Franco Astengo
PCI e comunismo in Italia
A proposito di "Azione
comunista, Da Seniga a Cervetto" di Giorgio Amico
Giorgio Amico, attento
osservatore di tutti i risvolti che hanno accompagnato le diverse
realtà della sinistra italiana, ha appena pubblicato un
testo:“Azione Comunista : da Seniga a Cervetto 1954 – 1966”.
Una ricerca che tiene assieme due risvolti: quello riferito a un
episodio clamoroso di lotta interna al PCI con l’abbandono del
partito da parte di Giulio Seniga (già braccio destro di Secchia) e
quello seguente relativo alla formazione del gruppo di “Lotta
Comunista”, ancor oggi attivo in diverse parti d’Italia e in
particolare in Liguria, tra Genova e Savona.
Il lavoro di Amico si
addentra nei veri e propri meandri di composizione ricomposizione dei
diversi gruppi all’epoca operanti alla sinistra del PCI, sia di
origine trotzskista, sia di origine bordighista, e ancora dei loro
contatti con altri gruppi di origine libertaria e di strani intrecci
mantenuti da alcuni dei personaggi che si muovevano all’interno o
ai margini di questa area politica con settori anticomunisti tra i
quali quelli di origine socialdemocratica e altri di chiara natura
provocatoria (il famigerato “Pace e Libertà” di Edgardo Sogno e
Luigi Cavallo) fino a prolungati contatti con i servizi segreti
mantenuti addirittura nella persona di Umberto D’Amato. Una storia
complessa, per certi versi affascinante e inquietante come riflesso
dei tempi in cui la lotta politica, condotta per alti ideali, finiva
con lo sconfinare in livelli di scontro particolarmente aspri con
particolari aspetti che possono essere giudicati come oscuri.
Non è facile riassumere
un lavoro di così forte spessore in alcune proposizioni politiche.
Mi permetto così di utilizzare una sintesi, una vera e propria
“reductio”, raccolta attorno a due elementi. Il primo elemento me lo
ha suggerito una mirabile sintesi formulata nel libro dallo stesso
Amico interrogandosi sulle ragioni di questa lotta politica condotta
sul filo di sottilissime diaspore nell’illusione di ravvedere in
piccoli, se non inesistenti, movimenti l’avvio di una nuova
tensione rivoluzionaria.
Spiega Giorgio Amico: “Il
fenomeno è vecchio almeno quanto l’esistenza di gruppi
rivoluzionari. E’ proprio il minoritarismo, vissuto come condizione
politica permanente, a portare alla chiusura settaria e
autoreferenziale (come nel caso di Bordiga e Maffi) o al
sovraccaricare di valenze messianiche ogni evento che solo sembra
spezzare la routine terribile e frustrante dell’isolamento e
dell’impotenza pratica”.
Il secondo punto da
sviluppare riguarda la lotta condotta contro il PCI in nome di
diverse forme di ortodossia comunista. La lettura del testo di
Giorgio Amico mi conferma in un punto di analisi che mi pare debba
essere ancora sostenuta oggi a tanti anni di distanza dallo
scioglimento del Partito Comunista Italiano. Il PCI ha rappresentato
la forma politica del comunismo italiano, almeno fino alla
formulazione della strategia del compromesso storico poi ridotta alla
tattica della “solidarietà nazionale”. Strategia del
“compromesso storico” attraverso la quale si segnava un punto di
decisivo distacco anche da quella dei “fronti popolari”.
Una forma politica
specifica era già identificabile in quella del PCd’I la cui
particolarità era principiata fin dallo stesso congresso di Livorno
attraverso il confronto fra le componenti originarie e poi aveva
trovato una sua prima sistematizzazione nel III congresso di Lione
del 1926, ben in precedenza alla “svolta di Salerno”.
La ragione per la quale
si può considerare il PCI,almeno nella fase delle segreterie di
Togliatti e Longo, quale forma politica compiuta, complessivamente
esaustiva nel bene e nel male del comunismo italiano risiede in una
ragione teorica, tutta interna al pensiero gramsciano: Gramsci,
infatti, rifonda l’autonomia del marxismo basandone le coordinate
di fondo su di una “filosofia della prassi” divenuta sinonimo di
produzione di soggettività politica, di critica della concezione del
mondo della classe dominante ed elaborazione di un’ideologia
congrua alle condizioni di vita dei gruppi sociali subalterni. Questo
tipo di elaborazione consentì l’operazione portata avanti dal
gruppo dirigente del Partito nell’immediato dopoguerra, per
specifico impulso soprattutto di Palmiro Togliatti.
Il prestigio acquisito
dal PCI nell’organizzazione dell’antifascismo militante e nella
guerra di Liberazione, nonché l’essenziale contributo dell’Unione
Sovietica alla sconfitta del nazismo, furono all’origine, in quel
periodo, di un rinnovato interesse per il marxismo. La ripresa del
marxismo, pur traendo alimento da forti referenti storico –
sociali, fu processo non facile sul piano teorico.
Nell’URSS di Stalin,
durante gli anni ’30 – ’40 la sintesi engelsiana del marxismo
era stata trasformata in dottrina dello Stato fondata
sull’opposizione tra teoria materialistica e teoria idealistica
della conoscenza. Le leggi scientifiche del materialismo storico
furono considerate un’applicazione particolare del materialismo
dialettico, in quanto filosofia che compendiava le leggi di movimento
della realtà naturale e sociale. La marxiana critica dell’economia
politica fu sostituita da una scienza economica socialista capace di
calcolare i prezzi e di allocare razionalmente le risorse nell’ambito
di un sistema pianificato. Le sorti del socialismo furono, così,
identificate con i sostenuti ritmi di sviluppo delle forze produttive
e i successi politici ed economici della “patria del socialismo”
furono chiamati a verificare la validità della teoria
marxista-leninista.
L’autonomia teorica del
marxismo italiano, e di conseguenza della sua forma-partito, rispetto
al quadro fin qui disegnato fu avviata da Togliatti con la
pubblicazione dei “Quaderni del Carcere” avvenuta tra il 1948 e
il 1951: principiò, in allora, la costruzione di una genealogia del
marxismo italiano partendo addirittura da Vico, passando da De
Sanctis, Bertrando Spaventa, Labriola, Croce fino a pervenire a
Gramsci.
Questa operazione
culturale conseguì almeno tre risultati: mise in ombra il
materialismo dialettico sovietico, fornì la piattaforma per
l’elaborazione strategica del “partito nuovo” aprendo il solco
teorico su cui basare la “via italiana al socialismo” tesa alla
costruzione della “democrazia progressiva” e difese, infine, nel
clima ideologico della guerra fredda, la continuità della cultura
democratica progressista italiana, conquistando una generazione di
intellettuali di cultura laica, storicista e umanistica a posizioni
genericamente marxiste, senza provocare “lacerazioni troppo nette”.
Al primo convegno di
studi gramsciani Eugenio Garin, Palmiro Togliatti e Cesare Luporini
sottolinearono che Gramsci aveva tradotto in italiano l’eredità
valida di Marx e che il suo pensiero era profondamente radicato nella
cultura e nella realtà nazionale. In quella sede fu fortemente
criticato l’economicismo, attribuendo importanza alle ideologie e
alla funzione degli intellettuali. Gramsci collocava, infatti (almeno
nella stesura togliattiana dei “Quaderni” antecedente
all’edizione integrale curata da Gerratana nel 1975) la politica al
vertice delle attività umane, sviluppando la dottrina leninista del
partito attraverso l’estensione dello storicismo integrale in
direzione di un’originale teoria delle sovrastrutture e respingendo
la teoria della conoscenza come riflesso. La concezione del marxismo
in Gramsci è stata quella di considerarlo non un metodo, ma una
concezione del mondo rivolta a cogliere le possibilità storicamente
date nella prassi sociale (esattamente il contrario di quanto
elaborato nei gruppi di cui scrive Giorgio Amico).
Il più valido spunto
critico a questo tipo di impostazione venne, dopo il ’56 da Raniero
Panzieri e dal gruppo dei “Quaderni Rossi”: Panzieri fu promotore
di una riscoperta della democrazia consiliare e del primato del
“soggetto classe” sul predicato partito, critico tanto
dell’ideologia della stagnazione quanto dell’ideologia
tecnocratica della programmazione, che riduceva la questione sociale
a un problema tecnico e identificava il capitalismo con la società
industriale e l’illimitato sviluppo della produttività. Panzieri
era fortemente critico con l’impostazione togliattiana della
celebrazione del nazional-popolare, del recupero storico-culturale
della tradizione democratica e soprattutto dello “scarto evidente,
nei partiti storici della sinistra, fra il primato esteriore
dell’ideologia e la pratica quotidiana di pura amministrazione”.
La scomparsa prematura di
Panzieri, il disinteresse del PSI ormai impegnato nell’operazione
centrosinistra (la “politique d’abord” di Nenni) la debolezza
teorica e politica dello PSIUP non consentirono agli spunti di
analisi di Panzieri e dei “Quaderni Rossi” di rappresentare la
base per una soggettività politica rappresentativa di un vero e
proprio contraltare teorico allo storicismo togliattiano.
Non risultò neppure
all’altezza di quel confronto il punto di dibattito apertosi
al momento della scomparsa di Togliatti, ad iniziativa di quella che
poi sarebbe stata definita “sinistra comunista” (termine del
resto rivendicato anche dalla stessa “Azione Comunista”, a mio
giudizio in maniera erronea). L’iniziativa della “sinistra
comunista” raccolta attorno a Pietro Ingrao all’XI congresso era
stata avviata essenzialmente grazie ad una riflessione di Rossana
Rossanda e Lucio Magri ( una riflessione ancora parzialmente diversa
da quella avanzata con la successiva vicenda del “Manifesto”, il
cui gruppo fu inizialmente influenzato dalle vicende del ‘68 e
della stessa rivoluzione culturale cinese). Quella riflessione,
sviluppata appunto a cavallo dell’XI congresso il primo svoltosi in
assenza di Togliatti, rimproverava, sostanzialmente, allo storicismo
di aver oscurato il nocciolo teorico di Labriola e Gramsci (Magri
riprende il tema nel “Sarto di Ulm”) e di aver annacquato il
marxismo nel quadro di una tradizione dai contorni imprecisi
rivendicando un primato del politico sull’economico che aveva
smarrito il nesso tra teoria e prassi, tra scienza e storia,
oscillando così tra il riferimento di una realtà di pura empiria
(attribuita all’ala amendoliana del partito) e di un semplice
finalismo volontaristico.
Restarono così punti
irrisolti di dibattito, cui i gruppi la cui attività è stata
analizzata da Giorgio Amico nel suo testo non riuscirono a
partecipare produttivamente rimanendo marginalizzati (come del resto
verificatosi successivamente con il gruppo di “Lotta Comunista”)
e rimasti fuori dal filone centrale della presenza comunista in
Italia. Rimane, a questo proposito la testimonianza di elementi di
dibattito nell’area comunista attraverso la cui rievocazione si
possono comprendere meglio spunti di evoluzione e di modificazione
progressiva nella proposizione del pensiero politico legato all’idea
della rivoluzione e della lotta di classe rimasti comunque confinati
in quella logica minoritaria cui si è già fatto cenno citando la
formulazione adottata dall’autore.
Torniamo allora a quei
punti irrisolti di dibattito che forse avrebbero dovuto essere
sviluppati con una capacità critica portata molto più a fondo da
chi era stato capace di individuarli e argomentarli. Nella nuova
sinistra post – sessantottesca dentro le cui diverse soggettività
pure si trovavano fermenti molto significativi emersero limiti forti
di vero e proprio politicismo.
Il PCI dal canto suo, con
l’elaborazione berlingueriana del “compromesso storico” negli
anni’70, sviluppò una sorta di visione distorta del “primato
della politica” . Una visione distorta che portò, sulla base del
prevalere del concetto di governabilità, al collasso della teoria:
ciò avvenne ben in precedenza alla stagione degli anni’80 nel
corso della quale si pose la questione della liquidazione del partito
avvenuta poi semplicisticamente all’insegna dello “sblocco del
sistema politico” nell’esasperazione dell’utilizzo
dell’autonomia del politico proprio in funzione della
governabilità.
Per questi motivi di
fondo: autonomia teorica dal modello sovietico (mantenendo comunque
sul piano politico e anche economico il “legame di ferro”),
primato della politica sull’economia senza alcuna visione
meccanicistica in questo senso, assunzione della concezione
gramsciana del rapporto tra struttura e sovrastruttura,
sovrapposizione del partito alla classe (nella versione togliattiana
del partito nuovo) il PCI togliattiano è stato il soggetto politico
che si può considerare quasi complessivamente rappresentativo del
comunismo italiano. Il resto (anche nella critica di Panzieri) ha
ruotato attorno.
Lo scioglimento del
partito, avvenuto in condizioni di evitabile frettolosità e al di
fuori da una qualsiasi ricerca di impostazione teorica alternativa ma
semplicisticamente sull’onda dell’attualità, di una presunta
“fine della storia” e della necessità già citata ( di natura
davvero provinciale e politicamente angusta) di “sblocco del
sistema politico”) ha dato origine ad un cesura epocale che
al momento apparve irrecuperabile: il patrimonio della stessa
“sinistra comunista” che si era opposta all’operazione
liquidatoria risultò disperso, al momento dell’esperienza del
seminario di Arco del 1990 e del mancato raccoglimento del messaggio
lanciato da Lucio Magri con la sua relazione “Il nome delle cose”.
La diaspora tra Cossutta ed Ingrao ed il ritiro di Natta privò
quell’area politica di riferimenti unitari per proseguire nella sua
storia.
Nacque un soggetto come
Rifondazione Comunista all’interno del quale il portato ideal –
storicista del PCI e della stessa sinistra comunista non trovò
particolare accoglienza sovrastato, in particolare nella fase
dell’assunzione della segreteria di Fausto Bertinotti, dai concetti
effimeri della personalizzazione e di un impasto tra movimentismo e
governativismo, che hanno decreto in poco tempo la pressoché
definitiva conclusione di quell’esperienza ed, in ogni caso, il suo
essere superfluo al riguardo della realtà del sistema politico
italiano e, soprattutto, rispetto all’apertura di una ricerca
sull’attualità di un nuovo comunismo, dopo l’esperienza fallita
dell’inveramento statutale dei fraintendimenti marxiani del ‘900.
I tempi sono sicuramente
maturi per avviare una proposizione di un discorso di sinistra che
affronti, finalmente, il tema delle nuove contraddizioni cercando
anche di mantenere aperto il confronto con quelli che sono stati i
punti più alti della sua storia sul piano teorico e politico.