domenica 31 gennaio 2016

''Si può ancora parlare di sinistra oggi?''



Lunedì 1 febbraio 2016
alle ore 20.45
presso la S.O.M.S. “Abba” di Cairo Montenotte (SV)

''Si può ancora parlare di sinistra oggi?''
Primo incontro del seminario tematico organizzato dalla associazione INTRABORMIDA

Relatore Giorgio Amico
Moderatore Giovanni Moreno


Rosa Fenoglio

Si può ancora parlare di sinistra oggi?” Riflessione collettiva interrogando la politica

“Libertà e eguaglianza sono termini concettualmente e assiologicamente molto diversi anche se spesso ideologicamente congiunti” scriveva Norberto Bobbio nel 1995. La riflessione del grandissimo (anche se attualmente quasi dimenticato) filosofo torinese presente nell’opera “Libertà e uguaglianza” è mossa dalla volontà di pensare i concetti e le parole che utilizziamo, mettendoli in discussione e dimostrando come spesso non corrispondano ai significato che attribuiamo loro.

Il ciclo di seminari tematici “Eredità e attualità delle ideologie” organizzate dal consigliere comunale Giovanni Moreno, portavoce di Intrabormida, si pone sulla medesima linea di riflessione e di autoriflessione. Il primo appuntamento “Si può ancora parlare di sinistra oggi?”, tenuto da Giorgio Amico si terrà lunedì primo febbraio alle 20.45, presso la S.O.M.S. di Cairo, indirizzato specificatamente ai giovani, si pone l’obiettivo di ripensare la “sinistra”, come termine e come concetto.

«La scelta della S.O.M.S. come luogo di dibattito non è casuale: vogliamo ricordare l’importanza che le società operaie hanno avuto durante il secolo scorso e la loro funzione di officine di quei fermenti che hanno portato al consolidamento delle ideologie politiche che saranno argomento di discussione nei seminari» Il dibattito, spiega Amico : «Sarà semplice, finalizzato alla riflessione. Non verranno fornite ricette, ma chiavi di lettura per ripensare e rivedere alcuni concetti»

Alla riflessione storica si sovrapporrà un’analisi della contemporaneità per riconsiderare termini cardine del pensiero di sinistra come la solidarietà, il pacifismo e il ruolo dei governanti. «Verrà riconsiderata la posizione gramsciana secondo la quale il governo del paese sarebbe stato a portata di ogni cuoca» riprende Amico e continua: «Personalmente non  condivido la posizione né allora né oggi. In un mondo ogni giorno più complicato la capacità e la preparazione sono sempre più necessari. Anche la questione dell’immigrazione verrà problematizzata: non sono ammissibili, infatti, sia le posizioni razziste e inumane, ma neanche il semplice buonismo».

    Salone della Società Operaia "Abba"

La parola “sinistra” ha ancora senso? Massimo Cacciari da trent’anni sostiene di no. In una recente intervista a “Repubblica” dichiara: “A me hanno insegnato che una parola ha senso all’interno di una frase, non da sola. Sinistra era una parola della fase keynesiana, democratico-antifascista, che non ci serve più, non ci sono più i fascisti , siamo tutti democratici. Se insisto a dire sinistra, mi porto dietro una “dicotomia” che è segnata dalla storia, mi ancora a un passato.   

Giorgio Amico si ricollega, invece, alla posizione di Bobbio, associando alla destra e alla sinistra il concetti di “Io” e “Noi”, rispettivamente legati a sistemi politici liberisti o socialisti. La libertà indicherebbe uno stato individuale che non richiede altro per sussistere mentre l’eguaglianza è un concetto di relazione, che acquista senso solo posto insieme ad altre entità. “X è libero” è una frase che esprime un significato; “X è eguale” no. Dichiara Agosto: «Naturalmente è necessario rivedere le posizioni e i termini per reimpostare i problemi, ma continuo a credere che la differenza tra un sistema fondato sull’Io o sul Noi rimanga, ancora oggi, un discrimine politico e culturale fortissimo».

I prossimi appuntamenti, che verranno segnalati e approfonditi, si svolgeranno lunedì 22 febbraio con l’incontro “I cattolici e la questione politica” (relatore: Nico Cassanello) e lunedì 7 marzo si svolgerà il tema “Federalismo: storia di un’utopia” (relatore: Guido Araldo).

Carta Bianca – 04/2016 - 26 gennaio 2016


martedì 26 gennaio 2016

L'assalto al cielo dei figli di nessuno. Autonomia Operaia a Varese



Un libro ricostruisce la storia dell'Autonomia Operaia a Varese. Dal rifiuto del lavoro ai centri sociali autogestiti la parabola di un movimento che tentò l'assalto al cielo.

Gigi Roggero

Diventare figli di nessuno



Leggere l’insieme attraverso il particolare: è uno dei grandi meriti di Sergio Bianchi con Figli di nessuno. È la «storia di un movimento autonomo» in un’area territoriale tra Milano e Varese (Tradate, Venegono, Castiglione Olona). Una provincia metropolitana, tra gli anni Sessanta e Novanta investita dalle lotte e dai profondi mutamenti produttivi e della composizione di classe: dalla fabbrica alla fabbrica diffusa, dall’operaio massa all’operaio sociale, fino ai lavoratori autonomi e precari. In questo contesto negli anni Settanta nasce l’esperienza dei collettivi autonomi, raccontata e analizzata attraverso testi, testimonianze e corrispondenze.

Sono figli di nessuno, non hanno legami di parentela con la sinistra e segnano una cesura con i gruppi. E sono protagonisti di uno scontro generazionale materialisticamente interpretato: la trasformazione della soggettività di classe si manifesta anche in conflitto tra padri e figli, figure sociali divise dal rapporto con il lavoro, dall’accesso ai consumi e alla scolarizzazione di massa. I giovani si rivoltano ai genitori, alla fatica della fabbrica e al ricatto del lavoro, alla rinuncia della libertà in cambio delle garanzie dello sfruttamento. E si contrappongono alle istituzioni tradizionali, dai partiti alla chiesa, dalla fabbrica alla scuola.

La teoria delle «due società» è perciò una mistificazione, quelli che il PCI considerava soggetti marginali costituivano il vettore di una nuova composizione politica di classe, portatrice di nuovi comportamenti, bisogni e possibilità di antagonismo. Era la «prima società» a scivolare nella marginalità politica della mera resistenza. Il rifiuto del lavoro, dunque, si incarnava in una ricchezza di cooperazione sovversiva non più contenibile nell’involucro etico di una società definitivamente rotta.



Questi figli di nessuno della provincia, spesso immigrati di seconda generazione, erano gli operai della fabbrica sociale, si aggregavano nei bar e nelle piazze, volevano appropriarsi della ricchezza prodotta e di spazi di autonomia. Così nasce l’esperienza del Cantinone a Tradate, centro sociale occupato a metà anni Settanta: qui l’espressione culturale si radica nella condizione materiale, anche il teatro vive dentro e contro la fabbrica diffusa. Il proletariato giovanile si ricompone infatti a livello territoriale, sceglie i punti di attacco, conquista tempi e luoghi della rottura. Il capitale lo insegue per frammentarlo e metterlo a valore individualmente, l’operaio sociale tenta di sfuggirgli e aggredirlo dove è più forte.

Con estremo rigore analitico, i testi discutono i punti di avanzamento e di blocco, tra lo sviluppo dei processi di organizzazione autonoma e l’affacciarsi della lotta armata. Alla fine degli anni Settanta ci sarà il carcere, riattraversato con le corrispondenze e Gli invisibili. E ci sarà l’eroina, devastante soprattutto in aree di provincia, che penetrerà nelle contraddizioni soggettive della composizione di movimento: «Sergio Bologna, a tempo debito, l’aveva detto esplicitamente: se si teorizza a fondamento della liberazione il desiderio di per sé, disancorato dai processi di liberazione che devono segnare passaggi materiali, è inevitabile finire in una certa direzione».



Arriviamo così agli anni Ottanta e Novanta: la sconfitta non si spiega solo con la repressione, ma innanzitutto con l’innovazione. Il lavoro indipendente, nella morsa tra scelta e necessità, mantiene nella propria origine il rifiuto del lavoro di fabbrica, ma lo rimodella dentro il riflusso nel privato e nell’individualismo. L’ambivalenza diventa schizofrenia, ricomposta dal capitale nella forma dell’autosfruttamento. Ecco le «identità smarrite», analizzate in un fondamentale testo del 1993. Nelle trasformazioni della composizione di classe e sociale si colloca il fenomeno leghista, nella ricostruzione di un’identità per quei frammenti. Qui la soggettività antagonista si arrocca e scivola nella marginalità abbandonando il tema della composizione di classe, mentre proprio nella sua comprensione si radica il primo progetto leghista, come quello salviniano è basato sulle trasformazioni della crisi. Dall’autonomia all’autonomismo, la composizione politica si ribalta di segno.

In questo passaggio i centri sociali sono luoghi di resistenza, però nella crisi politica molti tornano sotto il tetto del cadavere putrescente della sinistra: «Spesso, all’impegno dell’autoproduzione fa da presupposto motivazionale una concezione volontaristica, miserabilista, populista, moralista, un’attrazione fatale per le tematiche riferite ai poveri, ai disperati, agli emarginati ecc. È stupefacente questo riemergere di concezioni “terzomondiste”, retroterra di un agire che rischia una comunione oggettiva di intenti, e una competizione soggettiva impossibile da sostenere, con il volontarismo cattolico». Parole del 1995, sembrano pronunciate oggi.

Insomma, il passaggio all’operaio sociale resta il nodo irrisolto, da qui dobbiamo ripartire per andare in un’altra direzione: riappropriarci di una storia lunga, ripercorrerla nelle sue vittorie e nelle sue sconfitte come fa Bianchi, non vuol dire ricavare la propria identità da padri e madri più o meno immaginari. L’autonomia dei figli di nessuno è piena di genealogia sovversiva, un’eredità da utilizzare e non un testamento notarile da esibire. Ecco perché ripensare quella storia ci fornisce delle indicazioni decisive sulla nuova curva da intraprendere, sugli errori da non ripetere, sulle rotture da conquistare.

Sergio Bianchi
Figli di nessuno. Storia di un movimento autonomo
Milieu, 2015
14,90


https://www.alfabeta2.it/

lunedì 25 gennaio 2016

Dissidenti americani: Dalton Trumbo, il fantasma di Hollywood



Un libro e un film rivalutano la figura di Dalton Trumbo,  lo sceneggiatore perseguitato nell'America degli anni 50' e costretto a scrivere sotto pseudonimo.

Mirella Serri

Il fantasma di Hollywood



Deborah Kerr, con l’aria paciosa e i capelli cotonati, nella notte degli Oscar del 1957, proclama vincitore il film La più grande corrida per il miglior soggetto originale di cui è autore Robert Rich. L’attrice rimane però interdetta: sul palco non appare nessuno a ritirare l’ambita statuetta per quella pellicola di gran successo. Il giorno dopo domina le prime pagine la discussione sul «mistero-Rich». I produttori negano di aver mai incontrato quello sceneggiatore-fantasma che ha lavorato senza contatti diretti con loro.

Il mistero di Mr. Rich

Lo strano caso di mister Rich è destinato a ripetersi di frequente e nell’America degli Anni Cinquanta proliferano gli scrittori cinematografici senza identità né volto: La legge del Signore, il bel lavoro di William Wyler, appare privo del nome dello sceneggiatore nei titoli di coda; Pierre Boulle viene incoronato dall’Oscar per l’adattamento per lo schermo del suo libro, Il ponte sul fiume Kwai, ma è noto che a confezionare il testo non è stato il narratore francese digiuno della lingua inglese. A chi appartengono tutte queste penne senza nome?

Carl Foreman e Michael Wilson sono in realtà gli autori del famosissimo «Ponte» di David Lean, la scrittura della Legge del Signore è sempre di Wilson, Rich è lo pseudonimo dietro cui si nasconde Dalton Trumbo. Che peraltro ha avuto l’Oscar anche per il soggetto del meraviglioso Vacanze romane, con Gregory Peck e Audrey Hepburn, siglato però con un altro nom de plume, Ian McLellan Hunter.

A raccontarci la vera storia di Trumbo, una delle più pagate e ricercate firme di Hollywood, è il saggista Bruce Cook ne L’ultima parola (in uscita da Rizzoli ). La biografia ha ispirato il film Trumbo che, diretto da Jay Roach e interpretato da Brian Cranston, Diane Lane, Helen Mirren e John Goodman, sarà nelle sale italiane a partire dall’11 febbraio. Nella pellicola viene ricostruita l’avventurosa vicenda dei cosiddetti Hollywood Ten, ovvero dei dieci attori, scrittori, produttori, registi - di cui Trumbo è uno degli esponenti di maggior spicco - i quali a partire dal 1947 rientrano nella blacklist della commissione maccartista incaricata di indagare sulle attività antiamericane.

In epoca di caccia alle streghe e di guerra fredda, con il globo diviso tra America e impero del male, questi uomini di spettacolo si rifiutano di compiere opera di delazione nei confronti dei loro colleghi. Chi collabora, come Jack L.Warner, capo della Warner Brothers, Gary Cooper, Robert Montgomery, Ronald Reagan (futuro presidente degli States) e Robert Taylor, viene scagionato. Chi si sottrae, invece, ha davanti il carcere: tra gli accusati, insieme ai magnifici dieci, c’è anche Bertolt Brecht che ribatte alle accuse in maniera così convincente da sfuggire alla citazione per vilipendio al Congresso. Poi però scappa subito dagli Usa per approdare nella Germania dell’Est, finendo dalla padella nella brace.



Nella lista nera

Trumbo è arrivato nel paradiso degli Studios facendo la gavetta. Intollerante, gran bevitore, non è uno dei tanti «comunisti da piscina», come vengono chiamati gli esponenti dell’intellighenzia di sinistra. Ha lavorato tutte le notti come panettiere crollando con la testa sui libri della University of Southern California, ha sfondato come reporter per il Grand Junction Sentinel, il quotidiano della sua città, e poi ha avuto successo a Hollywood.

Quando la commissione lo interroga sui suoi legami con il Partito comunista, si appella al diritto di non rispondere: in aula al suo fianco vi sono Humphrey Bogart, Lauren Bacall, Gene Kelly, John Garfield e John Huston. Ma il sostegno delle grandi star non basta. Viene condannato a 11 mesi di galera. Dalton è accompagnato dai suoi estimatori come un eroe ai cancelli del penitenziario federale di Ashland, Kentucky. Ma quando esce la propaganda contro i sovversivi ha convinto gran parte della pubblica opinione che è un «losco traditore» assieme a tutta la sua famiglia. Le porte di Hollywood per lui sono sbarrate.

È costretto a rifugiarsi in Messico dove, offrendo le sue prestazioni in nero e nel più completo anonimato, produce addirittura più di trenta copioni. Ma nel 1960 il regista Otto Preminger compie un gesto eclatante: rivela che Trumbo è stato incaricato della sceneggiatura di Exodus, tratto dal romanzo di Leon Uris che prende il nome dalla nave che nel 1947 porta in Israele un numeroso gruppo di immigranti. Il desiderio di verità e di giustizia si sta facendo strada: Kirk Douglas rende noto che Spartacus, con la regia di Stanley Kubrick, ha avuto origine dalla magia di Trumbo. La reazione degli attivisti non si fa attendere: gruppi di manifestanti anticomunisti organizzano picchetti in tutti gli States per impedire l’ingresso nelle sale dove viene proiettata la pellicola.



L’apprezzamento di JFK

Il clima però sta cambiando e non c’è più spazio per gli adepti di Joseph McCarthy. A dare la spallata definitiva ai fanatismi è il neoeletto John F. Kennedy: superando gli sbarramenti entra in un cinema di Washington dove si proietta Spartacus. «Un bel film», commenta all’uscita. Il suo giudizio pone fine a tutte le ostilità. Da quel momento Trumbo è riaccolto nella Mecca del cinema e può riprendere apertamente la penna in mano. Ultima sceneggiatura, prima della sua scomparsa nel 1976, sarà Papillon in cui presta pure il suo volto ad un arcigno ufficiale. Lo sdoganamento di Trumbo rappresenta non solo la sua personale riabilitazione ma la fine dell’era della caccia alla streghe e dei fantasmi dello schermo.


La Stampa – 24 gennaio 2016

Pietro Citati, Germinal



Analisi del capolavoro di Zola, Grande romanzo sociale dove il lavoro in miniera diventa metafora della condizione umana.

Pietro Citati

Germinal, l’opera nera. E no



Émile Zola è lo scrittore più popolare della Francia: alla fine del Ventesimo secolo, le collezioni di tascabili hanno venduto venticinque milioni di copie dei suoi romanzi. Nel nostro Paese, invece, Zola è poco letto e poco amato; ed è dunque molto proficua la recente edizione dei Meridiani, che pubblica nove romanzi in tre volumi. Da poco sono usciti Germinal , La terra , La bestia umana , curati in modo eccellente da Pierluigi Pellini e tradotti da Giovanni Bogliolo, Donata Feroldi e Dario Gibelli. Zola cominciò a scrivere Germinal , il più famoso e forse il più bello dei suoi romanzi, nell’aprile 1884, dopo aver studiato la questione mineraria, e dopo un viaggio a Valenciennes, il principale modello di Montsou, dove si concentrano le vicende del libro. Un anno più tardi lo pubblicò in quarantamila esemplari: una tiratura alta anche oggi.


In primo luogo, Germinal è un libro nero. La pianura nuda è dominata da una notte senza stelle, illuminata dai rari fuochi azzurri degli altiforni e da quelli rossi dei forni a coke: essa è spazzata da una tramontana gelida con grandi soffi che si succedono regolari come colpi di falce; oppure bagnata dalla pioggia che scende lenta, cancellando ogni cosa in fondo al suo monotono picchiettio. La notte seppellisce la terra come un sudario. Si moltiplica nel cuore della miniera, ispessita dalla polvere di carbone sospesa nell’aria, e appesantita dai gas che gravano sugli occhi dei minatori. 



Sentiamo un rumore sordo, che sembra provenire dalle viscere della terra, e che nasce dallo sfiatatoio della grande pompa: un respiro lungo, greve, incessante, simile all’ansimare strozzato del mondo. Tutto, la notte, la miniera, il respiro dello sfiatatoio, è tenebra; e questa tenebra non è un’assenza di colore, ma, come diceva Huysmans, il colore supremo, la molteplicità di tutti i colori, che occupa in modo stabile la mente di Zola.

La miniera è accucciata in fondo a un avvallamento: con edifici tozzi di mattoni e una ciminiera alta trenta metri, ritta come un cono minaccioso. Il suo aspetto è malvagio: sembra una bestia ingorda, un mostro accoccolato per divorare la gente. Zola si sforza di descriverla: insiste, ripete, insiste ancora, fallisce; finché, secondo la profonda inclinazione della sua natura, parla, con una specie di religioso tremore, di un «tabernacolo», in cui si nasconde, accucciato e satollo, il dio al quale tutti i minatori e tutti gli uomini offrono la propria carne.

Questo dio è inanimato: è una cosa nella sua essenza profonda: ma subito diventa animalesco; il pozzo inghiotte gli uomini a bocconi di venti o trenta per volta, e li manda giù per la gola, come se non li sentisse nemmeno passare. Ciò che è animalesco diventa umano: i cavalli, che stanno chiusi in fondo alla miniera e non risalgono mai alla luce, rivedono con la mente il mulino dove sono nati, continuamente battuto dal vento, e fanno inutili sforzi per ricordare l’infanzia. Intanto la pompa della miniera continua a soffiare con lo stesso respiro lungo e greve: il respiro di un orco umano che nulla può saziare.



Passando dal simbolo alla realtà, Zola descrive gli uomini che affollano la pianura di Montsou. Essi non sono, in realtà, uomini, ma insetti o spettri. In fondo alla miniera, si agitano forme fantomatiche, lasciando intravedere un’anca, un braccio nodoso, una faccia rabbiosa, imbrattata di polvere di carbone come per commettere meglio un delitto. Essi sudano: ansimano: le giunture dei corpi scricchiolano, ma senza un lamento, con l’indifferenza dell’abitudine, come se vivere così piegati fosse il destino comune di tutti gli uomini. Si spogliano: scavano la roccia: si intridono di fanghiglia nera fino al capo; come talpe in fondo a una tana, sotto il peso della terra, senza più fiato nei corpi arroventati.

Quando la Compagnia mineraria aggrava le loro condizioni di vita, i minatori entrano in sciopero. I borghesi trovano divertente lo sciopero: ma, in fondo alla loro allegria forzata, c’è una sorda paura, tradita da occhiate involontarie. Sul piazzale della miniera grava un pesante silenzio: quella di Montsou è una fabbrica morta: i grandi cantieri sono vuoti; nel cielo di dicembre, tre o quattro vagoni abbandonati hanno la muta tristezza delle cose dimenticate. In questo momento, alla tradizionale disciplina dei minatori si aggiunge un orgoglio da soldati: gente fiera del proprio mestiere, che dalla lotta quotidiana contro la morte ha appreso l’esaltazione del sacrificio.

Tra i minatori di Montsou, giungono estranei. Étienne Lantier, che viene dalla città, appare in altri volumi dei Rougon-Macquart , il grande ciclo di Zola. Egli non tollera i doni della Compagnia: detesta i borghesi: non vuole farsi ridurre come una bestia accecata e schiacciata; ma immagina una rigenerazione universale di popoli senza una goccia di sangue. Suvarin è un anarchico, che viene da Pietroburgo. «Piantatela — grida — con la vostra evoluzione! Appiccate il fuoco ai quattro angoli della terra, sterminate i popoli, radete al suolo tutto quanto. Quando non resterà più niente di questo mondo, allora forse ne nascerà uno migliore. Lo volete capire? Bisogna distruggere tutto. Sì, l’anarchia. Più niente. La terra lavata dal sangue, purificata dall’incendio...!».



Lo sciopero si estende e diventa violento. Quando i minatori arrivano al pozzo di Gaston-Marie, duemilacinquecento forsennati spaccano e spazzano via tutto, con la forza impetuosa di un torrente in piena. Ribaltano i fornelli, svuotano le caldaie, devastano gli edifici. Si gettano sopra la pompa, come se fosse una persona a cui vogliono togliere la vita: la massacrano a colpi di mattoni e sbarre di ferro. Allora l’acqua comincia a sgorgare. Quando esce completamente, un ultimo gorgoglio sembra il singulto di un agonizzante. Lo sciopero dura due mesi. La rabbia, la fame, le scorribande trasformano i placidi volti dei minatori di Montsou in fauci di bestie feroci. I raggi del sole al tramonto insanguinano la pianura. Il nero del libro diventa rosso, scarlatto, accrescendo la propria violenza tenebrosa. I minatori si chiudono in casa, in preda alla fame e alla ostinazione passiva. La loro forza cieca divora sé stessa.

Intanto Suvarin è sempre più assorbito in un’idea fissa, che sembra brillare come un chiodo d’acciaio in fondo ai suoi occhi chiari. Egli sabota la miniera. Poi si allontana senza guardarsi alle spalle nella notte tenebrosa: con la sua aria tranquilla, va verso lo sterminio, dovunque ci sia dinamite per far saltare uomini e città.

Sottoterra, scorre il Torrente, un mare inesplicato, con le sue tempeste e i suoi naufragi, che agita i propri flutti neri a trecento metri dalla luce del sole. La miniera si riempie d’acqua. La grande pompa ansimante non riesce a smaltirla. Il rivestimento del pozzo si stacca. In alto si sente una serie di sorde detonazioni: tavole di legno si fendono e si schiantano in mezzo al continuo e crescente frastuono del diluvio. Si sentono bruschi rimbombi: rumori irregolari di cadute profonde, seguiti da lunghi silenzi. La ferita della miniera si allarga: la frana, cominciata in basso, si avvicina alla superficie. Una prima scossa fa tremare il terreno, seguita da una seconda. Da quel momento il suolo non smette di tremare: un susseguirsi di scosse, cedimenti sotterranei, boati di vulcani, e infine un’ultima convulsione. L’alta ciminiera crolla in blocco, bevuta dalla terra come un cero colossale. Tutta la miniera sprofonda in un lago d’acqua melmosa: mentre i cavalli, chiusi nelle stalle sotterranee, impazziscono con nitriti furibondi.



Nel pozzo rimane Étienne, insieme a una ragazza, Catherine Maheu, che egli ama di un amore contrastato. La lampada si spezza. Sopra di loro, scende la notte assoluta. Entrambi accusano ronzii alle orecchie: sentono i rintocchi furiosi di una campana a martello, il galoppo interminabile di una mandria sotto un rovescio di grandine. Étienne avvinghia Catherine e la possiede: «Quella fu finalmente la loro notte di nozze, in fondo a quella tomba, su quel letto di melma, per l’ostinato bisogno di vivere un’ultima volta». Catherine muore. Étienne viene salvato e portato in alto, alla luce del sole. Come i grandi romanzi romantici, Germinal conosce il proprio senso ultimo nella fusione di Eros e Thanatos, amore e morte.

Il titolo del bellissimo libro indica il settimo mese, Germinal, nel calendario della rivoluzione francese: dal marzo all’aprile. Al tempo stesso, annuncia il ritorno e la vittoria della primavera: la nascita, la vita, la germinazione. Tutte le cose germinano: anche ciò che è morto, o non è mai esistito: persino Catherine annegata in fondo al pozzo; eppure esse sono nere, come l’eterna notte senza stelle che apre il romanzo. I libri di Zola sono sempre così: realistici e onirici, razionali e mistici, riuniscono disperatamente e trionfalmente gli estremi dell’universo.


Il Corriere della sera – 21 gennaio 2016

Sport e Shoah



Il comune destino degli ungheresi Istvan Toth e Geza Kertesz. Costruirono una rete clandestina per salvare gli ebrei, diventarono allenatori in Italia, tornati in patria furono fucilati nel '45.


Pasquale Coccia

Sport e Shoah


Gottfried Fuchs e Jiulius Hirsch furono gli unici calciatori ebrei a vestire la maglia della nazionale tedesca, primato che detengono ancor oggi. Amici per la pelle in campo e fuori, furono segnati da un diverso destino. Il primo, una mezzala in grado di trasformarsi in un veloce attaccante e mettere la palla in rete, passò alla storia del calcio alle olimpiadi di Stoccolma del 1912, quando con la nazionale tedesca in una sola partita realizzò dieci dei sedici gol che la Germania inflisse alla Russia. Prima che la furia hitleriana si abbattesse sugli ebrei Gottfried Fuchs fuggì in Canada, dove visse fino al 1972. Diversa fu la sorte dell’ala sinistra Julius Hirsc. Convinto che la persecuzione degli ebrei fosse passeggera rimase in Germania, ma per lui non ci fu scampo, fu deportato ad Auschwitz dove morì nel maggio del 1945.

Ebbero destini comuni fino alla morte Istvan Toth e Geza Kertesz, due calciatori ungheresi, poi allenatori in Italia, che aiutarono gli ebrei e mettersi in salvo attraverso una rete clandestina cui avevano dato vita. Come facevano ad aiutare centinaia di ebrei al giorno? Forti del loro perfetto accento tedesco, vestiti da ufficiali delle SS li prelevavano direttamente dal ghetto di Budapest. Toth e Kertesz furono due calciatori che da giovanissimi giocarono nel Btc Budapesti, una delle più forti compagini del campionato magiaro.

Toth, il più forte tra i due esordì in nazionale a soli 18 anni in, Ungheria-Inghilterra, 4 a 2 a favore degli inglesi. Toth e Kertesz, giocarono insieme per tre anni, poi Toth passò nelle file del Ferencvaros. Facevano parte di quella scuola danubiana che si affermò rapidamente e dominò il calcio europeo dagli anni Trenta fino al dopoguerra. Finita la carriera calcistica, Istvan Toth e Geza Kertesz restarono entrambi nel mondo del calcio, intraprendendo la carriera di allenatori, seppero applicare moduli innovativi e vincenti.

Toth al suo primo anno da allenatore alla guida della Ferencvaros, conquistò lo scudetto, un trofeo che mancava da ben tredici anni, e l’anno successivo la Coppa dell’Europa centrale, rispondente all’attuale Champions. A 40 anni Istvan Toth era sul tetto d’Europa, l’allenatore più conosciuto per gli allenamenti e i moduli tattici rivoluzionari che aveva saputo introdurre nel calcio, non solo era un grande motivatore, contava sulla forza del gruppo, ma per la prima volta ogni calciatore aveva una sua scheda di allenamento con i punti forti e deboli da curare.

Nell’estate del 1931 per Istvan Toth arrivò la chiamata dall’Inter. I nerazzurri l’anno precedente avevano vinto lo scudetto sotto la guida di un altro grande allenatore ungherese, Arpad Weisz, che aveva lasciato i campioni d’Italia per passare al Bologna di Leadro Arpinati, fascista della prima ora e ras della città emiliana, il quale voleva i felsinei scudettati a tutti i costi. I nerazzurri avevano nelle proprie file Giuseppe Meazza, che appena ventenne era stato lanciato nella massima serie proprio da Arpad Weisz.

Quell’anno l’Inter concluse il campionato al sesto posto, una delusione per le aspettative dei nerazzurri, a Toth non restò altro che raggiungere l’Ungheria per allenare altre squadre. Diverso il percorso da allenatore di Geza Kertesz, che fece una carriera tutta italiana. Alla guida dello Spezia portò la squadra ligure al passaggio di categoria, passò alla Carrarese che condusse in serie B, fu allenatore del Viareggio e della Salernitana. A fargli una corte spietata e a non badare a spese fu il barone Enrico Talamo, proprietario del Catanzaro, Geza Kertesz al termine del campionato 1932–33, portò la squadra calabrese in serie B, dopo aver vinto gli spareggi contro il Napoli e il Perugia, mai una squadra calabrese aveva conquistato un risultato del genere. Kertezs divenne un eroe popolare, ma l’affetto della gente di Catanzaro non lo trattenne. L’allenatore magiaro era un animo irrequieto e dopo il successo calabrese, passò in Sicilia dove prese ad allenare il Catania, anche qui Kertesz replicò il successo ottenuto l’anno prima a Catanzaro.

La squadra etnea non aveva mai raggiunto la serie B, dopo il successo la piazza si riscaldò e voleva la serie A, la squadra siciliana acquistò Biavati, futuro campione del mondo nel ’34, ma concluse il campionato di B al terzo posto. A reclamare l’allenatore magiaro fu il Taranto, Kertesz alla guida della squadra pugliese conquistò per l’ennesimo anno la serie B, ormai era considerato un esperto di promozioni. Intanto aveva rifatto capolino in Italia il suo amico Toth, il quale allenò la Triestina, dove lanciò Gino Colaussi, che vinse i mondiali di Francia nel 1938, ma i risultati furono deludenti, mentre Kertesz approdò in serie A alla Lazio, piazzandosi al quarto posto nel campionato 1939–40.

L’anno successivo all’euforia seguirono risultati deludenti, alla sesta giornata di campionato Kertesz fu esonerato, allenò anche la Roma l’anno dopo quello dello scudetto del 1939–40. L’aria si era fatta pesante, l‘Italia era in guerra, Kertesz tornò a Budapest. Dopo l’invasione di Hitler, organizzò con Toth una rete per salvare ebrei e oppositori politici, Kertesz parlava perfettamente il tedesco e vestito da ufficiale SS andava nel ghetto a prelevarli per metterli in salvo. La rete di resistenza durò un anno, fino a quando una spia denunciò i due allenatori, la Gestapo li fucilò il 6 febbraio del 1945, il 13 febbraio Budapest fu liberata.



il manifesto – 23 gennaio 2016

domenica 24 gennaio 2016

Un altro modo di stare nella metropoli. i 40 anni del Leoncavallo



Il centro sociale Leoncavallo di Milano sta festeggiando in queste settimane i quarant’anni dalla prima occupazione al Casoretto. Lo fa con concerti ed eventi culturali. Con la pubblicazione di un libro ricco di fotografie e testimonianze storiche. E con un incontro nazionale – che si svolgerà negli attuali spazi di via Watteau sabato 30 e domenica 31 gennaio 2016 – dal titolo «Democrazia, reddito, ecologia. Siamo il sangue nuovo nelle arterie della metropoli». Anticipiamo qui una sintesi dell’invito.

Centro Sociale Autogestito Leoncavallo

I nostri primi quarant'anni...

A partire dai festeggiamenti per «i nostri primi quarant’anni», vorremmo proporre uno sforzo comune che punti a una nuova narrazione condivisa, e non solo alla comunicazione e alla contaminazione delle lotte sociali, ma anche alla loro riproducibilità nella prospettiva della costruzione di quel potere dei «molti», oggi più che mai necessario ad aprire spazi reali per l’alternativa.

Nel nostro immaginario, se siamo capaci di non ridurle a icone ideologiche o a modellini, le esperienze della Rojava — le regioni autonome del Kurdistan siriano che sono riuscite a liberarsi confliggendo con la barbarie fondamentalista — e di metropoli come Barcellona e Madrid – dove, a partire dalle lotte contro austerity e corruzione e per il diritto all’abitare, inedite coalizioni municipaliste hanno vinto le elezioni e governano le città — viaggiano insieme. In queste concrete esperienze, e nelle loro profonde differenze, ritroviamo la medesima tensione all’autogoverno delle comunità, alla sperimentazione di pratiche realmente democratiche, in una cornice in cui autonomia e cooperazione sociale, vecchi e nuovi diritti sociali, ecologia e femminismo si alimentano vicendevolmente.



Un nuovo mutualismo

La metropoli è «fabbrica sociale», comandata dalle funzioni della finanza, dai dispositivi del credito e del debito. Qui i meccanismi prevalenti di estrazione del valore prodotto dalla cooperazione sociale sono quelli della rendita e della speculazione. Nello stesso tempo, la metropoli è anche fabbrica di soggettività altra, spazio di iniziativa, di resistenza e autovalorizzazione tra chi coopera. Da qui la proliferazione di figure nuove nella composizione sociale del lavoro, figure che attraversano e fanno vivere quotidianamente i nostri spazi: precari, intermittenti, autonomi di seconda e terza generazione, micro-imprenditori, cooperatori.

In questo panorama il vecchio schema del rapporto sindacato/lavoratori, basato su vertenzialità ed erogazione di servizi, seppur necessario, non è più in grado di conquistare un allargamento dei diritti. Oggi, un nuovo «sindacalismo sociale» deve essere incubatore di cooperazione, praticare condivisione democratica delle risorse materiali e immateriali, deve far evolvere il mutualismo in una macchina di produzione di diritti, ricchezza e trasformazione sociale. E in questo processo riconoscere e inventare le forme nuove e più efficaci del conflitto, che cosa significhi lo «sciopero del XXI secolo». Sindacalizzare gli insindacalizzabli, e socializzare le lotte della solitudine, necessitano prima di tutto punti di incontro.

E, se diamo buono l’assunto che vede gli spazi sociali autogestiti come laboratori del comune, fuori da logiche gruppettare e identitarie, possiamo iniziare finalmente a intravedere un loro sviluppo in «Camere del lavoro» intermittente, precario e autonomo, dispositivi adeguati ai tempi di nuova organizzazione e di conflitto costituente, vettori di trasformazione sociale.



Lo spazio europeo

Lo scenario europeo, ovvero di quello spazio politico che è oggi la scala minima di ogni pensabile possibilità di cambiamento, pare investito da fatti nuovi, di segno diverso, che ne sconvolgono repentinamente il panorama: pensiamo alla pur contradditoria vicenda greca, alla marcia dei migranti lungo la rotta balcanica, alla dialettica tra piazze e urne elettorali nella penisola iberica, ma anche all’irruzione del terrore jihadista e alla logica liberticida dello «stato d’emergenza», alla crescita di nuovi nazionalismi, razzismi e fascismi, all’apparentemente imperturbabile normalizzazione delle politiche di austerità, con il loro corollario di precarizzazione e privatizzazioni.

Vi sono eventi che hanno prodotto rotture positive, sedimentano consapevolezza, diffondono saperi e pratiche trasformative. Ed altri che sembrano precludere ogni strada, negare la possibilità stessa del cambiamento, determinare orrende involuzioni. E lo stesso discorso si potrebbe riprodurre nei singoli territori, dove di fronte alla quotidiana catastrofe del climate change, le lotte ambientali, per i beni comuni (materiali e immateriali), per il diritto alla città determinano significativi risultati locali, accumulano saperi critici e partecipazione attiva.

Tutte queste lotte presentano un minimo comune denominatore che parla di «democrazia» come decisione condivisa dal basso su ciò che è comune; di «reddito», diretto e indiretto, come leva redistributiva adeguata a combattere l’insostenibile crescita di diseguaglianze e povertà; di «ecologia», ambientale e sociale, come necessità immediata per rovesciare la catastrofe climatica in occasione di cambiamento radicale. Tre grandi temi che potremmo definire «glocal», capaci cioè di tenere assieme dimensione locale e transnazionale, istanze comunitarie e di classe, singolarità e moltitudine.

    La prima sede (foto di Alberto Cane)

Oltre la rappresentanza

Se guardiamo alle tante esperienze dal basso che, nelle metropoli e nei territori d’Europa, cercano di trasformare l’esistente costruendo coalizioni inedite che promuovono conflitto e partecipazione, e mettono in comunicazione movimenti sociali e realtà associative, forze sindacali e politiche, proponendo e praticando direttamente soluzioni di governo e amministrazione locale, possiamo iniziare a intravedere nuovi dispositivi politici, che vanno oltre il classico rapporto tra movimenti e partiti, fuori dalla logica della rappresentanza. Un movimento reale, che abbia l’ambizione di cambiare lo stato di cose presenti, deve essere in grado di pensare la complessità e di agire simultaneamente su tutti questi diversi piani.

Vorremmo provare a farlo, confrontandoci con altre esperienze che cercano di fare del proprio territorio metropolitano le «città del cambiamento» e cominciando a scrivere, insieme a loro, la bozza di «una carta per l’Europa», nuova e altra da quel panorama di rovine che gli interessi di pochi ci stanno consegnando.


Il Manifesto – 13 gennaio 2016

Televisione e Shoah. Il processo Eichmann in diretta



Il ruolo storico della tv nel «processo del secolo»: le dirette sul gerarca nazista fecero capire al mondo gli orrori della Shoah. Un film ricostruisce quel momento.


Aldo Grasso

The Eichmann Show



Che ruolo hanno avuto la radio e la tv sulla comprensione della Shoah, in Israele e nel mondo? Per molti israeliani il processo Eichmann (aprile 1961), le cui udienze furono trasmesse in diretta, fu il primo contatto ravvicinato con l’Olocausto. In precedenza il loro approccio era stato caratterizzato da una incomprensione di fondo sull’ampiezza della tragedia e sulla terribile esperienza vissuta dai superstiti. Quell’evento, raccontato per la prima volta dalla tv, rappresentò una svolta nella memoria collettiva.

Il processo ad Adolf Eichmann fu un momento drammatico per Israele e non solo. Basti pensare ai resoconti che Hannah Arendt scrisse per il New Yorker (raccolti poi nel libro La banalità del male ) dove si sosteneva la «terribile normalità» della burocrazia nazista, capace di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto in nome di una cieca obbedienza. Il Male che Eichmann incarnava appariva alla Arendt «banale», e perciò tanto più terribile, perché i suoi servitori erano grigi impiegati.

Il film The Eichmann Show racconta appunto il ruolo che la tv ebbe nell’elevare questo processo a una sorta di presa di coscienza collettiva (è anche un piccolo trattato sulle riprese tv). Merito del produttore televisivo Milton Fruchtman (Martin Freeman), che chiamò Leo Hurwitz (Anthony LaPaglia) per occuparsi delle riprese. Hurwitz, regista molto amato dalla critica e pioniere nell’uso delle telecamere, era finito nella «lista nera» di McCarthy ed era rimasto inattivo per un decennio. Arrivando a Gerusalemme, si trovò per le mani un lavoro fuori dal normale: con l’aiuto di Milton, in tempi ristrettissimi dovette addestrare un team di riprese formato da professionisti inesperti e convincere i giudici a cambiare decisione, permettendo che il processo venisse ripreso.
















Mentre in Israele la trasmissione andava in diretta, per gli altri Paesi fu approntato un sistema di distribuzione di «cassette», con le prime registrazioni fatte attraverso il sistema Ampex, un nastro da due pollici non facile da montare. Ben 37 Paesi (tra cui Usa, Francia, Inghilterra, Australia, Argentina…) vollero mandare in onda quelle registrazioni. Soprattutto in Israele, la tv svolse un ruolo catartico, liberatorio: di fronte allo shock delle immagini, la popolazione si confrontò con se stessa e soprattutto con i sopravvissuti.

I «salvati» non avevano voglia di parlare, non amavano raccontare la loro terribile esperienza, anche perché avevano la sensazione di non essere creduti. Gli scampati alla Shoah si coprivano con la camicia i numeri impressi a fuoco sulle braccia. Si sentivano «ebrei sconfitti» al confronto dei «pionieri» che apparivano invece come «ebrei vincenti». Queste anime così diverse che avevano vissuto la tragedia in maniera tanto dissimile riuscirono in un’aula di tribunale a esprimere insieme, per la prima volta dal 1948, un vero spirito unitario. Ci vollero quelle immagini televisive perché anche gli «altri» cominciassero a credere.

Da allora, la tv, non diversamente dal cinema, ha assunto sempre più la duplice veste di fonte e strumento di narrazione storica. Se il Novecento è stato definito il secolo «della testimonianza», questo si deve alla sempre più massiccia e pervasiva presenza dei mezzi di comunicazione di massa che affiancano, registrano e, talvolta, si pongono al centro della vita politica e culturale delle società tardomoderne. Dal processo Eichmann, la tv diventa il luogo di dispiegamento — reale, simbolico o meramente retorico — dei fatti storici, che non possono sottrarsi all’occhio della pubblica visibilità (sebbene, ovviamente, il mito della visibilità totale lasci fuori ampi coni d’ombra). Le trasmissioni televisive cominciano a incidersi nella memoria collettiva, raggiungendo una grandissima audience, intervenendo direttamente sul contesto in cui la storia stessa si realizza. La tv diventa «agente di storia».



The Eichmann Show ci fa rivivere i quattro mesi del processo e la difficoltà delle riprese, anche dal punto di vista morale. Spesso l’etica (mostrare anche le fasi più noiose del dibattimento) si scontrò con l’estetica: drammatizzare il male attraverso i primi piani dell’imputato. Ma quelle immagini scioccarono il mondo per l’evidente mancanza di rimorso del colpevole. L’80% della popolazione tedesca guardò almeno un’ora del programma ogni settimana. Il processo venne trasmesso su tutte e tre le reti statunitensi, con notiziari quotidiani in altri Paesi. Ci furono persone che svennero guardando il processo in tv. Intanto, in quei mesi, la tv si doveva anche occupare di Yuri Gagarin primo uomo nello spazio, della baia dei Porci, di Alan Shepard, il primo americano in orbita…Quanto alla tv italiana, si celebra il centenario dell’Unità d’Italia e nasce «Tribuna politica».

Oggi, grazie a un accordo tra gli Archivi di Stato Israeliani, lo Yad Vashem di Gerusalemme (il principale museo dedicato al ricordo dell’Olocausto) e Google, molte delle riprese televisive realizzate durante il processo sono visibili su YouTube. Tocca a Internet assumere ora il ruolo che in passato è stato mirabilmente svolto dalla televisione.


Il Corriere della sera – 23 gennaio 2016

Alta Via dei Monti Liguri



L'Alta Via dei Monti Liguri è un sentiero di crinale lungo 430 km che dalla frontiera francese giunge fino alla Toscana attraverso l'intero territorio ligure. Un percorso di montagna che non perde mai il contatto visivo con il mare.

Una esperienza bellissima per chi ama camminare o andare in bici.

L'Alta Via è anche un percorso attrezzato con punti di sosta e accoglienza.

E' ora disponibile la guida onlinewww.altaviainfoh24.com ed il servizio telefonico non stop che risponde al +39.338.16.29.347


sabato 23 gennaio 2016

Arnasco. Se il vero cristiano è il sindaco laico. Grazie, Alfredino!



Stefano Pezzini e Alfredino Galizia sono vecchi e cari amici di Vento largo. Non possiamo dire la stessa cosa di don Angelo Chizzolini, parroco di Arnasco.

Stefano Pezzini

Il parroco di Arnasco non benedice la salma della donna marocchina morta nel crollo di una palazzina

Per don Angelo Chizzolini, parroco di Arnasco, il piccolo paese dell’entroterra di Albenga dove sabato scorso sono morte cinque persone nel crollo di una palazzina per una fuga di gas, le vittime dell’esplosione non sono tutte eguali. Questo pomeriggio, infatti, nella piccola chiesa di Nostra Signora dell’Assunta, dove la comunità si è riunita per i funerali Dino Andrei, 76 anni e di sua moglie Aicha Bellamoudden, 56 anni, due delle cinque vittime, ha pregato e benedetto la salma dell’uomo ma non quella della donna, islamica, in fase di conversione secondo i conoscenti, ma che non aveva ancora abbracciato la fede cattolica.  

Don Angelo Chizzolini è parroco anche a Vendone e Onzo e, proprio in quest’ultimo comune, la scorsa estate era stato protagonista di un altro scivolone. Parlando di migranti, infatti, aveva detto che avrebbe preferito bruciare la canonica piuttosto che aprirla ai profughi. Parole che avevano messo in forte imbarazzo il vescovo di Albenga e Imperia, monsignor Guglielmo Borghetti, già impegnato a mettere ordine in una diocesi scossa da scandali finanziari ed episodi di pedofilia. 

A rimettere le cose a posto, oggi ad Arnasco, è stato il sindaco Alfredino Galizia che, sia in chiesa che al cimitero, ha sottolineato come Aicha fosse, a tutti gli effetti, una cittadina di Arnasco, un “elemento importante di una comunità che da sempre fa dell’accoglienza e dell’integrazione un punto di forza”. 


http://www.lastampa.it/

Cuba. Geografia del desiderio



Venerdì 29 Gennaio dalle ore 17.00 Aperitivo Letterario nella splendida cornice del VELVET di Bordighera, in Via Sant Ampelio 10, con la Presentazione del libro Cuba. Geografia del desiderio alla presenza dell'autore Roberto Vallepiano, con la collaborazione di Corrado Ramella della Libreria Amico Libro.

Un libro che è un insieme di filosofia on the road, di aneddoti, di racconti impetuosi, di pagine incendiarie attraversate da personaggi eroici, pittoreschi, divertenti e colorati, sospesi tra il surrealismo magico latinoamericano e l'epica rivoluzionaria.

Si suddivide in 15 capitoli che, come in un flusso di coscienza, attraversano le città e il cuore di Cuba in una ipotetica carta geografica del sogno, perché la Geografia del desiderio si vive attraversando quella terra indomita in due differenti dimensioni: quella esteriore che ti colma di colori, di profumi e di sapori tutti e cinque i sensi e quella interiore fatta di sensazioni altrettanto dirompenti.

Questo libro è un viaggio di 250 pagine fatto di storia, di sensualità, di evocazioni letterarie e di vita quotidiana. Un viaggio realizzato dall'interno di Cuba che racconta un popolo che è un uragano di scintillante umanità e una rivoluzione che continua ad essere un gioioso falò.


"Cuba. Geografia del desiderio" è stato scelto per chiudere la Settimana di Cultura Cubana al Milano Latin Festival ed è stato menzionato ricevendo prestigiose recensioni da "Le Monde Diplomatique" e il "Granma Internacional".  

martedì 19 gennaio 2016

Bruno Cassaglia alla Galleria Ghiglieri




 Sabato 23 gennaio
alle ore 18 a Finale Ligure

domenica 17 gennaio 2016

Mimmo Lombezzi Fight Club


Circolo degli Artisti
Pozzo Garitta Albisola Marina (SV)

Sabato 23 gennaio 2016 alle 17 inaugurazione della personale di Mimmo Lombezzi.

Mimmo Lombezzi, giornalista, scrittore,  autore e conduttore di programmi televisivi, nonché vignettista, caricaturista, dopo alcuni anni, torna al Circolo degli Artisti per presentare le sue più recenti opere quali sculture, incisioni e disegni.


La mostra si protrarrà fino al 7 febbraio 2016 con apertuta giovedì e venerdì dalle 16 alle 19. Sabato e domenica anche dalle 10 alle 12.



Giorgio Amico

Ritratto (semiserio) dell'artista da giovane


Con Mimmo abbiamo condiviso negli anni del liceo discussioni, amori travolgenti (pochi), vino pessimo che la birra allora non andava di moda, e tanti progetti. ZOT, giornalino (oggi si direbbe fanzine) studentesco di grandi ambizioni, uscito semiclandestinamente per un paio di numeri, è stato uno di questi.

Di Mimmo l'idea, il titolo che riprendeva le strepitose strisce di Johnny Hart, la grafica e le illustrazioni.

ZOT era il sibilo della lingua del simpaticissimo formichiere che implacabile tormentava le formiche sfigate di cui seguivamo le disavventure su Linus. Un modo per dire che la scuola era anche (o forse soprattutto) nostra, che avevamo qualcosa dire e che l'avremmo detto. Per cui, professori in campana, che in qualunque momento ZOT poteva colpire.

Di Mimmo anche un ritratto di Tatti Sanguineti, non ancora grande critico cinematografico, ma già figura mitica ai nostri occhi di liceali per il suo ostinato e pionieristico rifiuto delle convenzioni allora dominanti in merito di bon ton e abbigliamento.

Schizzato su un foglio a quadretti su un tavolo d'osteria e impreziosito da vistose macchie di vino, il ritratto rappresentava un Tatti-Kalì, fornito di ben sei mani intente (a due a due) a grattarsi il capo, esplorare le cavità nasali e strofinarsi le parti intime.

Un'opera tanto apprezzata da restare a lungo esposta a fianco di un poster del Che e del manifesto dell'occupazione di Palazzo Campana sul muro scrostato di una vecchia soffitta per il nostro gruppo di diciottenni vera e propria officina di sogni.







mercoledì 6 gennaio 2016

La Biblioteca di CobrA



LA BIBLIOTHÈQUE DE COBRA

Entr’acte
Via sant’Agnese 19R – Genova
8/1/2016 – 21/1/2016
orario: mercoledì-venerdì 16,00-19,00
inaugurazione: venerdì 8 gennaio 2016, ore 18,00



“Questa raccolta di monografie è destinata a illustrare una nuova tendenza, facendo conoscere alcuni dei suoi rappresentanti più tipici e presentando le principali caratteristiche di ciascun artista. […] Spezzare le cornici artificiali in cui gli Ismi rinchiudono l’arte contemporanea è il principio basilare della tendenza che qui viene presentata. Noi non cerchiamo di combattere le specifiche tendenze contemporanee facendo un miscuglio di vecchie tradizioni in cui il sale perde sapore.

Vogliamo, al contrario, cercare la sintesi del vivente tanto nella forma astratta che nel contenuto reale, approssimarci all’unità sociale dove la personalità si esprime liberamente, creare una società liberata e catturare il sogno surrealista così come i fatti concreti, per fonderli in un realismo romantico. Crediamo che queste aspirazioni, se saranno riprese da altri gruppi, condurranno a un cambiamento di stile e ad una nuova qualità artistica, a una metamorfosi, a quella forma diretta e vera dell’arte che tutti sogniamo, ad un’arte universale, liberata dai dogmi classici e dai tabù delle regole formaliste, ad un’arte umana”.


Con questa premessa Christian Dotremont e Asger Jorn licenziavano la “Bibliothèque de Cobra”, collana di quindici volumetti dedicata ai principali rappresentanti dell’Inter-nazionale degli Artisti liberi, ambiziosamente definita “Encyclopédie permanente de l’art expérimental”, pubblicata nel 1950 a Copenhagen dalle Editions Ejnar Munksgaard.

Questa non comune raccolta, che insieme alle riviste “Cobra” e “Petit Cobra”, costituisce la documentazione originale del gruppo fondato nel 1948 a Parigi dai rappresentanti degli artisti sperimentali belgi, danesi e olandesi, viene ora esposta da Entr’acte con il corredo di esemplari delle riviste citate nonché di immagini, libri e cataloghi attinenti a questa fondamentale vicenda dell’arte del secondo dopoguerra.



LA BIBLIOTHÈQUE DE COBRA

1. Pierre Alechinsky (lithographie en couverture). Texte de Luc Zangrie.
2. Else Alfelt. Texte de Edouard Jaguer.
3. Karel Appel (lithographie en couverture). Texte de Christian Dotremont.
4. Atlan (lithographie en couverture). Texte de Michel Ragon.
5. Ejler Bille (lithographie en couverture). Texte de Michel Ragon.
6. Constant (lithographie en couverture). Texte de Christian Dotremont.
7. Corneille (lithographie en couverture). Texte de Christian Dotremont.
8. Jacques Doucet (lithographie en couverture). Texte de Jean Laude.
9. Sonja Ferlov. Texte de Christian Dotremont.
10. Stephen Gilbert (lithographie en couverture). Texte de Edouard Jaguer.
11. Svavar Gudnason (lithographie en couverture). Texte de Edouard Jaguer.
12. Henry Heerup (lithographie en couverture). Texte de Christian Dotremont.
13. Egill Jacobsen (lithographie en couverture). Texte de Christian Dotremont.
14. Asger Jorn (lithographie en couverture). Texte de Christian Dotremont.
15. Carl-Henning Pedersen (lithographie en couverture). Texte de Christian Dotremont.