Mirò, Orto con asino
Coltivare
un orto un tempo per molte famiglie contadine dell'entroterra era una
necessità, quasi uno strumento di sopravvivenza. Oggi, come dimostra
questo intervento di un caro amico apparso su un giornale che esce a
Piana Crixia, può significare mantenere una tradizione , fare cultura,
ma anche un modo per restare umani in un mondo dove tutto è ormai
ridotto a livello di spettacolo massmediatico. Un'ultima parola
sull'importanza fondamentale dei piccoli notiziari locali che cercano
di mantenere insieme una comunità e il senso di appartenenza ad un
luogo e a una storia che è fatta prima di tutto di persone, uomini e
donne che lì sono vissute e vivono. Perché la memoria è preziosa e
non va dispersa.
Luigi
Sormano
Orto,
la passione della tradizione
Con
l’approssimarsi della fine dell’inverno ed il ritorno delle belle
stagioni arriva anche il momento di riprendere l’attività negli
orti. Per noi che abitiamo nelle campagne e discendiamo da
generazioni di contadini la coltivazione di un appezzamento di
terreno, piccolo o grande che sia, ad orto è quasi un atavico
obbligo. Detto da uno come me, che appartengo alla esigua schiera di
quelli che l’orto non lo coltivano, la cosa ha quasi il sapore di
bestemmia, ma per la maggior parte delle altre persone questa specie
di obbligo morale trova poi consequenzialità nell’impegno che
profondono nel curare, a volte in modo quasi maniacale, l’orto di
famiglia.
Non
nascondo che a volte mi faccio prendere da una specie di senso di
colpa e sono tentato di cedere alla tentazione di rientrare a far
parte della congrega degli ortolani, poi però, regolarmente, la
razionalità torna a prevalere e lascio perdere, seppur sovente con
un sottile senso di rimpianto. Ho ceduto le armi, pardon la zappa, da
ortolano da ormai oltre vent’anni, allorquando cambiai casa e
lasciai il Pontevecchio dove mi prendevo cura di un bel terreno
adibito, appunto, ad orto. Le condizioni erano ottimali, il terreno
pianeggiante e fertile, anche per le abbondanti concimazioni,
leggermente sabbioso e morbido, con acqua in abbondanza, un vero
spasso che mi facilitava il compito, avevo addirittura un piccolo
trattorino completo di aratro e fresa con il quale mi divertivo senza
faticare. Nella nuova casa dove mi trasferii ed ancora dimoro, pur
essendoci una grande quantità di terreno, lo stesso non era molto
adatto, più argilloso, compatto e pietroso, insomma decisamente più
ostile del precedente, questo avrebbe significato più tempo, maggior
fatica e meno risultati, ragione per la quale, considerando anche
che, in allora essendo Sindaco il tempo a mia disposizione si era
drasticamente ridotto, mi rassegnai a rinunciare ed a dedicarmi
soltanto alla cura dei miei alberi da frutta, del prato e delle altre
piante che vi dimorano.
Rimane
un sapore dolciastro di rimpianto, la nostalgia di grufolare nel
terreno assaporandone gli odori e le sensazioni. Oggi, per quasi
tutti coloro che lo coltivano, l’orto è un vezzo, un hobby, un
modo sano ed anche divertente di impegnare energie e tempo, argomento
di discussioni e terreno di sottili sfide non dichiarate ma sempre
aleggianti, motivo di orgoglio ma anche di sotterranea gelosia ed
invidia. Nessuno tiene più un orto per mera necessità economica,
può rappresentare un piccolo aiuto a risparmiare sulle verdure ma ha
certamente perso la funzione di elemento strutturalmente
importantissimo, per l’economia di una famiglia, che rivestiva ai
tempi dei nostri nonni e padri allorquando rappresentava una risorsa
dalla quale non si poteva prescindere. Adesso è prevalente
piuttosto il desiderio di consumare un prodotto sicuramente più
genuino, un qualcosa sul quale si è esercitato il controllo in tutte
le fasi della crescita dalla nascita alla raccolta, il tutto
condensato in un assunto che è un po' la parola d’ordine dei
cultori dell’orto: “almeno so cosa mangio”.
Ben
diversa, come ricordato, la storia ai tempi dei padri e dei nonni,
che peraltro ha ancora visto protagonisti tutti quelli della mia
generazione sino a giovinezza inoltrata, lasciandoci una memoria
fondamentale della nostra cultura contadina che a saperla leggere
diventa storia di civiltà. L’orto era strumento di nutrizione
perché di lì arrivava la maggior parte di tutto quello che si
mangiava, ma anche d’economia, seppur minuscola, perché fonte di
qualche piccola entrata per la vendita di qualche prodotto. Tutte le
famiglie che vivevano in campagna avevano l’orto, era
imprescindibile, il suo ciclo di vita non conosceva praticamente
pause, la sua cura, articolata nelle diverse attività si snodava per
tutto l’anno, l’impegno che richiedeva era continuativo e
costante. Non impegnava soltanto gli uomini, anche le donne sovente
partecipavano, e non solo per la preparazione e lavorazione dei
prodotti che poi venivano conservati per le stagioni che sarebbero
seguite, ma anche per le coltivazioni vere e proprie. Non
dimentichiamo d'altronde che l’agricoltura nasce al femminile,
nelle civiltà primordiali l’uomo si occupava della caccia e furono
le donne che iniziarono a curare e coltivare la terra ponendo le basi
per quella che sarebbe diventata l’attività che avrebbe dato agli
esseri umani la possibilità di sopravvivere e svilupparsi nei
millenni. Ma questo per cortesia non ricordiamolo alla Signora
Boldrini altrimenti sai che rompimento di marroni metterebbe in
campo.
L’orto
non era un pezzo di terra qualunque, era un tempio, regolato da
comportamenti quasi rituali ed in qualche misura anche scaramantici
che ne sancivano una sacralità che lo elevavano al di sopra degli
altri terreni. Come tutti quelli della mia età ho ben scolpito nella
memoria cosa si faceva nell’’orto e come lo si faceva, una
traccia profonda, incancellabile. L’orto che avevamo era collocato
nella parte più bassa della frazione, al di fuori dell’abitato, là
dove il terreno scende alla quota del fiume e diventa pianeggiante,
era la zona dove tutti quella della frazione dei Pera avevano il loro
orto, terra adatta, scura, friabile, residuo delle esondazioni delle
acque della Bormida, costeggiava un piccolo torrente che nel pieno
dell’estate era di norma in secca, mentre ora lo è quasi per la
maggior parte dell’anno, facilmente innaffiabile per la presenza di
numerosi pozzi d’acqua sorgiva. Già, perché il primo presupposto
per un orto è che ci sia la disponibilità di acqua sufficiente per
supportare la crescita e sopravvivenza delle piante durante tutto il
ciclo del loro sviluppo.
Gli
orti erano sistemati uno di fianco all’altro, c’era quello dei
miei zii, poi il nostro, a seguire quello della famiglia Lovesio
Francesco poi quello di Lovesio Alberto ed infine, ma un po' più
staccato, separato da qualche lingua di terreno, quello di Lovesio
Giovanni. Quattro i pozzi, uno per noi e gli zii ed uno ciascuno per
gli altri, pozzi non profondi, tre quattro metri al massimo, molto
larghi e ricchissimi di acqua tutta sorgiva. Il sistema di
prelevamento e sollevamento dell’acqua per irrigare era assicurato
da una “bricula”, termine del nostro dialetto per identificare lo
“shaduf”, attrezzatura utilizzata già dagli egizi ma della quale
non esiste un termine italiano codificato. Il sistema è
semplicissimo ma ingegnoso, un tronco d’albero molto robusto alto
mediamente due metri e mezzo, veniva piantato in verticale a circa un
paio di metri dal margine del pozzo, alla sommità veniva divaricato
lasciando tra i due bracci una luce di una trentina di centimetri
nella quale, tramite un piolo di legno inserito orizzontalmente, era
collocato a sbalzo un lungo palo, più sottile ovviamente della
colonna verticale. All’estremità del palo che sbalzava in alto,
sino ad arrivare con la sua verticale all’interno del pozzo, era
fissata una corta catena o corda che all’altro capo veniva
assicurata ad una pertica che pendeva sino a circa un metro da terra.
Mentre all’estremità della pertica era fissato un gancio ad U
l’estremità del palo che toccava terra veniva contrappesato
fissando una pietra del peso di un grande secchio d’acqua. A questo
punto era funzionante un sistema efficiente ed efficacissimo, la
tecnicalità s’imparava per esperienza, ben saldi sulle gambe ci si
piazzava sul bordo del pozzo, dove in quel punto di solito si metteva
una grande pietra piatta e ruvida per evitare pericolosi slittamenti,
s’inseriva un secchio nel gancio e con la forza delle braccia si
tirava la pertica verso il basso del pozzo vincendo la forza del
contrappeso. Quando il secchio arrivava a lambire il pelo dell’acqua
si spostava lateralmente, con un piccolo movimento la pertica e
subito dopo, in direzione opposta e nel senso dell’apertura del
gancio, si operava uno strappo che contemporaneamente inclinava
secchio, lo faceva immergere riempendolo e lo riportava alla
superficie, a quel punto si allentava completamente la forza sulla
pertica, pur mantenendone il controllo, ed il contrappeso tirava
verso l’alto il secchio facendo scorrere la superficie levigata
della pertica tra le mani senza sforzo. Prima che il palo
contrappesato andasse a toccare terra dalla parte opposta al secchio,
le braccia riprendevano il governo del meccanismo rallentando la
corsa e vuotando il secchio.
L’operazione
a descriverla sembra complicatissima ma in realtà, acquisiti i
corretti automatismi, il tutto si svolgeva in pochi secondi e senza
nessun problema. La manovra che richiedeva maggior attenzione ed
abilità era quella dello strappo che faceva immergere il secchio e
lo trascinava appena sotto il filo dell’acqua per riempirlo e poi
farlo riemergere. Il secchio inclinato andava tenuto in tensione
dalla forza di trascinamento in modo che il manico fosse pressato
contro la gola del gancio ad U e ne venisse impedito lo sganciamento
che avrebbe liberato il secchio causandone l’affondamento in fondo
al pozzo. Non dico che non successe mai, capitava, specialmente nella
fase d’apprendimento, le cause potevano essere una profondità
eccessiva dell’immersione o una scarsa velocità nella fase
subacquea ma sempre con lo stesso risultato. L’eventuale recupero
non era comunque molto complicato, esisteva un attrezzo specifico “i
granfi”, costituito da un serie di braccetti armati di numerosi
gancetti a forma di amo, veniva fissato sul gancio della pertica e
calato sul secchio che in qualche punto veniva agganciato e poi
riportato in superficie. Il “perdere” il secchio generava
comunque sempre qualche rossore da una parte e sorrisi sottilmente
ironici dall’altra, un fallo in azione. Immagino una domanda
scontata: ma se il problema era lo sgancio, perché non fissare,
anche con un semplice fildiferro, il secchio al gancio? Bella domanda
con due risposte, la prima molto razionale: si sarebbe perso troppo
tempo, ogni volta il secchio si sarebbe dovuto legare e poi
sciogliere per portare l’acqua dove serviva e successivamente
rilegare ecc. Una perdita di tempo intollerabile per gente abituata a
lavorare sodo. La seconda è più complessa, infatti l’acqua che
veniva trasportata con i secchi dopo l’estrazione era solo la parte
più piccola di quella che veniva utilizzata, la maggior parte veniva
distribuita con un sistema d’irrigazione efficiente e pratico.
Dalla colonna della “bricula” partiva un bel solco nel terreno,
largo e ben arginato che correva al margine di tutto l’orto sino al
suo limite, da questo solco, che aveva la funzione di dorsale
partivano verticalmente tutti gli altri solchi che avevano la vera
funzione irrigante e ai lati dei quali crescevano le piantine dei
pomodori, peperoni, melanzane, sedani, cavoli, e tutti gli altri
ortaggi coltivati a solco.
Bene,
come funzionava il tutto? Premesso che all’inizio della dorsale,
sotto la “bricula” veniva posto un canale di legno ottenuto
svuotando la metà in verticale di un tronco d’albero che aveva la
funzione di accelerare il flusso dell’acqua e facilitarne lo
scorrimento, una persona si piazzava al pozzo ed incominciava ad
estrarre acqua con la tecnica che abbiamo visto, ma quando il secchio
arrivava fuori dal pozzo non veniva sganciato ma velocemente
traslato, manovrando la pertica, sul bordo del troco svuotato
facendolo poi inclinare e svuotare con un solo movimento. Questa
operazione veniva eseguita in successione continua in modo molto
rapido e questo consentiva di generare un abbondante e continuo
flusso d’acqua che scorreva nella dorsale e veniva, partendo
dall’ultimo solco d’irrigazione convogliato dove serviva. Visto
che il secchio non si sarebbe sganciato per tutta la durata
dell’operazione allora, ritornando alla domanda, perché non
legarlo? All’inizio me lo chiesi anch’io, poi capii. Sarebbe
stata l’ammissione di una difficoltà nello svolgere il lavoro, un
dichiararsi meno sicuri ed abili. Come chiedere ad un vecchio
acrobata di un circo di legarsi ad una fune di sicurezza. Orgoglio
contadino, ecco perché a nessuno venne mai in mente di legare il
secchio.
L’acqua
all’orto veniva data di sera, al tramonto, ci si armava di secchio,
zappa, a volte rastrello se si pensava servisse, e si partiva, i
ragazzini erano in pantaloncini corti, gli adulti arrotolavano i
calzoni sino al ginocchio, le donne al massimo fermavano le lunghe
gonne, raccolte sotto il ginocchio, con qualche molletta da stendere,
un grembiule che serviva per raccoglie la verdura completava
l’abbigliamento. Via le scarpe, sarebbero state una zavorra
infangata e fastidiosa, rigorosamente scalzi, sento ancora la
sensazione di camminare sul terreno umido e morbido, a volte, durante
l’irrigazione, si doveva correre nel solco pieno d’acqua per
tamponare l’ingresso di qualche galleria che le talpe, attratte dal
terreno morbido ed umido, scavavano nel terreno, con la testa della
zappa si pressava il terreno sulla bocca della galleria e l’acqua
riprendeva il cammino al quale era destinata. In quell’occasione si
camminava nella fanghiglia, i piedi affondavano anche sino alle
caviglie, il terreno vischioso e viscido lo sentivi penetrare
attraverso le fessure tra le dita per poi riallargarsi sul dorso del
piede, ma non era una sensazione spiacevole, anzi lo percepivi quasi
come un qualcosa che ti metteva in una specie d’intimità con la
terra, ti faceva sentire a tuo agio.
Mi
rendo conto d’essermi troppo dilungato, era nelle mie intenzioni
raccontare come in allora si coltivava, con vanga, zappa, rastrello,
come di concimava, raccoglieva e conservava, come si svolgevano i
lavori ed in quali tempi. Dalla preparazione delle sementi, alle
piantine, alla semina a tutto il resto, troppe cose e non posso
rubare troppo spazio al giornalino., Magari un’altra volta.
(Da: Piana Notizie. Passa
parola!)