domenica 24 gennaio 2016

Un altro modo di stare nella metropoli. i 40 anni del Leoncavallo



Il centro sociale Leoncavallo di Milano sta festeggiando in queste settimane i quarant’anni dalla prima occupazione al Casoretto. Lo fa con concerti ed eventi culturali. Con la pubblicazione di un libro ricco di fotografie e testimonianze storiche. E con un incontro nazionale – che si svolgerà negli attuali spazi di via Watteau sabato 30 e domenica 31 gennaio 2016 – dal titolo «Democrazia, reddito, ecologia. Siamo il sangue nuovo nelle arterie della metropoli». Anticipiamo qui una sintesi dell’invito.

Centro Sociale Autogestito Leoncavallo

I nostri primi quarant'anni...

A partire dai festeggiamenti per «i nostri primi quarant’anni», vorremmo proporre uno sforzo comune che punti a una nuova narrazione condivisa, e non solo alla comunicazione e alla contaminazione delle lotte sociali, ma anche alla loro riproducibilità nella prospettiva della costruzione di quel potere dei «molti», oggi più che mai necessario ad aprire spazi reali per l’alternativa.

Nel nostro immaginario, se siamo capaci di non ridurle a icone ideologiche o a modellini, le esperienze della Rojava — le regioni autonome del Kurdistan siriano che sono riuscite a liberarsi confliggendo con la barbarie fondamentalista — e di metropoli come Barcellona e Madrid – dove, a partire dalle lotte contro austerity e corruzione e per il diritto all’abitare, inedite coalizioni municipaliste hanno vinto le elezioni e governano le città — viaggiano insieme. In queste concrete esperienze, e nelle loro profonde differenze, ritroviamo la medesima tensione all’autogoverno delle comunità, alla sperimentazione di pratiche realmente democratiche, in una cornice in cui autonomia e cooperazione sociale, vecchi e nuovi diritti sociali, ecologia e femminismo si alimentano vicendevolmente.



Un nuovo mutualismo

La metropoli è «fabbrica sociale», comandata dalle funzioni della finanza, dai dispositivi del credito e del debito. Qui i meccanismi prevalenti di estrazione del valore prodotto dalla cooperazione sociale sono quelli della rendita e della speculazione. Nello stesso tempo, la metropoli è anche fabbrica di soggettività altra, spazio di iniziativa, di resistenza e autovalorizzazione tra chi coopera. Da qui la proliferazione di figure nuove nella composizione sociale del lavoro, figure che attraversano e fanno vivere quotidianamente i nostri spazi: precari, intermittenti, autonomi di seconda e terza generazione, micro-imprenditori, cooperatori.

In questo panorama il vecchio schema del rapporto sindacato/lavoratori, basato su vertenzialità ed erogazione di servizi, seppur necessario, non è più in grado di conquistare un allargamento dei diritti. Oggi, un nuovo «sindacalismo sociale» deve essere incubatore di cooperazione, praticare condivisione democratica delle risorse materiali e immateriali, deve far evolvere il mutualismo in una macchina di produzione di diritti, ricchezza e trasformazione sociale. E in questo processo riconoscere e inventare le forme nuove e più efficaci del conflitto, che cosa significhi lo «sciopero del XXI secolo». Sindacalizzare gli insindacalizzabli, e socializzare le lotte della solitudine, necessitano prima di tutto punti di incontro.

E, se diamo buono l’assunto che vede gli spazi sociali autogestiti come laboratori del comune, fuori da logiche gruppettare e identitarie, possiamo iniziare finalmente a intravedere un loro sviluppo in «Camere del lavoro» intermittente, precario e autonomo, dispositivi adeguati ai tempi di nuova organizzazione e di conflitto costituente, vettori di trasformazione sociale.



Lo spazio europeo

Lo scenario europeo, ovvero di quello spazio politico che è oggi la scala minima di ogni pensabile possibilità di cambiamento, pare investito da fatti nuovi, di segno diverso, che ne sconvolgono repentinamente il panorama: pensiamo alla pur contradditoria vicenda greca, alla marcia dei migranti lungo la rotta balcanica, alla dialettica tra piazze e urne elettorali nella penisola iberica, ma anche all’irruzione del terrore jihadista e alla logica liberticida dello «stato d’emergenza», alla crescita di nuovi nazionalismi, razzismi e fascismi, all’apparentemente imperturbabile normalizzazione delle politiche di austerità, con il loro corollario di precarizzazione e privatizzazioni.

Vi sono eventi che hanno prodotto rotture positive, sedimentano consapevolezza, diffondono saperi e pratiche trasformative. Ed altri che sembrano precludere ogni strada, negare la possibilità stessa del cambiamento, determinare orrende involuzioni. E lo stesso discorso si potrebbe riprodurre nei singoli territori, dove di fronte alla quotidiana catastrofe del climate change, le lotte ambientali, per i beni comuni (materiali e immateriali), per il diritto alla città determinano significativi risultati locali, accumulano saperi critici e partecipazione attiva.

Tutte queste lotte presentano un minimo comune denominatore che parla di «democrazia» come decisione condivisa dal basso su ciò che è comune; di «reddito», diretto e indiretto, come leva redistributiva adeguata a combattere l’insostenibile crescita di diseguaglianze e povertà; di «ecologia», ambientale e sociale, come necessità immediata per rovesciare la catastrofe climatica in occasione di cambiamento radicale. Tre grandi temi che potremmo definire «glocal», capaci cioè di tenere assieme dimensione locale e transnazionale, istanze comunitarie e di classe, singolarità e moltitudine.

    La prima sede (foto di Alberto Cane)

Oltre la rappresentanza

Se guardiamo alle tante esperienze dal basso che, nelle metropoli e nei territori d’Europa, cercano di trasformare l’esistente costruendo coalizioni inedite che promuovono conflitto e partecipazione, e mettono in comunicazione movimenti sociali e realtà associative, forze sindacali e politiche, proponendo e praticando direttamente soluzioni di governo e amministrazione locale, possiamo iniziare a intravedere nuovi dispositivi politici, che vanno oltre il classico rapporto tra movimenti e partiti, fuori dalla logica della rappresentanza. Un movimento reale, che abbia l’ambizione di cambiare lo stato di cose presenti, deve essere in grado di pensare la complessità e di agire simultaneamente su tutti questi diversi piani.

Vorremmo provare a farlo, confrontandoci con altre esperienze che cercano di fare del proprio territorio metropolitano le «città del cambiamento» e cominciando a scrivere, insieme a loro, la bozza di «una carta per l’Europa», nuova e altra da quel panorama di rovine che gli interessi di pochi ci stanno consegnando.


Il Manifesto – 13 gennaio 2016