Solitamente si associa la caccia alle streghe al periodo più cupo del Medioevo, in realtà si trattò di una intossicazione collettiva delle coscienze in un periodo di fortissima crescita intellettuale, quello del Rinascimento, della Riforma e della rivoluzione scientifica. Quasi che la fine di un mondo e la nascita di un'epoca nuova scatenasse fantasmi che andavano esorcizzati con l'eliminazione di ogni manifestazione di diversità.
Giorgio Amico
Un processo per stregoneria nella Val Bormida del Seicento
I
primi decenni del XVII secolo furono anni di ferro, segnati da
guerre, carestie, pestilenze. Infuriava in Europa la guerra detta dei
trent'anni che vedeva le grandi potenze di allora, Francia e Spagna,
contendersi il dominio del continente. L'Italia, debole e divisa,
era diventata terra di conquista e campo di battaglia e la Valle
Bormida non era certo un'oasi felice. Anzi, il fatto che il
Marchesato del Finale rappresentasse la principale base mattima
spagnola al Nord faceva della Valle la via principale per raggiungere
Milano e la Germania dalla Spagna e dunque l''itinerario preferito
dagli eserciti imperiali con tutto quello che ciò comportava. Per
anni la Valle Bormida e il Monferrato furono oggetto di saccheggi e
violenze continue da parte degli eserciti regolari in transito, delle
truppe mercenarie al soldo dei vari signori e di bande di fuorilegge
e di disperati che approfittavano della mancanza di un'autorità
stabile che facesse rispettare la legge. Lo stato di devastazione
delle campagne che ne conseguì provocò il crollo della produzione
agricola, in gran parte rivolta all'autoconsumo, e dunque l'insorgere
di frequenti carestie che indebolirono la popolazione. Si crearono
così le premesse per il rapido e terribile diffondersi della peste
portata in Italia dai soldati. Lo scenario e gli anni in cui
Alessandro Manzoni ambienta il suo capolavoro "I promessi
sposi".
Particolarmente
grave risultava all'inizio degli anni Trenta del Milleseicento la
situazione del tratto di Valle fra Dego e Spigno, governato dal
Marchese di Garessio Francesco Spinola per i feudi di Dego, Piana e
Giusvalla e dal Marchese Marco Antonio degli Asinari Del Carretto di
Asti per la parte di Spigno, Rocchetta e Turpino. Nell'aprile del
1631 truppe tedesche di passaggio dopo aver devastato alcune frazioni
isolate avevano imposto ai cittadini di Cairo Montenotte il pagamento
di una ingente somma per evitare l'occupazione e il saccheggio del
borgo. Con gli "Alemanni", come venivano chiamati quei
soldati, era arrivata la peste che in particolare aveva colpito la
zona di Piana, quasi spopolandola.
"In
Piana - si legge in una cronaca del tempo - del continuo morono del
morbo contagioso, et quello [il Marchese di Garessio Antonio
Spinola] procede in non voler far nettare le case infette; il signor
Marchese ha abbandonato detto locho, e, per quello si va dicendo,
credo vi sijno più poche persone".
Il
malcontento popolare causato dalla guerra e dalla fame e il terrore
per il dilagare inarrestabile del morbo trovarono presto uno sfogo
nella caccia alle streghe. In Valle si diffusero voci, portate da
viaggiatori provenienti dal Milanese dove si era aperta la caccia
agli "untori" accusati di diffondere la pestilenza, che i
mali sofferti fossero il frutto dell'operare di streghe e stregoni
agenti agli ordini del Demonio. In una società piccola e chiusa come
quella valligiana i sospetti caddero su chi veniva considerato
marginale, estraneo (e dunque ostile) alla comunità, quasi sempre
donne di umilissima condizione il cui modo di vivere aveva per le più
varie ragioni determinato sospetti e risentimenti da parte dei
maggiorenti (sempre maschi) dei borghi.
Accadde
così che due donne di Cairo Montenotte, Lucia e Maria Langherio
fossero accusate di aver ballato col Diavolo in una località detta
Pianazzo e aver ricevuto l'ordine di andare a spargere la peste nella
città di Savona. Ma arrivate a San Bernardo nei pressi del luogo
dove nel 1536 la Madonna era apparsa a Antonio Botta, il Demonio
stesso le aveva fermate dicendo a Lucia: "Fermati, non andare
più avanti, perchè Maria Vergine Madre di Dio non vuole, essendo la
città di Savona sua divota, ed essa l'ha in protezione".
Una
storia confusa, di cui non si sa altro e che non ha lasciato tracce
storiche. Non si conservano documenti relativi ad un processo e
tantomeno ad una esecuzione, nonostante la tradizione popolare parli
di roghi, ma questo avvenimento, sia o no realmente accaduto, rende
bene il clima esistente sul territorio e in qualche modo fa da
introduzione al dramma, questo vero e documentato, che stava per
svolgersi più a valle, nel paese di Spigno.
Il 9
luglio 1631 il procuratore fiscale della curia vicaria di Spigno
denuncia a Giovanni Verruta, parroco di Spigno e vicario foraneo,
come “alla villa di Rocchetta di Spigno siano cristiani e cristiane
puoco timorati di Dio Benedetto che commettono molti disordini come
inobbedienti a Santa Chiesa, massime di streghe, commettendo molti
affascinamenti et stregherie contro gli ordini di Santa Madre
Chiesa...”
Il
parroco inizia l'indagine, si reca a Rocchetta, raccoglie
testimonianze e denunce da parte di alcuni abitanti, tutti uomini,
economicamente benestanti, definiti "dabbene" e dunque
considerati affidabili. Queste testimonianze sono concordi nel
segnalare alcune donne considerate potenzialmente sospette.
Immediatamente iniziano gli arresti. Complessivamente vengono
inquisite quattordici donne, abitanti in varie località della
vicaria (comprendente le parrocchie di Piana, Giusvalla, Spigno,
Merana, Turpino e Rocchetta e alle dipendenze della diocesi di
Savona) . Sono donne di varia età e tutte hanno in comune una cosa:
appartengono allo strato più povero della popolazione e si
comportano in un modo giudicato strano, non consono alle regole
comunitarie e ai precetti della Chiesa.
Le
poverette, accusate di non partecipare con assiduità ai riti
religiosi, di avere avuto commerci con il Diavolo e di "mascare",
cioè di spargere il malocchio provocando con le loro arti la morte
di bambini in fasce e animali e la distruzione dei raccolti, si
proclamano innocenti. A questo punto, il parroco, che vuole ottenere
al più presto delle confessioni, scrive a Savona al suo vescovo
richiedendo il permesso di usare la tortura negli interrogatori.
“Si
sono interrogate una volta - scrive in una lettera del 21 luglio - le
donne incarcerate et il Dottore [l'incaricato della giustizia civile]
dice che converrà torquerle.”
Il
vescovo prende tempo, evidentemente qualcosa nella relazione del
parroco non lo convince. Decide dunque di coprirsi le spalle,
rivolgendosi ad una autorità superiore, quella del Padre Inquisitore
di Genova e ordina pertanto al Verruta di non procedere
ulteriormente, ma di trasmettergli gli atti dettagliati
dell'inchiesta.
La
posizione della Chiesa è cauta, non si vuole ripetere il caso di
Triora dove qualche anno prima decine di donne erano state arrestate,
torturate e (alcune) uccise, senza che l'indagine fosse poi approdata
a qualcosa di concreto. Monsignor Spinola investe dunque della
questione i domenicani genovesi e il Padre Inquisitore gli risponde
consigliando prudenza e comunicando la necessità di trasmettere gli
atti a Roma per avere lumi “come stimerei bene facesse anco VS
ill.ma, avvisando intanto con sue lettere quel Signor Marchese che
s'astenghi di tentar cosa alcuna contro di dette streghe, dovendo
prima esser conosciuta la loro causa dal Sant'Offizio”
Agendo
di conseguenza, il vescovo Spinola informa Roma, dichiarando di non
aver acconsentito a dare “autorità assoluta” al vicario foraneo
che con l'assistenza del giudice secolare intendeva procedere
immediatamente e l'intenzione di non fare nulla “che prima non
ricevi dalle SS.VV. Eminentissime espresso ordine di quello dovrò
fare in causa si grave”.
Nella
bozza della missiva al Santo Uffizio lo Spinola aveva scritto di
trasmettere "il sommario della causa contro alcune streghe",
ma la parola "streghe" risulta poi cancellata e sostituita
con il più neutro termine "persone". Una correzione che la
dice lunga su quanto la Curia di Savona prendesse sul serio la
denuncia del parroco di Spigno.
Una
cautela non gradita dal vicario, sostenuto dal Marchese Asinari,
che, nonostante gli inviti ad astenersi da ogni ulteriore azione,
continuò a premere su Savona per ottenere il permesso di procedere
nell'inchiesta. Il fatto era che il potere politico, allarmato dal
montare del malcontento popolare e della richiesta di misure
drastiche e immediate contro le donne incarcerate, non intendeva
andare tanto per il sottile, nè temporeggiare. Per cui, nonostante
la mancata autorizzazione vescovile, a Spigno l'inchiesta andò
avanti e con i mezzi spicci considerati necessari, tanto che presto
iniziarono le confessioni.
In
una lettera del 29 settembre 1631 don Verruta relaziona sul processo
in corso nonostante l'ordine vescovile di non procedere, e comunica
che dopo "hore di corda et altri tormenti" le accusate
avevano confessato, "fuor d'una convinta da complici nè delitti
che per opera del diavolo nega tuttavia". Dalle dichiarazioni
estorte con la tortura risultava che le quattordici donne si erano
date al diavolo, descritto come un bel giovane vestito di verde, che
“puoi si fece adorar con farsi baciar il cullo e conobbe sodomitice
carnalmente”.
Le
imputate dichiaravano di aver stretto un patto con il Maligno in cui
si impegnavano a non dire mai la verità in confessione, a non
inghiottire l'ostia, ma tenerla per poterla poi calpestare. Le
poverette avevano confessato anche di aver volato a cavallo di un
bastone fino al luogo del Sabba dove “dopo aver ballato con il
diavolo da esso furono tutte conosciute carnalmente sodomitice”, di
aver fatto morire bambini e bestiame, di aver causato tempeste. E
questo nel seguente modo: “fatto un fosseto, ivi tutte orinarono,
com'anco il diavolo, indi mescolando quell'orina il diavolo vi mise
un poco di polvere et, levandosi in alto fumo, si fanno nuvole da
dove dicono al diavolo metti giù metti giù”. Per delitti così
gravi la pena non poteva essere che la morte e questa il parroco
chiedeva per tutte.
Ma
la risposta della curia è di nuovo negativa. Il 3 ottobre il vescovo
di Savona intima al parroco: “non innovi, né permetta che s'innovi
cosa alcuna, in far essecutione contro dette incolpate, sino
all'ordine e all'avviso della Sacra Congregatione”
Spinto
dal Marchese, che gode dei favori del re di Spagna e che si sente
dunque intoccabile, il Verruta protesta “nei luoghi circonvicini
si è venuto all'essecutione contro simili bestie, il che fa stupir
qui s'usi tanta difficultà...”, ma assicura comunque il rispetto
degli ordini del vescovo
Passano
alcuni mesi e il 31 gennaio 1632 arriva finalmente la risposta da
Roma: l'inchiesta è giudicata molto difettosa, il processo contiene
una moltitudine di nullità procedurali, non ci sono prove, c'è
stato un uso eccessivo della tortura. Il vescovo viene invitato a far
trasferire presso di sé le accusate per interrogarle personalmente
senza usare alcuna forzatura:
“Di
nuovo ex integro si sentano, senza suggerirle cosa alcuna, ma solo
interrogarle se sappiano la causa della loro carceratione, e si
devono lasciar dire da sé, perchè apparischino le contrarietà e
variationi degli esami”.
A
febbraio una lettera del Padre Inquisitore di Genova preme
ulteriormente perchè la causa passi direttamente nelle mani della
Curia savonese: “Juntanto sarà bene che VS Ill.ma avvisi quel
Signor Marchese che non eseguisca cos'alcuna se prima il Sant'Officio
non ha fatto la sua parte, acciò non incorresse nelle censure come
già fece il Commissario di Triora...”
Richiesta
che non ebbe seguito perchè il 29 febbraio Don Alfonso, figlio del
Marchese Asinari, rispose con arroganza al vescovo che il problema si
era risolto da solo: “Già che, per la longhezza e la dilatione,
sono tutte morte, et con haver finito avanti hieri di passar la barca
di Caronte, ci hanno levato a tutti questo impiccio...”.
Non
c'era dunque più alcun motivo di contrasto tra potere religioso e
potere civile. Diventate un problema, le donne erano state tolte di
mezzo senza clamori o pubblicità inopportuna e inutili risultarono i
tentativi di Monsignor Spinola di far luce su quanto era realmente
accaduto nelle carceri di Spigno.
Il
10 maggio la Curia chiede al parroco di Spigno “ se dette streghe
sono morte da se stesse naturalmente o vero di morte violenta e per
ordine di chi e se son statte fatte morire inanti l'inhibitione che
fu fatta sotto li 22 febbraio passato...”.
Il
20 giugno il parroco rispose prendendo tempo e dicendo che appena
possibile “saria mandato un sommario amplissimo”.
Poi
più nulla. Il "sommario amplissimo" non giungerà mai, nè
verrà più richiesto o sollecitato. Quei devoti uomini di Chiesa (il
vescovo di Savona, gli inquisitori di Genova, il Santo Uffizio di
Roma) non insistettero: ritenevano di aver fatto comunque il loro
dovere e tanto bastava. A nessuno interessava veramente di
quattordici povere contadine che contavano meno di niente.