Analisi del capolavoro
di Zola, Grande romanzo sociale dove il lavoro in miniera diventa metafora della condizione
umana.
Pietro Citati
Germinal, l’opera
nera. E no
Émile Zola è
lo scrittore più popolare della Francia: alla fine del Ventesimo
secolo, le collezioni di tascabili hanno venduto venticinque milioni
di copie dei suoi romanzi. Nel nostro Paese, invece, Zola è poco
letto e poco amato; ed è dunque molto proficua la recente edizione
dei Meridiani, che pubblica nove romanzi in tre volumi. Da poco sono
usciti Germinal , La terra , La bestia umana , curati in modo
eccellente da Pierluigi Pellini e tradotti da Giovanni Bogliolo,
Donata Feroldi e Dario Gibelli. Zola cominciò a scrivere Germinal ,
il più famoso e forse il più bello dei suoi romanzi, nell’aprile
1884, dopo aver studiato la questione mineraria, e dopo un viaggio a
Valenciennes, il principale modello di Montsou, dove si concentrano
le vicende del libro. Un anno più tardi lo pubblicò in quarantamila
esemplari: una tiratura alta anche oggi.
In primo luogo,
Germinal è un libro nero. La pianura nuda è dominata da una notte
senza stelle, illuminata dai rari fuochi azzurri degli altiforni e da
quelli rossi dei forni a coke: essa è spazzata da una tramontana
gelida con grandi soffi che si succedono regolari come colpi di
falce; oppure bagnata dalla pioggia che scende lenta, cancellando
ogni cosa in fondo al suo monotono picchiettio. La notte seppellisce
la terra come un sudario. Si moltiplica nel cuore della miniera,
ispessita dalla polvere di carbone sospesa nell’aria, e appesantita
dai gas che gravano sugli occhi dei minatori.
Sentiamo un rumore
sordo, che sembra provenire dalle viscere della terra, e che nasce
dallo sfiatatoio della grande pompa: un respiro lungo, greve,
incessante, simile all’ansimare strozzato del mondo. Tutto, la
notte, la miniera, il respiro dello sfiatatoio, è tenebra; e questa
tenebra non è un’assenza di colore, ma, come diceva Huysmans, il
colore supremo, la molteplicità di tutti i colori, che occupa in
modo stabile la mente di Zola.
La miniera è
accucciata in fondo a un avvallamento: con edifici tozzi di mattoni e
una ciminiera alta trenta metri, ritta come un cono minaccioso. Il
suo aspetto è malvagio: sembra una bestia ingorda, un mostro
accoccolato per divorare la gente. Zola si sforza di descriverla:
insiste, ripete, insiste ancora, fallisce; finché, secondo la
profonda inclinazione della sua natura, parla, con una specie di
religioso tremore, di un «tabernacolo», in cui si nasconde,
accucciato e satollo, il dio al quale tutti i minatori e tutti gli
uomini offrono la propria carne.
Questo dio è
inanimato: è una cosa nella sua essenza profonda: ma subito diventa
animalesco; il pozzo inghiotte gli uomini a bocconi di venti o trenta
per volta, e li manda giù per la gola, come se non li sentisse
nemmeno passare. Ciò che è animalesco diventa umano: i cavalli, che
stanno chiusi in fondo alla miniera e non risalgono mai alla luce,
rivedono con la mente il mulino dove sono nati, continuamente battuto
dal vento, e fanno inutili sforzi per ricordare l’infanzia. Intanto
la pompa della miniera continua a soffiare con lo stesso respiro
lungo e greve: il respiro di un orco umano che nulla può saziare.
Passando dal simbolo
alla realtà, Zola descrive gli uomini che affollano la pianura di
Montsou. Essi non sono, in realtà, uomini, ma insetti o spettri. In
fondo alla miniera, si agitano forme fantomatiche, lasciando
intravedere un’anca, un braccio nodoso, una faccia rabbiosa,
imbrattata di polvere di carbone come per commettere meglio un
delitto. Essi sudano: ansimano: le giunture dei corpi scricchiolano,
ma senza un lamento, con l’indifferenza dell’abitudine, come se
vivere così piegati fosse il destino comune di tutti gli uomini. Si
spogliano: scavano la roccia: si intridono di fanghiglia nera fino al
capo; come talpe in fondo a una tana, sotto il peso della terra,
senza più fiato nei corpi arroventati.
Quando la Compagnia
mineraria aggrava le loro condizioni di vita, i minatori entrano in
sciopero. I borghesi trovano divertente lo sciopero: ma, in fondo
alla loro allegria forzata, c’è una sorda paura, tradita da
occhiate involontarie. Sul piazzale della miniera grava un pesante
silenzio: quella di Montsou è una fabbrica morta: i grandi cantieri
sono vuoti; nel cielo di dicembre, tre o quattro vagoni abbandonati
hanno la muta tristezza delle cose dimenticate. In questo momento,
alla tradizionale disciplina dei minatori si aggiunge un orgoglio da
soldati: gente fiera del proprio mestiere, che dalla lotta quotidiana
contro la morte ha appreso l’esaltazione del sacrificio.
Tra i minatori di
Montsou, giungono estranei. Étienne Lantier, che viene dalla città,
appare in altri volumi dei Rougon-Macquart , il grande ciclo di Zola.
Egli non tollera i doni della Compagnia: detesta i borghesi: non
vuole farsi ridurre come una bestia accecata e schiacciata; ma
immagina una rigenerazione universale di popoli senza una goccia di
sangue. Suvarin è un anarchico, che viene da Pietroburgo.
«Piantatela — grida — con la vostra evoluzione! Appiccate il
fuoco ai quattro angoli della terra, sterminate i popoli, radete al
suolo tutto quanto. Quando non resterà più niente di questo mondo,
allora forse ne nascerà uno migliore. Lo volete capire? Bisogna
distruggere tutto. Sì, l’anarchia. Più niente. La terra lavata
dal sangue, purificata dall’incendio...!».
Lo sciopero si
estende e diventa violento. Quando i minatori arrivano al pozzo di
Gaston-Marie, duemilacinquecento forsennati spaccano e spazzano via
tutto, con la forza impetuosa di un torrente in piena. Ribaltano i
fornelli, svuotano le caldaie, devastano gli edifici. Si gettano
sopra la pompa, come se fosse una persona a cui vogliono togliere la
vita: la massacrano a colpi di mattoni e sbarre di ferro. Allora
l’acqua comincia a sgorgare. Quando esce completamente, un ultimo
gorgoglio sembra il singulto di un agonizzante. Lo sciopero dura due
mesi. La rabbia, la fame, le scorribande trasformano i placidi volti
dei minatori di Montsou in fauci di bestie feroci. I raggi del sole
al tramonto insanguinano la pianura. Il nero del libro diventa rosso,
scarlatto, accrescendo la propria violenza tenebrosa. I minatori si
chiudono in casa, in preda alla fame e alla ostinazione passiva. La
loro forza cieca divora sé stessa.
Intanto Suvarin è
sempre più assorbito in un’idea fissa, che sembra brillare come un
chiodo d’acciaio in fondo ai suoi occhi chiari. Egli sabota la
miniera. Poi si allontana senza guardarsi alle spalle nella notte
tenebrosa: con la sua aria tranquilla, va verso lo sterminio,
dovunque ci sia dinamite per far saltare uomini e città.
Sottoterra, scorre il
Torrente, un mare inesplicato, con le sue tempeste e i suoi naufragi,
che agita i propri flutti neri a trecento metri dalla luce del sole.
La miniera si riempie d’acqua. La grande pompa ansimante non riesce
a smaltirla. Il rivestimento del pozzo si stacca. In alto si sente
una serie di sorde detonazioni: tavole di legno si fendono e si
schiantano in mezzo al continuo e crescente frastuono del diluvio. Si
sentono bruschi rimbombi: rumori irregolari di cadute profonde,
seguiti da lunghi silenzi. La ferita della miniera si allarga: la
frana, cominciata in basso, si avvicina alla superficie. Una prima
scossa fa tremare il terreno, seguita da una seconda. Da quel momento
il suolo non smette di tremare: un susseguirsi di scosse, cedimenti
sotterranei, boati di vulcani, e infine un’ultima convulsione.
L’alta ciminiera crolla in blocco, bevuta dalla terra come un cero
colossale. Tutta la miniera sprofonda in un lago d’acqua melmosa:
mentre i cavalli, chiusi nelle stalle sotterranee, impazziscono con
nitriti furibondi.
Nel pozzo rimane
Étienne, insieme a una ragazza, Catherine Maheu, che egli ama di un
amore contrastato. La lampada si spezza. Sopra di loro, scende la
notte assoluta. Entrambi accusano ronzii alle orecchie: sentono i
rintocchi furiosi di una campana a martello, il galoppo interminabile
di una mandria sotto un rovescio di grandine. Étienne avvinghia
Catherine e la possiede: «Quella fu finalmente la loro notte di
nozze, in fondo a quella tomba, su quel letto di melma, per
l’ostinato bisogno di vivere un’ultima volta». Catherine muore.
Étienne viene salvato e portato in alto, alla luce del sole. Come i
grandi romanzi romantici, Germinal conosce il proprio senso ultimo
nella fusione di Eros e Thanatos, amore e morte.
Il titolo del
bellissimo libro indica il settimo mese, Germinal, nel calendario
della rivoluzione francese: dal marzo all’aprile. Al tempo stesso,
annuncia il ritorno e la vittoria della primavera: la nascita, la
vita, la germinazione. Tutte le cose germinano: anche ciò che è
morto, o non è mai esistito: persino Catherine annegata in fondo al
pozzo; eppure esse sono nere, come l’eterna notte senza stelle che
apre il romanzo. I libri di Zola sono sempre così: realistici e
onirici, razionali e mistici, riuniscono disperatamente e
trionfalmente gli estremi dell’universo.
Il Corriere della sera –
21 gennaio 2016