è un’espressione che è stata rimessa in circolo dal femminismo della differenza, andando oltre l’antica saggezza del ‘prima vivere poi pensare’, per significare che la vita va posta né prima né dopo, ma al centro del pensiero e dell’azione politica. Compare come titolo, “Primum Vivere. Anche in tempo di crisi”, del primo capitolo del Sottosopra Rosso, uscito ad ottobre 2009, importantissimo documento che ha dato l’avvio ad un’ampia riflessione su un nuovo immaginario del lavoro a partire dall’esperienza delle donne, cui ha contribuito anche Eredibibliotecadonne con gli interventi che compaiono nella stanza Lavoro.

Il principio è stato richiamato in un intervento del 2011 comparso, a mia firma, sul blog Vento largo scritto sempre in riferimento al lavoro, sull’onda delle vicende drammatiche seguite in quell’anno all’avvio del processo di ristrutturazione della Fiat. In presenza di un conflitto molto ‘fallico’, con posizioni contrapposte e inconciliabili e profonde divisioni tra i lavoratori e le lavoratrici, che non consentivano di scorgere segno di intelligenza mediatrice e capacità di orientamento in positivo del conflitto, sostenevo che forse un maggiore e differente protagonismo delle donne coinvolte, che prendessero la parola a partire da sé, avrebbe potuto consentire di mettere al centro le ragioni della vita che vengono prima di quelle dell’economia e quegli obblighi verso gli esseri umani in carne ed ossa che la mistica del mercato non può mettere in ombra.

A Vado, insieme al venir meno di un’ulteriore struttura produttiva, importante come la centrale a carbone, questa volta a causa dell’inquinamento ambientale, è entrata ‘plasticamente’ in crisi l’idea tradizionale di lavoro, come bene in sé da tutelare sempre e comunque, senza che, però, si intravveda alcuna prospettiva alternativa, concreta e possibile di conciliazione di salute, ambiente e occupazione.
Primum vivere mi pare possa costituire oggi a Vado l’idea, la proposta, il faro in grado di illuminare la strada sia di chi per ruolo deve dare risposte sia di tutti coloro che sentono responsabilità e competenza ad individuare nuove strategie che possano orientare positivamente il conflitto in corso. La competenza femminile del vivere è il nuovo attore che deve entrare in scena.

Le donne più che gli uomini hanno percezione di ciò che primariamente corrisponde alla realtà esistenziale propria e dei figli, di ciò che è essenziale per la vita della famiglia, come della propria comunità. Perché, quindi, non riconoscere ad esse il di più di saggezza nel mettere in relazione bisogni e risorse e di autorità nell’individuare le priorità su cui riorganizzare la convivenza e il rapporto con l’ambiente?

L’ esperienza delle donne che si trovano ad attuare quotidianamente pratiche di convivenza e inventare strategie di sopravvivenza nella crisi in atto, forse, molto più dei discorsi precostituiti(non di rado pronunciati da voci femminili) che hanno occupato sinora il dibattito pubblico, può indicare in che cosa principalmente consiste il Primum vivere a Vado e dintorni.


martedì 18 novembre 2014

Gramsci ai giovani: “Vivere vuol dire essere partigiani”



Una pagina attualissima del giovane Gramsci.

Giorgio Amico

Gramsci ai giovani: “Vivere vuol dire essere partigiani”



Il giorno 11 febbraio 1917 su "Il Grido del Popolo", organo della sezione socialista torinese usciva un breve comunicato ripreso poi il giorno successivo nelle cronache torinesi de L'Avanti!.

L'articolo, anonimo, ma scritto da Antonio Gramsci, pubblicizzava l'uscita di “La città futura”, numero unico pubblicato a cura della Federazione giovanile piemontese.

L'intento è chiaro: entrare in contatto con chi, troppo giovane ancora per essere mobilitato in trincea, subiva comunque anche a "casa", nelle fabbriche e nelle scuole, il peso terribile di una guerra che pareva non finire mai e che, nonostante la censura militare e la martellante propaganda governativa, appariva ogni giorno di più come una serie continua di inutili massacri.

Il tono è enfatico, più da volantino che da giornale e ha le caratteristiche di un appello, di una chiamata ai giovani perchè si uniscano alle forze organizzate del movimento socialista impegnate in una lotta che ha per scopo non tanto la fine delle ostilità, ma il cambiamento radicale della società e l'abbattimento di tutte quelle forze che la guerra avevano voluto e che da essa traevano enormi profitti. Quegli ambienti economici, politici e giornalistici che solo pochi anni dopo avrebbero sostenuto e armato in funzione antioperaia e normalizzatrice il nascente movimento fascista:

L'avvenire è dei giovani. La storia è dei giovani. Ma dei giovani che, pensosi del compito che la vita impone a ciascuno, si preoccupano di armarsi adeguatamente per risolverlo nel modo che più si confà alle loro intime convinzioni, si preoccupano di crearsi quell'ambiente in cui la loro energia, la loro intelligenza, la loro attività trovino il massimo svolgimento, la più perfetta e fruttuosa affermazione. (...) Il fatto della guerra ha scosso come una ventata gli indifferenti, i giovani che fino a ieri si infischiavano di tutto ciò che era solidarietà e disciplina politica. Ma non basta, non basterà mai. Occorre ingrossare sempre più le file e serrarle. L'organizzazione ha specialmente fine educativo e formativo. E' la preparazione alla vita più intensa e piena di responsabilità del partito. Ma ne è anche l'avanguardia, l'audacia piena di ardore”.



Una giovinezza segnata dal dolore

Chi scriveva era un giovane di 26 anni, di origini sarde, trasferitosi a Torino per motivi di studio e diventato in quella che era già allora la città della FIAT un militante socialista.

Antonio Gramsci era nato a Ales, un paese in provincia di Cagliari, il 22 gennaio 1891, quarto figlio di Francesco (piccolo impiegato statale originario di Gaeta) e di Giuseppina Marcias. Dopo di lui vennero altri tre bambini ad appesantire una situazione economica non certo rosea.

A tre anni, a causa di una caduta, il piccolo Antonio subì una deformazione della colonna vertebrale che ne limitò lo sviluppo. L'incidente (una caduta da una scala) gli procurò una disabilità permanente e fu il prologo di una malattia, il morbo di Pott (una forma di tubercolosi ossea degenerativa), che condizionò l'intera sua vita e lo portò alla morte a soli 46 anni.

Come se non bastasse nel 1897, quando Antonio aveva 6 anni e aveva appena iniziato la scuola elementare, il padre fu accusato di peculato e concussione, arrestato e condannato tre anni più tardi (già allora la Giustizia italiana era lenta) a quasi 6 anni di carcere.

Fu un colpo terribile per la famiglia che passò anni in una miseria estrema, solo parzialmente alleviata dalla successiva assoluzione in appello e totale riabilitazione del padre che nel 1904 potè riprendere il suo lavoro.

Gramsci mantenne per tutta la vita un ricordo vivissimo di quegli anni, della miseria patita, dellle umiliazioni subite (lui studente tanto povero di un Regio Liceo frequentato dai figli dei notabili, da dover chiedere in prestito ai compagni e ai professori i libri di testo), del dolore della madre, donna comunque forte che seppe farsi carico con estremo coraggio di una famiglia tanto numerosa.



La militanza come scelta di vita

Torino era all'inizio del secolo scorso una città all'avanguardia, sede di quotidiani importanti (La Stampa), di una Università prestigiosa, capitale italiana della nascente industria dell'automobile e del cinema. Una città ricca e colta, ma dalle profondissime contraddizioni sociali, già visibili nei pressi della Mole, in quei quartieri popolari del centro abitati da una classe operaia combattiva e organizzata da decenni di mutualismo e propaganda socialista iniziati già nel Risorgimento con le Società di Mutuo Soccorso mazziniane.

Gramsci arriva a Torino nel 1911, al termine degli studi liceali, vincitore di una borsa di studio che il Collegio Albertino riservava agli studenti poveri delle ex-province del Regno di Sardegna.

Si iscrive alla facoltà di Filosofia e Lettere e dopo circa un anno aderisce alla sezione torinese del Partito Socialista dove incontra e si lega a altri giovani fra cui spiccano Palmiro Togliatti e Umberto Terracini (studenti a Giurisprudenza) e Angelo Tasca (studente di Lettere). Con loro formerà il nucleo originario de L'Ordine nuovo e poi nel 1921 del Partito Comunista torinese.

Sono anche questi anni di miseria. La borsa di studio garantisce il minimo indispensabile per la sopravvivenza, ma niente di più e solo per 11 mesi all'anno. Eppure il giovane sardo è uno studente straordinario che unisce il massimo di impegno scolastico a un crescente impegno politico. Palmiro Togliatti lo ricorda come punto di riferimento per gli studenti torinesi, ben oltre i limiti della sua Facoltà. Lo si incontrava dappertutto- scrive- dove ci fossero professori capaci di interessare gli studenti e problemi da discutere.

Dal 1914 il problema più importante da dibattere è quello della guerra. Il Paese è diviso, da un lato liberali e nazionalisti schierati per l'intervento, dall'altro socialisti e cattolici a favore della pace e della neutralità.

Dopo un iniziale momento di smarrimento, il giovane Gramsci è in prima fila nella battaglia contro la guerra, tanto che nel 1915, dopo aver sostenuto un ultimo esame di letteratura italiana, decide di non laurearsi e di abbandonare definitivamente gli studi per dedicarsi interamente a una militanza politica che ha assunto ormai carattere rivoluzionario.

E' una scelta di vita a cui resterà fedele fino alla fine dei suoi giorni, nonostante la persecuzione, l'arresto, il carcere. A 24 anni Gramsci rinuncia a un tranquillo avvenire piccolo borghese (gli era stato offerto un posto di Direttore didattico) per assumere la direzione del settimane socialista torinese “Il Grido Del Popolo”.

Da giornalista militante, Gramsci ingaggia una battaglia senza esclusione di colpi contro i grandi giornali cittadini (La Stampa, La Gazzetta del Popolo, Il Momento) espressione degli ambienti liberali e cattolici.

E' “Il Momento”, quotidiano cattolico allora importante, a essere il suo principale bersaglio. Ai cattolici Gramsci rimprovera l'incoerenza, il moralismo, l'ipocrisia, il dichiararsi per la pace e poi nella pratica quotidiana sostenere la guerra per interesse o anche solo per quieto vivere.



Contro gli indifferenti

Quella di Gramsci è prima di tutto una battaglia culturale, mirata alla costruzione di una società più libera e umana, quell'Ordine Nuovo senza più guerre e sfruttamento che solo il socialismo può garantire. Da qui l'interesse costante per i giovani, per quelle giovani generazioni mandate a morire in trincea nelle cui mani sta l'avvenire d'Italia.

Questo è il senso di “La Città Futura” , numero unico venduto a 2 soldi. Gli articoli non sono firmati, ma sono tutti di Gramsci a partire da una paginetta, bellissima e recentemente ristampata da un piccolo editore, contro il peccato dell'indifferenza, del non sentirsi coinvolti, del tirarsi fuori. Un articolo attualissimo che inizia così:

“Odio gli indifferenti. Credo (...) che vivere vuol dire essere partigiani. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti”.


Niente, nella pura vastissima e ancora valida elaborazione gramsciana, si può considerare più attuale. 

ANPI Resistenti, n,4, 2014


lunedì 17 novembre 2014

Per non dimenticare. Orwell 2014 a Madrid


Pubblichiamo quanto inviato dai nostri amici della Fundacion Andreu Nin ( e del POUM). Per non dimenticare.


Sandro Lorenzini, La casa del poeta




    Libreria Ubik Savona
    Sabato 22 novembre ore 18:
    “La casa del poeta”

    Un libro di figure 33 haiku e 33 collages in una edizione prestigiosa, da non perdere.
    Partecipa l’artista autore delle opere

    SANDRO LORENZINI

    Fino al 24 dicembre esposizione e vendita delle opere.

    Introduce l’incontro RENATA BARBERIS.

    Un incontro con il noto artista Sandro Lorenzini, che presenta un libro-oggetto, prezioso e unico: trentatrè stati d’animo colti nell’attimo stesso in cui suscitano un pensiero poetico. Quel pensiero, che si manifesta alla mente dell’artista come una figura, fissa i suoi contorni nella sintesi estrema di una forma metrica lieve e concisa, eppure suggestiva ed intensa: l’haiku, composizione di tre versi e diciassette accenti.

    Lo stesso pensiero poetico trova forma, nel lavoro di Lorenzini, in una figura che ne è assoluto sinonimo e non illustrazione, come l’haiku non ne è la didascalia. Il rispetto per la sintesi, la lieve immediatezza la raffinata, astratta musicalità di tante espressioni dell’arte giapponese, così cara all’artista, lo hanno indotto a scegliere per le figure un linguaggio grafico vicino al carattere degli haiku, per i contenuti di sintesi, immediatezza, leggerezza e precisione esecutiva: il collage.

    “La casa del poeta”, edizione pregiata, tiratura 500 copie numerate e firmate. Inoltre: esposizione in libreria delle grafiche originali e preziose riproduzioni in cartella, tiratura 100.


domenica 16 novembre 2014

Guy de Maupassant, Impressioni da Savona



Nel settembre 1889 Guy de Maupassant a bordo del suo panfilo “Bel Ami II” veleggia lungo la costa della Liguria. Dopo Porto Maurizio fa scalo a Savona che aveva già visitata e che trovava bellissima per il suo impasto di modernità (le fabbriche, il porto) e di medioevo (i vicoli del centro storico).

Guy de Maupassant

Impressioni da Savona

Entriamo nel porto di Savona.

Una selva di ciminiere di fabbriche e di fonderie, alimentate ogni giorno da quattro o cinque bastimenti a vapore inglesi carichi ...di carbone, vomita in cielo, attraverso bocche gigantesche, tortuose volute di fumo, che ricadono sulla città sotto forma di fuliggine, che la brezza trasporta di quartiere in quartiere, come una neve infernale.

Rematori e cabotieri, se volete conservare immacolate le vele bianche delle vostre piccole imbarcazioni, non entrate in questo porto!

Maupassant sul suo panfilo

















Tuttavia, Savona è una bella città, molto italiana, con strade strette e allegre, piene di venditori in movimento, di frutti sistemati per terra, di pomodori scarlatti, di zucche rotonde, di uva nera, bianca, trasparente, che sembra aver assimilato la luce, di insalata verde, mondata in fretta e le cui foglie, gettate a profusione sul selciato, danno l'impressione di una città invasa dai giardini.

Ritornando a bordo dello yacht, lungo il molo, sull'immenso tavolo di una bacinella napoletana, lungo quasi quanto il ponte, vedo qualcosa di strano, che fa venire in mente un festino di assassini.
Davanti a trenta marinai dalla faccia bruciata dal sole sono sparsi sessanta o cento quarti di anguria, d'un rosso sangue che si associa all'omicidio. Ricoprono l'intero battello di un colore che, a prima vista, dà l'impressione di una carneficina, di un massacro, di carne dilaniata.

Si direbbe che questi uomini, i cui berretti rossi sono meno rossi della polpa del frutto, mangino allegramente e voracemente della carne insanguinata, come fanno le belve allo zoo, É una festa, alla quale hanno invitato anche gli equipaggi delle barche vicine. C'è una grande contentezza.

La notte tornai in città.

(...)


Guy de Maupassant - La vita errante (1890)


In attesa della grande crisi. Storia del Partito Comunista Internazionale



Sandro Saggioro continua nel suo lavoro di ricerca sulla storia della sinistra comunista italiana. Dopo La Storia del Partito Comunista Internazionalista dalle origini alla scissione del 1952, un nuovo volume ricostruisce la storia di “Programma Comunista”. Riprendiamo la recensione apparsa sul sito della Associazione Pietro Tresso.

Paolo Casciola

In attesa della grande crisi. Storia del Partito Comunista Internazionale


Pur nella sua autonomia tematica, questo nuovo libro di Sandro Saggioro si colloca sul medesimo solco di quello che quattro anni prima l’autore aveva dedicato alla storia del Partito Comunista Internazionalista negli anni 1942-52 (Né con Truman né con Stalin, Colibrì, Paderno Dugnano 2010): un rapporto di continuità che, però, comporta una distinzione essenziale. All’atto della sua creazione ‒ in seguito alla scissione del 1952 tra la tendenza capeggiata da Bruno Maffi e quella guidata da Onorato Damen ‒, il partito di cui questo nuovo volume traccia la storia riprese il nome di quello originario, dando così luogo a due «partiti comunisti internazionalisti» fino al 1964, allorché esso mutò la seconda parte dell’aggettivazione, trasformandosi in Partito Comunista Internazionale.

Sotto la guida di Maffi, e con l’apporto decisivo di Amadeo Bordiga, esso tentò di far sentire la sua voce attraverso il proprio organo di stampa, Il Programma Comunista, e fu l’unica formazione che possa legittimamente venir designata ‒ anche se, così facendo, si contravviene alla rigida consegna teorica e pratica di Bordiga ‒ come bordighiana, e tale sotto il profilo della completa adesione alla peculiare lettura del marxismo che ha caratterizzato il pensiero di quest’ultimo nonché sotto quello dell’ordinamento del partito stesso, ordinamento basato su una elaborazione dottrinaria che sfociò in un centralismo politico e organizzativo diverso da quello leniniano. Quello che fu messo alla prova nel trentennio che corre dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta del secolo scorso è, insomma, il modello partitico bordighiano.

Tuttavia Saggioro non si limita unicamente a riproporre le enunciazioni delle posizioni principali del pensiero di Bordiga, ma si sforza di illustrare la vita e il dibattito interni di quell’organizzazione e la politica che essa mise in atto nei contesti in cui cercò di svolgere la propria azione, battendosi senza remore né compromessi su una linea intransigentemente rivoluzionaria. Nel quadro di una realtà segnata dalla vittoria su tutta la linea della borghesia ‒ facilitata dal collaborazionismo di classe dei principali partiti «di sinistra», e in primo luogo dal PCI togliattiano ‒ e dalla pesante sconfitta del proletariato nel secondo dopoguerra, quei militanti furono ben consapevoli della profondità del baratro da cui si doveva risalire. Come affermò lo stesso Bordiga nel settembre 1952:

«Questo è il momento di depressione della curva del potenziale rivoluzionario (…). In tal momento privo di vicine prospettive di grande sommovimento sociale non solo è un dato logico della situazione la politica disgregazione della classe proletaria mondiale; ma è logico che siano gruppi piccoli a saper mantenere il filo conduttore storico del grande corso rivoluzionario, teso come grande arco tra due rivoluzioni sociali, alla condizione che tali gruppi mostrino di nulla voler diffondere di originale e di restare strettamente attaccati alle formulazioni tradizionali del marxismo.»



Oltre a ripercorrere la traiettoria trentennale dell’organizzazione raccoltasi intorno al giornale Il Programma Comunista ‒ il cui primo numero risale all’ottobre 1952 ‒, l’autore fornisce anche una serie di coordinate politiche e temporali delle varie scissioni che essa ebbe a subire prima del suo definitivo éclatement del 1982.

In quell’anno cruciale, le divergenze emerse sulla «questione palestinese» in relazione agli avvenimenti libanesi ‒ divergenze che nell’agosto di quell’anno avevano provocato il distacco dei gruppi maghrebini ‒ segnalarono l’incapacità di rispondere alle nuove realtà e determinarono agli inizi ottobre, ad una riunione delle sezioni francesi, la decisione di alcuni militanti di constatare la mancanza di omogeneità politica che in diversi casi aveva contrapposto la base alla direzione, l’applicazione puramente formalistica della disciplina di partito e, in definitiva, il fallimento del Partito Comunista Internazionale nello sviluppare al suo interno un dibattito politico reale, nel rapportarsi attivamente (e non passivamente) ai movimenti sociali e nell’essere ormai organicamente incapace di passare all’azione pratica e di proporsi effettivamente come guida delle lotte proletarie. Il testo del documento diffuso da quei militanti alcuni giorni dopo la riunione parigina, nella quale fu proposto lo scioglimento del partito, conteneva un giudizio inappellabile:

«In realtà, è tutta la concezione dell’uso della teoria e del programma restaurati dalla Sinistra ad essere falsa, in un senso:

- Contemplativo, accademico e indifferentista in rapporto al movimento sociale ‒ attitudine che si è rivelata in pieno di fronte alla guerra in Libano.

- Nell’atteggiamento di distanza ed anche di arroganza nei confronti di tutte le frange rivoluzionarie e combattive in nome della difesa del patrimonio della Sinistra, o della difesa di una indipendenza di classe che non è oggi il più delle volte da preservare, ma realmente da conquistare come parte pregnante del movimento sociale.»

Nella parte conclusiva del libro vengono passate brevemente in rassegna le varie formazioni, estremamente minoritarie, che ancor oggi continuano a richiamarsi a quell’esperienza e, ovviamente, anche all’eredità politica precedente, quella del “bordighismo” dalla fine degli anni Venti agli inizi degli anni Cinquanta. Saggioro sottolinea però che nessuno di tali raggruppamenti ha avuto un qualche sviluppo significativo tale da dimostrare la propria egemonia rispetto alle altre formazioni dell’«area bordighista», né tanto meno è mai stato riconosciuto in alcun modo dalla classe operaia o da altri strati del proletariato come propria espressione, come rappresentante dei suoi interessi storici o di lotta contingente.

Il volume è completato da una nutrita appendice contenente documenti importanti e spesso di difficile reperibilità, quando non addirittura inediti ‒ come, ad esempio, il carteggio intercorso tra Bordiga e Bruno Rizzi ‒, e si basa largamente su una grande mole di testi, tra cui figurano circolari interne, scritti riservati, corrispondenze personali e testimonianze rese all’autore da alcuni dei protagonisti di quella storia.



http://www.aptresso.org





Sandro Saggioro
In attesa della grande crisi. Storia del Partito Comunista Internazionale ‒ «il programma comunista» (dal 1952 al 1982)
Edizioni Colibrì, 2014
24,00

Per richieste: colibri.edizioni@tiscali.it



venerdì 14 novembre 2014

Sovrane


Carlo Giusto: la pittura come antidoto



Silvia Campese

Carlo Giusto: la pittura come antidoto

“Arrivo ogni mattina nel mio studio con in mano il giornale. La prima reazione è quella di strappare le pagine. Poi prendo la tela bianca, tra le dita il pennello: inizio a dipingere senza coinvolgere né cuore né mente. Dipingo in modo gestuale. E il brandello del quotidiano strappato mi torna in mente”.

Descrive così, Carlo Giusto, il suo lavoro di artista che lo accompagna da una vita che non smette di mutare, insieme al passare del tempo. Un lavoro dove compaiono elementi costanti del suo contenuto artistico, con valenze diverse ma altrettanto intense, a  partire dal collage, nei quadri più recenti utilizzato con maggior rigore compositivo, abbandonando l'elemento proprio della Pop Art e dell'informale.

Carlo Giusto, “artista del proprio tempo”, mai indifferente al mondo e alla società che lo circondano, registra, a modo suo, il caos dell'epoca, il dolore per lo sgretolamento dei valori da lui condivisi sin dalla giovinezza. Per questo le nuove opere raccontano, attraverso elementi simbolici, l'amarezza del presente in un'evoluzione artistica significativa. Un nuovo tassello di una lunga carriera.

Dai paesaggi degli inizi degli anni cinquanta, fatti di luce e scaglie di colore, all'opera informale e all'incontro-scontro con la Pop Art americana, Carlo Giusto ha raccontato l'uomo e le sue emozioni in una visione che ha sempre lasciato spazio alla speranza, alla fiducia verso un ”uomo nuovo” che salverà il mondo dalle brutture e dalla violenza passando per le emozioni. “Nei miei quadri – ha scritto Carlo Giusto in uno de suoi tanti fogli di appunti – si notano delle macchie, delle linee, delle zone di colore che non corrispondono a nessuna realtà, ma secondo la legge della mia cultura interna, preparano musicalmente e accrescono l'emozione di chi guarda. Creo così, in qualche modo, un ambiente emotivo”.

Dopo una fase che scivola verso l'Informale, la sua continua capacità di mettersi in gioco e di confrontarsi con il mondo lo portano, attorno alla metà degli anni sessanta, a riflettere sui linguaggi dei mezzi di comunicazione di massa con lo sguardo volto verso la Pop Art statunitense, sino all'adesione nel 1964, a COND, un gruppo formato insieme a Mesciulam, Parini e Rigon, che  prende il nome “Cond” da condizionamenti. Quei tentativi, cioè, da parte dei mass media di limitare indirettamente la libertà dell'uomo attraverso una serie di messaggi visivi violenti e ripetuti.



A tutto questo Giusto risponde con un linguaggio artistico che  risente della Pop Art, ma con il tocco contenutistico e concettuale tipico dell'arte italiana. E' l'epoca di opere come “Figure” del 1964 e “Ritratto” del 1967 dove l'icona Pop è inserita in un cotesto che svincola dal linguaggio aggressivo e frenetico della pubblicità e del video.

La sua riflessione sulla società, però, non si ferma. La perdita di valori, la svuota dell'uomo, smarrito in una società in cui non ci sono più punti di riferimento e porta il linguaggio Pop di Giusto a una personale evoluzione: il tratto, i colori rimangono quelli  di una pittura che attinge al linguaggio popolare, ma la figura umana scompare, o meglio al suo posto rimane un puro involucro di abiti. Abiti che ballano indossando il nulla. Tuttavia, nella pochezza del presente, prevale, ancora una volta, la speranza: compare l'elemento simbolico dell'aquilone, dove, in un gioco di incastri, la tela si inserisce in un altro sfondo, creando un gioco vibrante di movimento ed emozioni senza mai perdere fluidità.

Ma la barbarie, non solo culturale, dei nostri tempi, costringe Giusto a un ulteriore passaggio che comporta una chiusura in se stesso, da cui sfugge soltanto attraverso la pittura. Ricompare l'elemento esterno, estrapolato dalla società: il ritaglio di giornale. Se, però, un tempo si trattava di un gesto di rabbia, in uno strappo rotelliano, oggi il frammento è prelevato e inserito nella composizione pittorica con rigore. Quasi la costatazione di un mondo in cui convivono sfaccettature differenti da cui  è impossibile sfuggire. Il tentativo, però, è ancora costruttivo: mettere ordine nel caos. Il quotidiano ritagliato, che trova un proprio spazio nelle emozioni, positive e negative della tela, costituisce un tentativo di organizzazione del disordine. Un antidoto alla disgregazione sociale e, indirettamente, alla perdita dell'Io. Ancora una volta, Giusto lascia trasparire, tra il buio, un messaggio di speranza e fiducia  nell'essere umano e nella storia: quella con “s” maiuscola, quella che lascerà un segno passando anche per la sua tavolozza.


Atelier Gulli 
Savona (Corso Italia 201 r) 

15 novembre dalle ore 17.00

CARLO GIUSTO
SOLUZIONI POSSIBILI”
Dipinti e collages


La mostra resterà aperta fino all'8 dicembre 2014.

Orari: tutti i giorni 10.30 -12.30 / 15.30 -19.30


mercoledì 12 novembre 2014

Alberto Cane, Povera mia Liguria



Riprendiamo dal bel blog (che invitiamo tutti a visitare) di Alberto Cane, grande fotografo e amico di Vento largo, questo post che condividiamo interamente e che ci pare la cosa migliore per capire quanto accade oggi in Liguria. Altro che le dichiarazioni ridicole sull'abusivismo di un ministro fantasma, qui della cementificazione di un'intera regione con l'avallo di chi governa e di chi sta all'opposizione (PD-PDL) si tratta!

Alberto Cane

Povera mia Liguria

Ripubblico questo post del luglio 2008. Da allora qualche politico e qualche imprenditore citato nel libro ha varcato le patrie galere, da allora qualche porto in costruzioine è diventato una cattedrale nel deserto (umido), da allora la politica poco o niente ha fatto per combattere l'incultura criminale che saccheggia la Terra, la nostra terra di Liguria.

Quando frequentavo il liceo e prendevo la corriera per Ventimiglia, superato Camporosso mi appariva la visione del mare. Poi, condominio dopo condominio, non rimase nemmeno più un buco di azzurro. Cemento, nient'altro che cemento a formare una muraglia impenetrabile e odiosa. Il naturale skyline che avevo visto fin da piccolo si era trasformato in un artificiale skifoline. Sagome accatastate in maniera casuale senza capo né coda

Questo un'era fa. L'altro giorno viaggiavo sul treno che da Genova porta a Nizza e osservavo con interesse l'espressione di una giovane donna che sedeva di fronte a me. Dal finestrino scorrevano uno dietro l'altro anonimi palazzi su anonimi palazzi, distanti l'uno dall'altro sì e no un metro. Sembrava di essere nella brutta periferia di una qualsiasi metropoli. Lei si accorse che la stavo guardando e mi indicò quello spettacolo indegno con un dito. Non ci fu bisogno di parole.

Dopo essersi appropriati con i denti della rara terra vicino al mare, dopo aver sbancato, famelici, colline e colline più a monte, adesso i pescecani del cemento armato si stanno impadronendo del mare. Si sa che la voracità non ha limiti.

Proprio di questo parla un libro inchiesta uscito da pochi giorni, Il partito del cemento, scritto da due bravi giornalisti, Ferruccio Sansa e Marco Preve. E la storia documentata, punto per punto, dei maneggi che si svolgono nei retrobottega della politica frequentati da imprenditori e banchieri, quasi tutti prima o poi inquisiti, qualcuno passato anche per le patrie galere, che intrecciano con gli amministratori pubblici rapporti quantomeno dubbi e quantopiù indecenti e sul filo dell'illegalità. 

Non c'è differenza tra destra e sinistra, i veri inciuci sono questi, fatti sottobanco, molto più pericolosi per la democrazia di quelli dichiarati alla luce del sole che generano scandalo solo negli sprovveduti. 



Nel libro si parla delle furbate per aggirare le leggi, come quella, che sarebbe ridicola se non fosse troppo seria, delle torri antincendio che diventano ville, dello spregio cinico di questa classe dirigente per questa terra bellissima che ha trasformato, nell'arco di un cinquantennio, in una regione che si sta estinguendo. Si estingue nei posti di lavoro, nella popolazione, nella cultura, e rimane, di quello che era stata, solo uno struggente ricordo.

Vogliono impadronirsi del mare dunque. E lo fanno costruendo porti ovunque, grandi, medi, piccoli. I posti barca nel 2000 erano in totale 14.500, nel 2008 sono diventati 20.500 ed è già pronto un piano per altre ottomila imbarcazioni. Porti vuol dire anche appartamenti, centri servizi, centri commerciali, negozi. Follia pura. Chi frequenta queste coste conosce, solo per dirne una, i problemi snervanti dei parcheggi e delle code chilometriche sull'Aurelia, che esistono anche in quelle cittadine che il porto non ce l'hanno, come Ventimiglia, ma che fra un po' l'avrà anche lei e allora voglio proprio vedere dove metteranno le macchine. L'ho già detto e lo ripeto. Follia.

Il libro scava a fondo sui due potentissimi Claudii. Claudio Scajola, ex DC ora Pdl, ministro del governo Berlusconi, e Claudio Burlando, ex PCI ora Pd, presidente della Regione. Si scoprono così intrecci insospettati nelle varie amministrazioni pubbliche, nei cda della miriade di società, e legami di sangue che diventano ragnatele di un potere come al tempo del Medio Evo.

Dopo la lettura si potranno avere reazioni diverse. C'è chi disgustato si allontanerà definitivamente dalla politica visto il degrado infimo a cui è arrivata, c'è chi si indignerà come non mai e farà di tutto per diffondere le notizie che ha letto, e ci sarà anche chi si darà da fare per impedire questo scempio. Alla fine del libro c'è un capitolo ad hoc "Prontuario anticemento".


mercoledì 5 novembre 2014

Missioni di pace



Giorgio Amico

Missioni di pace

"Caporal Maggiore Scelto, Alpino paracadutista, nel corso dell'operazione "Maashin IV", mirata a disarticolare l'insurrezione afghana, conquistato l'obiettivo, veniva investito con la sua unità da intenso fuoco ostile. Con non comune coraggio e assoluto sprezzo del pericolo, raggiungeva d'iniziativa un appiglio tattico dal quale reagiva con la propria arma all'azione dell'avversario. Avvedutosi che il nemico si apprestava ad investire con il fuoco i militari di un'altra squadra del suo plotone, non esitava a frapporsi tra essi e la minaccia interdicendone l'azione. Seriamente ferito ad una gamba, manteneva stoicamente la posizione garantendo la sicurezza necessaria per la riorganizzazione della sua unità. Fulgido esempio di elette virtù militari".​ Bala Morghab (Afghanistan), 16 luglio 2010.

Questa la motivazione con cui il presidente Napolitano ha concesso ieri, 4 novembre, la medaglia d'oro al valor militare a un soldato del contingente italiano in Afghanistan.

“Disarticolare l'insurrezione afghana”????


Scusate, ma devo essermi perso qualcosa. Gli alpini non erano lì in missione di pace, umanitaria, a costruir strade, scuole ed ospedali?


martedì 4 novembre 2014

Pisa. Presentazione del Quaderno n.9 della Fondazione Guevara


O Gorizia tu sei maledetta



La più bella e autentica canzone di trincea. Non si conosce l'autore, probabilmente non c'è. Nacque spontaneamente fra i soldati stanchi di un macello insensato. Cantarla in pubblico ancora negli anni '60 comportava la denuncia per vilipendio delle Forze Armate. Oggi, chissà? Questo è il nostro 4 novembre.

O Gorizia tu sei maledetta


La mattina del cinque d'agosto
si muovevan le truppe italiane
per Gorizia, le terre lontane
e dolente ognun si partì

Sotto l'acqua che cadeva a rovesci
grandinavan le palle nemiche
su quei monti, colline e gran valli
si moriva dicendo così:

O Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu

O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli sui letto di lana
schernitori di noi carne umana
questa guerra ci insegna a punir

Voi chiamate il campo d'onore
questa terra di là dei confini
Qui si muore gridando assassini
maledetti sarete un dì

Cara moglie che tu non mi senti
raccomando ai compagni vicini
di tenermi da conto i bambini
che io muoio col suo nome nel cuor

Traditori signori ufficiali
Che la guerra l'avete voluta
Schernitori di carne venduta
E rovina della gioventù

O Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu.

  

Panzieri e i giovani operai dei Quaderni Rossi



Spesso i nostalgici del vecchio PCI e della vecchia Nuova sinistra sovrappongono lotta operaia e sinistra politica come se fossero la stessa cosa. Non è così. E finchè non si capirà questo, non si potrà davvero superare quella fase e soprattutto comprendere il presente. L'impegno teorico e militante di Raniero Panzieri parte proprio da questa consapevolezza.


Pasquale Martino 

I giovani operai dei Quaderni Rossi


Ad agosto era morto Togliatti. Il 9 ottobre 1964 toccò a Raniero Panzieri. Il suo apporto innovativo alla cultura della sinistra sarebbe apparso in piena luce nel decennio seguente. 

A lui, ebreo romano, nato nel 1921, le leggi razziali avevano vietato di compiere studi universitari (frequentava lezioni in Vaticano, dove leggeva… i classici del marxismo!). Dopo la guerra poté laurearsi in filosofia e, in pari tempo, aderì al Partito socialista. Verrà descritto come l’“operaista”, apparentemente chiuso nel mondo delle fabbriche torinesi; invece ebbe la sua formazione politica nel Sud, in Puglia e in Sicilia, nelle lotte contadine: un’attiva partecipazione che gli procurò denunce e processi, ma  lo promosse ai vertici del Psi. Rodolfo Morandi, vicesegretario nazionale e capo organizzativo del partito, fa di Panzieri il suo braccio destro e lo avvia a diventare un dirigente.

E qui va notata la qualità dei politici di sinistra dell’epoca – oggi inconcepibile – i quali erano prima di tutto intellettuali di altissima cultura e di livello superiore alla media dei cattedratici (si pensi proprio a Togliatti e a Morandi). Profondo conoscitore dei testi di Marx, che leggeva in lingua originale, negli anni ’50 Panzieri pubblicò la traduzione del  libro II del Capitale  cui collaborò la moglie Giuseppina Saija (figura a sua volta notevole di germanista, nonché traduttrice per Einaudi e per Utet).

A capo della sezione nazionale Stampa e Propaganda, poi della sezione Cultura, Panzieri avrebbe potuto succedere a Morandi quando questi morì nel 1955. Non fu così; tuttavia collaborò strettamente col segretario Pietro Nenni, che affiancò come condirettore (in realtà, direttore effettivo) della rivista di cultura «Mondo operaio».  Eppure – altro aspetto degno di nota – egli non era un funzionario di partito. Nel 1959 si trasferì a Torino per lavorare come redattore per Einaudi. Qui dedicò l’ultimo quinquennio di vita a tessere un nuovo progetto politico-culturale. Aveva ormai preso le distanze sia dai socialisti indirizzati verso l’accordo con la Dc, sia dai comunisti  attardati nei postumi dello stalinismo e distanti dalla concreta dinamica della lotta operaia.

Propugnava il ritorno a Marx: al Marx economista e sociologo, l’acuto indagatore dei meccanismi capitalistici (del quale oggi si riscopre l’attualità). Su questo punto, infatti, Panzieri misurava tutta l’arretratezza della sinistra. Fu tra i primi ad analizzare quello che venne chiamato il «neocapitalismo»:  la fase di sviluppo che, dopo la ricostruzione postbellica, interessava l’Europa e si manifestava nell’Italia del boom, del “benessere”, del consumo di automobili ed elettrodomestici.  Il che significava meccanizzazione del processo produttivo, modernizzazione degli impianti, tecnologia, organizzazione del lavoro, sapere incorporato nelle macchine; e significava espansione del modello capitalistico nell’agricoltura e nell’industria culturale; cosicché i contadini da un lato, gli intellettuali dall’altro, diventavano lavoratori dipendenti, proletari. 




Ed era questo il vero centro di interesse di Panzieri: la nuova classe operaia, specie quella della grande industria, composta da giovani e meridionali immigrati. Egli seppe scommettere sulla propensione dei giovani operai a rivendicare i propri diritti a muso duro, senza timori reverenziali verso il padronato. E dopo il letargo degli anni ‘50 un nuovo ciclo di lotte gli dette ragione: fino alla rivolta di Piazza Statuto nel 1962, a Torino (seguita, nello stesso anno, dalla ribellione degli edili baresi). 

La rivista «Quaderni Rossi» (1961-66), da lui fondata, è insieme centro studi, sede di dibattito e soggetto politico informale, che si raccorda con gli operai attraverso lo strumento dell’inchiesta in fabbrica – un altro caposaldo della lezione panzieriana – e tenta di stimolare una dialettica tra le posizioni più aperte nei partiti e soprattutto nel sindacato.  

È allora che la Fiom assume quel ruolo politico che tuttora la caratterizza sia pure in un contesto del tutto diverso. E nei primi anni ’70 i consigli di fabbrica furono i nuovi organismi che ridefinivano il ruolo del sindacato e lo spazio di autonomia dei lavoratori nel luogo di lavoro, il «potere operaio» (un'altra espressione di derivazione panzieriana).

Più difficile era modificare i partiti, tant’è che l’eredità di Panzieri sarà accolta soprattutto dai gruppi della nuova sinistra post-68  (e non solo da quelli etichettati come operaisti); ma lascerà un’impronta nella sinistra socialista, fondatrice del Psiup, e nello stesso Pci (si pensi al debito di Asor Rosa e di Mario Tronti verso di lui). Fu profetico nel delineare la capacità del capitalismo di scomporre il fronte operaio disperdendo la produzione, parcellizzandola, creando rapporti di lavoro indiretti, individuali, precari, persino inscenando la presunta “fine della classe operaia”.

A mezzo secolo di distanza, appare stupefacente l’ampiezza dei suoi contatti e delle corrispondenze epistolari (da Giovanni Pirelli a Renato Solmi, da Calvino a Fortini a Vittorio Foa) e delle personalità intellettuali che devono non poco al suo magistero di pensiero e d’azione (da Goffredo Fofi a Edoarda Masi a Toni Negri, fino ai più fedeli eredi, Pino Ferraris e Vittorio Rieser, scomparsi entrambi di recente). 

Chi lo conobbe ne ricorda il tratto di simpatia e di cordialità dialogica, il fascino di un filosofo compagno di operai, di un «Socrate socialista» (la definizione è di Stefano Merli) che ha educato senza enfasi una generazione politica.  Licenziato da Einaudi nel 1963, isolato dalla sinistra maggioritaria per la sostanza eretica delle sue idee, Panzieri morì a soli 43 anni. La cerimonia funebre, a Torino, fu sobria, con pochi presenti. Ma quello che se ne andava era un maestro esemplare nella storia della sinistra italiana.

La Gazzetta del Mezzogiorno - 8 ottobre 2014



domenica 2 novembre 2014

Laura Macchia, Pagine



Giorgio Amico

Laura Macchia, Pagine



Laura Macchia, carissima amica di Vento largo, dolcemente (come è suo solito) ci rimprovera di non aver visitato la sua personale, Pagine, in corso fino al 5 novembre a Pozzo Garritta di Albisola. Confessiamo che volutamente evitiamo le inaugurazioni. Non ci piacciono. Troppa gente, troppe chiacchiere. Quello dell'arte è un vento sottile che per essere inteso richiede silenzio (e solitudine). Facciamo comunque ammenda.

“Sono nata a La Spezia, papà abruzzese e mamma toscana. Amo vivere a Savona, vedere il mare, sentire il vento e trasferirmi nel verde e nel silenzio, quando è possibile. Non ho frequentato studi d’arte o Accademie...”.

Parla così di sé Laura, ma non credete troppo alle sue parole. Lei è davvero così, ma è anche tutto il contrario di ciò che solitamente definiamo naif. E i versi che riportiamo lo testimoniano. Celano, come le sue opere, un 'ambiguità sofferta, sottile come un filo di nostalgia, dolorosa come la solitudine in un giorno di sole.

Con un sorriso, Laura ci ricorda che la vita è complessa e misteriosa e quanto avesse ragione chi, dalle profondità del tempo, ci ricordava che forse l'unica felicità concessaci è l'assenza di dolore.



Laura Macchia

Andare nel silenzio


Andare nel silenzio più assoluto
nell'ora del riposo o dell'amore
lungo un sentiero antico e profumato
di menta e d'erbe nuove.
Cercare tra le pietre luccicanti
chicchi carnosi d'erbe rampicanti.