Ancora
amministrativamente Liguria, ma già Piemonte per territorio e
linguaggio, Piana Crixia, già antichissimo insediamento romano, ha
mantenuto almeno fino agli anni Cinquanta usi e tradizioni tipiche
del mondo contadino langarolo. Gigi Sormano, che allora era bambino,
ne ha ricostruito con cura quasi antropologica non
scevra di affettuosa nostalgia alcuni aspetti.
Luigi
Sormano
Un
mondo che non c’è più
Questo
è il racconto di un modo di vivere e di una socialità che è
scomparsa da ormai tantissimo tempo, rimane un nostalgico ricordo
scolpito nella memoria di quelli che come me quei momenti li vissero
e quel mondo conobbero. Si stava meglio? Si stava peggio? Era un
mondo più felice? Le persone erano migliori? Sono domande per le
quali non esistono risposte, era un mondo diverso e nella diversità
c’erano aspetti positivi ed altri negativi e ogniqualvolta chi ha
la mia età guarda indietro non sa se rimpiange i tempi o la persa
gioventù.
Quello
che vi racconterò riguarda un momento particolarissimo della vita
contadina, probabilmente uno dei momenti più aggreganti in assoluto
dove venivano coinvolti uomini, donne, ragazzi, ragazze e bambini,
nessuno era escluso e questo era un elemento quasi unico all’interno
di una società in cui c’erano cose da uomini, cose da donne e cose
da bambini.
Il
momento era quello della spannocchiatura del granoturco; ritengo
comunque opportuno prima di cercare di descrivere quei momenti, di
fare alcune considerazioni su cosa sull’importanza che rivestiva in
allora per i contadini questo cereale e come veniva gestita la sua
filiera.
A
quei tempi, parlo dei primi anni 50, pur non avendo più, nella
catena dell’alimentazione della gente di campagna, la valenza che
aveva rivestito negli anni dai primi del novecento sino agli anni
30\40, conservava tuttavia ancora una notevolissima rilevanza. Non si
viveva più soltanto di pane, polenta e castagne, il menù delle
tavole aveva preso più forza, si mangiava più pasta ed anche la
carne, pollame di cortile, faceva più spesso la sua comparsa.
Insomma si stava meglio ma comunque la polenta non mancava mai,
immancabilmente una o due volte la settimana faceva la sua bella
comparsa e quando si cucinava durava almeno un paio di pasti o più.
La
semina avveniva normalmente durante il mese di aprile, il terreno in
quel periodo era abbastanza umido per favorire la gemmazione dei semi
e nello stesso tempo abbastanza compatto da permettere l’aratura ed
i solchi. Il mais predilige terreni umidi e sabbiosi dove riesce a
svilupparsi velocemente ed a dare una buona resa, tuttavia spesso si
doveva fare di necessità virtù in quanto i terreni più pregiati,
quelli che erano nella pianura alluvionale della Bormida, non erano
vastissimi ed erano divisi tra moltissimi proprietari, in pratica
tutti i contadini delle due frazioni vicine, Praie e Pera, avevano
appezzamenti in quella zona. Ne conseguiva che spesso, per lasciare
spazio in quelle zone al grano che era più importante il mais veniva
relegato in altri campi meno fertili dove cresceva con più
difficoltà ed aveva meno resa.
La
differenza si poteva apprezzare ad occhio nudo, quello coltivato
nella pianura del Bormida si presentava con piante verdissime,
lussureggianti e con pannocchie rigonfie mentre quello che veniva
coltivato più in collina, in terreni più aridi e con poca terra a
ricoprire lo strato roccioso, aveva piante più piccole, a volte
giallognole che davano l’impressione di essere in stato precario.
Poi poiché questi terreni quasi sempre erano in pendenza seguendo il
degrado della collina si vedeva nello stesso campo la differenza tra
le piante che rimanevano in alto, dove l’acqua si fermava meno, e
quelle poste più in basso dove rimanevano più umide per il fatto
che godevano del privilegio di godere dell’umidità che portava
l’acqua con suo scorrere dall’alto al basso. Era evidente alla
vista si passava da belle piante robuste e verdi in basso a quelle
piccole e giallognole in alto con tutta una gradazione di qualità
che seguiva il fianco della collina.
Contrariamente
al grano che si seminava e poi si raccoglieva il mais abbisognava di
maggiori cure e lavorazioni, la semina avveniva in dritte file, la
quantità di seme era il primo problema, non si poteva essere troppo
avari perché in caso di siccità parecchi semi sarebbero morti ma
non si doveva neppure esagerare in quanto poi se le piantine fossero
nate tutte sarebbero stato necessario diradarle e questo avrebbe
significato spreco, parola sacrilega in campagna, e lavoro. La
saggezza e la pratica aiutavano e quasi mai i contadini sbagliavano
grossolanamente. Tra le fila dei semi seminati veniva tracciato un
grosso solco, non profondo ma abbastanza largo, la sua funzione era
quella di massimizzare la resa della pioggia conservando l’acqua il
maggior tempo possibile in modo da umidificare a lungo le radici
delle piante che rimanevano sui suoi fianchi. Al crescere delle
piantine, quando raggiungevano l’altezza di una decina di cm, si
doveva sarchiare e diradare in modo che le piante rimanessero a
distanza di circa una trentina di cm, l’operazione di sarchiatura
poteva avvenire anche più volte con lo scopo di smuovere e
decompattare il terreno attorno alla pianta in modo che potesse
meglio assorbire l’acqua e nel contempo togliere tutte le erbacce
che nel frattempo erano nate e sottraevano a loro volta nutrimento ed
acqua. Poiché il terreno cosi preparato e curato era ottimale per la
crescita di qualsiasi cosa sovente, nei solchi tra le file delle
piante, venivano seminate altre cose, per esempio numerose zucche che
sarebbero servite come alimentazione per gli animali.
Mi
ricordo molto bene di zucche gialle in due forme, oblunghe o sferiche
che arrivavano dimensioni veramente importanti. Ma non solo quello a
volte fagioli bassi o altri tipi di ortaggi. Dopo le ultime
sarchiature le piante crescevano rapidamente, il mais mediamente in
sei mesi arriva a maturazione, ed altri lavori erano in arrivo.
Nell’ultima fase della crescita le piante diventavano, se in buona
salute, alte ben oltre i due metri e crescevano una punta con un bel
pennacchio con una infiorescenza molto bella a vedersi ma atta solo a
succhiare energia che sarebbe servita con maggior profitto a gonfiare
le pannocchie, allora occorreva togliere questa inutile pennacchio e
passando nei solchi si provvedeva, pianta per pianta, a troncarne la
punta. Con l’occasione se una pianta presentava troppe pannocchie
ed era evidente che non le avrebbe maturate si provvedeva al
diradamento. Questa era l’ultima operazione prima della raccolta,
quando le pannocchie, che nel frattempo si erano gonfiate ed indurite
cambiavano colore alle foglie di cui erano rivestiste passando da un
verde intenso ad un marroncino pallido era tempo del raccolto, la
pianta stessa nel frattempo era ingiallita e le sue lunghe foglie
erano imbrunite rapidamente.
La
prima fase del raccolto si consumava nel campo, uomini e ragazzi
entravano nei solchi e staccavano le pannocchie dalla pianta,
l’operazione era semplice ma occorreva impiegare una certa forza e
normalmente le donne erano escluse da questo tipo di attività. La
pannocchia era attaccata alla pianta attraverso un gambo fibroso,
duro ma anche flessibile per cui bisognava impugnare bene il gambo al
filo della pannocchia con una mano e con l’altra serrarne la punta
sulla barba e piegare violentemente da una parte e dall’altra la
pannocchia stessa, il gambo si troncava di netto e la pannocchia
rimaneva libera nella mano, l’abilità consisteva nell’impugnare
bene e con forza il gambo perché se il gambo cominciava a piegarsi
senza troncarsi allora tutto diventava più difficile. Si avanzava
lavorando su un paio di solchi ed i frutti raccolti venivano gettati
tutti assieme in un solo solco creando tutta una serie di accumuli,
l’operazione procedeva sino al completamento dello stacco dopodiché
si provvedeva a tagliare tutte le piante che costeggiavano la fila
dei mucchi di pannocchie in modo da creare lo spazio occorrente al
carro che avrebbe raccolto il tutto di transitare in mezzo alle altre
piante. Il carro utilizzato era trainato da una coppia di buoi ed era
cassonato, era in sostanza chiuso sui quattro lati con tavole sino ad
un’altezza di circa un metro ed era il carro che si usava per il
trasporto delle rinfuse e del letame, c’era poi un altro carro,
quello da legna, senza sponde ed infine ancora un altro per fieno e
fogliame (el gagiun).
Di
solito il raccolto rimaneva nel campo qualche giorno consentendo così
alle pannocchie di continuare ad essiccarsi dopodiché arrivava Il
carro che veniva caricato a mano da uomini e questa volta anche dalle
donne che prendevano da terra le pannocchie e le depositavano nel
cassone. Normalmente la sponda posteriore era rimovibile e veniva
tolta per abbassare il piano di carico consentendo di procedere con
velocità e ragionevole fatica. Finito il carico si trasportava il
tutto in un prato pianeggiante vicino alla casa o nella stessa aia e
ne faceva una lunga striscia alta a volte quasi un metro dove ancora
per qualche giorno era lasciata al sole. Quando si stabiliva che la
giusta essiccazione era stata raggiunta si provvedeva a
spannocchiare, la voce veniva passata da una famiglia all’altra e
la sera stabilita tutti si presentavano puntuali, in pratica tutta la
frazione, nessuno escluso, nessuno voleva perdersi quella che era una
specie di festa di comunità che aggregava tutte le famiglie.
L’operazione
veniva compiuta dopo cena, in allora si cenava presto ma comunque si
cominciava quando le tenebre erano già scese, la temperatura, si era
in ottobre, era già pungente e l’abitudine di allora era di
coprirsi prudentemente, i ragazzi che normalmente pativano meno la
frescura ed avrebbero volentieri fatto a meno di panni aggiuntivi
venivano comunque intimati dalle madri a vestirsi ed in allora non
c’era spazio di discussione tra genitori e figli. Nella mia
frazione i punti dove si “sfogliava” erano sostanzialmente due
prati pianeggianti sulla cresta di un terreno che saliva leggermente
e che venivano raggiunti a gruppetti, perlopiù famigliari,
servendosi di una stradina che costeggiava il fianco del prato o
attraverso sentieri tracciati per uso pedonale. Dal momento in cui i
gruppetti erano in cammino aveva inizio il bello delle serate.
Ragazzotti e bambini durante il giorno preparavano i primi scherzi,
si prendevano alcune zucche, di norma quelle che erano nel campo del
mais, si svuotavano lasciando solo la dura corteccia esterna e poi si
intagliavano due occhi, un naso triangolare, una bocca dentata e
voilà una testa mostruosa era pronta. Veniva collocato all’interno
un mozzicone di candela e poi si andavano a posizionare queste opere
d’arte sulla scarpata seminascoste a fianco della strada, in modo
che rimanessero grosso modo all’altezza delle persone. All’arrivo
dell’oscurità la candela veniva accesa e la fioca luce del moccolo
illuminava una faccia spettrale. Le donne che arrivavano nelle
tenebre, portando solitamente con loro un lanternino a petrolio che
rischiarava appena appena lo spazio davanti ai loro passi, si
trovavano, svoltato l’angolo della strada, faccia a faccia con
l’immagine di una specie di teschio illuminato e spaventate
cominciavano ad urlare la loro paura. Ovviamente era tutto un gioco,
a parte qualche rara volta quando qualcuna soprappensiero magari
aveva veramente un sussulto di paura, il gioco era vecchio e
conosciuto ma si partecipava volentieri alla burla e poi si rideva
tutti assieme con allegria.
Tra
urla e queruli gridolini si arrivava comunque sul posto e ci si
accomodava seduti dando le spalle alla trincea delle pannocchie
appoggiano alla stessa la parte bassa della schiena, alcuni, le donne
in particolare, sovente, per evitare il contatto con l’umidità
della terra stendevano uno spesso panno e su di esso si accomodavano.
Si formavano i gruppi, di norma gli uomini stavano assieme, gli
argomenti in discussione tra loro erano quelli “seri”, prima di
tutto come si prospettava la resa del mais che si stava
spannocchiando, per quanto ottima potesse essere stata la qualità
non erano mai del tutto soddisfatti, c’era una specie di pudore e
reticenza nel dire che sì, quella volta era veramente andato tutto
bene e che la resa sarebbe stata molto alta; era buona sì ma
qualcosa avrebbe potuto essere migliore. Poi la valutazione dei campi
di semina, se fosse stato seminato in quell’altro campo sarebbe
stato meglio, o forse in quell’altro ancora, eeh sì quello sarebbe
stato il massimo, però….. Le osservazioni, i paragoni, lo scambio
di consigli, poi la qualità delle sementi, meglio le sette file, ma
no lì è terreno più arido meglio la quarantina e così via.
Effettivamente
venivano usate più qualità di sementi e si sceglieva in funzione al
tipo del terreno di semina quella che si riteneva più idonea. Le
qualità, sette file, e quarantina sono quelle che ricordo ma ne
esistevano anche altre. Quello che ricordo bene è che la quarantina
era più adatta a terreni più aridi e produceva pannocchie piccole,
giallognole e molto numerose mentre la sette file fruttificava meno
pannocchie ma più grandi i cui grani erano appunto ordinati sul
tutolo in sette file di colore più aranciato.
Poi
gli animali, tutti avevano nella stalla gli animali seri, quelli da
lavoro, i buoi che rappresentavano dopo la terra il bene più
prezioso, senza di loro sarebbe stato impossibile arare, coltivare,
raccogliere e trasportare, procurarsi la legna per scaldarsi e
concimare i campi. L’avere o non avere nella stalla una bella
coppia di buoi poteva fare la differenza tra avere la possibilità di
vivere decentemente e sfamarsi o patire la miseria e sfamarsi a
stento. La perdita per malattia o incidente che poteva capitare, di
un paio di buoi era un qualcosa che poteva rappresentare il tracollo
economico di una famiglia anche per più di una generazione. Tutti i
contadini della frazione avevano dunque nella stalla almeno un paio
di buoi, qualcuno anche due paia, poi una o due mucche e ciclicamente
qualche vitello. Avere delle belle bestie era quindi motivo di grande
orgoglio e segno di solidità economica, e le stesse per le ragioni
che abbiamo visto erano oggetto di grandissima cura ed attenzione, di
loro si parlava moltissimo, si facevano paragoni sulle capacità di
tiro, sulla quantità di latte che davano le mucche,
sull’alimentazioni migliore, sulla capacità delle stesse di dare
vitelli robusti e di ottima qualità. Ognuno magnificava le sue
bestie e ci si scambiavano favori reciprocamente, se uno non aveva
bestie adatte gli si veniva in aiuto con le proprie, se un’operazione
risultava troppo pesante per un paio di buoi se ne ponevano alla
traina altri due in prestito e così via. Le bestie da stalla erano
argomento che non poteva mancare e l’occasione di quelle serate era
la sede migliore per parlarne a lungo. Delle altre bestie, quelle da
cortile, se ne occupavano le donne e quindi quello era argomento
“minore” discusso ad altro tavolo quello delle donne appunto che
però, come vedremo, avevano anche molti altri argomenti caldi e
pronti.
In
quella sede era anche possibile che avvenissero piccoli scambi o
accordi e che si calendarizzassero lavori da fare tutti assieme per
il bene comune, tipo la manutenzione delle strade rurali che
costituivano le vene attraverso le quali transitava la flebile linfa
dell’economia contadina. Insomma tra gli uomini, pur non mancando
momenti d’ilarità o facezie prevalentemente si parlava dunque
“d’interesse” (espressione usata nel gergo contadino quando si
parlava di cose economiche). Tra il gruppo delle donne si parlava
d’altro, a stretto contatto le une con le altre, rivestiste come
abbiamo visto di panni ormai pesanti, le più anziane quasi tutte con
un foulard in testa costituivano gruppo compatto ai lati del quale
stavano le ragazze più giovani e ne vedremo il motivo. Quando oggi
parliamo di gossip forse pensiamo di aver inventato qualcosa ma la
realtà è ben diversa, era incredibile come tra le donne delle
frazioni le notizie, a partire dalle più ingombranti o pruriginose,
circolassero con una velocità ed una capillarità che ancora oggi
ripensandoci mi sembra impossibile. Non c’erano né social né
telefonini e tantomeno mail ma le voci correvano di porta in porta
con grande dovizia di particolari. Insomma i pettegolezzi non li
hanno certo inventati i moderni media. Le voci si intrecciavano e
sovrapponevano, ognuna aveva un particolare che arricchiva il
racconto, tutte sapevano, conoscevano, sentenziavano. Erano giudici
severissimi, ogni tanto si alzava il tono di voce, poi una risata
collettiva, poi un’espressione di incredulità e stupore, commenti
scandalizzati.
I
bambini attratti da quel parlottio fitto e continuo sovente si
avvicinavano furtivamente cercando di carpire qualche particolare che
soddisfacesse la loro naturale curiosità ma erano implacabilmente
respinti ed allontanati senza tanti complimenti dalle comari con
l’ammonimento “queste sono cose da grandi”. Non solo questo,
ovvio, parlavano di cucina, del forno che funzionava male e che gli
uomini non avevano mai tempo di aggiustare, delle difficoltà che
purtroppo alcune incontravano a tirare avanti con la famiglia, di chi
poteva aiutare a confezionare una gonna o una giacca o chi era in
grado di rivoltare un cappotto. L’economia domestica aveva il suo
spazio come i bambini, la scuola e tutti gli altri problemi che tutte
si ritrovavano da sole ad affrontare, cosa che facevano con
incredibile tenacia, coraggio ed un incredibile spirito d’inventiva
che consentiva loro di trovare soluzioni a prima vista impossibili.
Tra
il gruppo uomini e quello delle donne non mancavano certo scambi di
battute, ironie e battaglie dialettiche e mai che gli uomini ne
uscissero “vincitori”, ma il tutto alla fine si risolveva con
grandi risate. I ragazzi e le ragazze si sistemavano a seguire dal
gruppo delle donne, considerando che in allora le famiglie avevano
mediamente tre figli o più nell’ambito della frazione c’erano
sempre quattro oi cinque giovani a cavallo dell’età della pubertà
o comunque in quell’area d’età, erano ragazzi cresciuti assieme,
giocando, litigando, andando alla scuola elementare, accompagnandosi
in ogni occasione. Tra loro c’era grandissima amicizia ed affetto,
ci si voleva veramente bene senza riserve o secondi fini, si trattava
di un rapporto che comunque poi fossero andate le cose nella vita e
ovunque ci avesse portato non sarebbe mai più stato dimenticato.
Però in quell’età cominciavano anche le curiosità ed i primi
pruriti sentimentali e sessuali e poiché la vita di allora si
svolgeva quasi esclusivamente nell’ambito della frazione o del
paese era naturale che i primi approcci ci fossero con chi si
condivideva il maggior tempo e si aveva più confidenza.
Nessuno
pensi a chissà quali cose, i tempi erano decisamente diversi come la
morale e quello che allora era trasgressivo e peccaminoso (c’era un
termine ricorrente per etichettare quello che era giudicato illecito
“le porcherie”) oggi farebbe sganasciare dal ridere. Ovviamente
le ragazze erano sempre più sveglie e precoci dei maschietti che
finivano sempre per fare la figura degli allocchi ma l’oscurità,
la sensazione di viaggiare sul confine del proibito, il contatto
fisico trasmettevano sensazioni vibranti e piene di emozioni. Tutto
questo non sfuggiva ovviamente all’occhiuto controllo delle donne
che lasciavano fare sornione salvo richiamare bruscamente e senza
tanti complimenti la figlia o comunque la ragazza che a loro giudizio
stava uscendo dal perimetro del consentito e riportarla a sedere
all’interno del loro gruppo ponendo così fine alla festa.
Ovviamente le timide proteste della poverina venivano implacabilmente
tacitate nel silenzio diventato generale e per un paio di minuti
tutti tacevano, poi tutto ricominciava come nulla fosse accaduto.
Il
confine del consentito si restringeva e di molto se entravano nel
gruppo anche ragazzi delle frazioni vicine, in questo caso era
evidente che c’era qualcuno a cui interessava una ragazza in
particolare e con la scusa della spannocchiatura cercava l’occasione
di stare assieme a lei di notte, cosa in altri modi impensabile, si
faceva accompagnare da almeno un amico perché altrimenti la cosa
sarebbe stata troppo scoperta ed assieme si mescolavano ai ragazzi
della frazione. Immediatamente si rizzavano le antenne delle donne
per individuare chi nutriva l’interesse e verso chi era rivolto,
l’attenzione saliva e quando si captava la coppia e al minimo
segnale reale o immaginario di qualche azzardo la ragazza veniva
prontamente richiamata come abbiamo visto prima.
I
bambini erano però coloro che si divertivano di più, non avevano
una collocazione fissa predestinata, vagavano incontrollati vociando
in mezzo a tutti, si spingevano, rotolavano in mezzo alle foglie,
attizzavano gli uni e gli altri salvo poi rifugiarsi prontamente al
riparo del materno gruppo delle donne. Ogni tanto trascendevano,
capitava che tirassero anche qualche pannocchia ed allora il gioco
diventava pericoloso perché una pannocchia lanciata nel buio diventa
un rischio, ma più che altro giocavano a nascondino che con il buio
diventava particolarmente divertente. Altro divertimento per loro il
raccogliere la barba delle pannocchie sparsa tra le foglie ed andarla
a gettare in testa alle donne che si lamentavano infastidite. In
ogni caso, come per le ragazze, se avessero esagerato partiva
prontissima ed inesorabile la reprimenda.
Nel
mentre di tutte queste cose ovviamente si lavorava, schiena alla
trincea si prendevano le pannocchie e tenendole alla base si tiravano
verso il basso le foglie, quando la pannocchia era nuda si serravano
con una mano le foglie alla base, sul moccolo del gambo che era stato
troncato nella prima fase della raccolta, e con un secco strattone
laterale si staccavano le foglie che rimanevano tutte fissate in un
unico mazzo tenuto assieme dal moccolo. La pannocchia nuda veniva
gettata alle spalle e le foglie davanti, normalmente sulle gambe e
piano piano si costituiva una specie di coperta di foglie che
difendeva dal freddo. La foglia del granoturco è estremamente
robusta, fibrosa e tenace non si strappa, si accartoccia ma tende poi
a riprendere la propria forma, ma soprattutto ha una qualità: emette
uno strano calore. O meglio è un formidabile isolante e quando sei
coperto dalle foglie il calore del corpo non si disperde ma ti rimane
attaccato e per questo si ha la sensazione che le foglie scaldino.
Infatti uno degli usi più frequenti che ne venivano fatti era quello
di utilizzarle per imbottire i materassi dei letti.
Ad
un certo punto della serata qualcuno, di solito una donna, cominciava
a cantare, le canzoni erano quelle tradizionali contadine, nenie che
venivano cantate da decenni, immancabile “quel mazzolin dei fiori”
con il quale quasi sempre si dava inizio, ma anche strofe in dialetto
ed altre delle quali ho purtroppo perso memoria. Se qualcuno sapeva
suonare l’organetto a bocca quello era la sua occasione per
dimostrare la sua bravura. Da quel momento ogni altra discussione
cadeva, tutti cominciavano a cantare assieme e l’eco del coro che
si diffondeva nell’oscurità rompendo il silenzio della notte era
veramente suggestivo. Cantavano tutti, chi aveva bella voce e chi e
chi invece ragliava stonato, l’importante era partecipare, essere
parte di un tutto. Avere bella voce e saper cantare era una qualità
molto apprezzata e quelli bravi trovavano in quelle serate il loro
palcoscenico e se ne sarebbe parlato ancora nei giorni che sarebbero
seguiti, Il canto era uno degli elementi più aggreganti per la
comunità, un momento bellissimo per stare assieme, fare assieme una
cosa, riconoscersi partecipi di un modo di vita, di una morale, di
una storia che accomunava tutti loro.
Questa
di norma rappresentava sempre la parte finale della serata, il lavoro
che aveva tenuto assieme tutti quanti volgeva al termine, gettatasi
alle spalle l’ultima pannocchia tutti si rialzavano scrollandosi
dai panni l’umidità della sera e si ricomponevano i gruppi
famigliari per il rientro. I saluti e gli arrivederci al giorno dopo,
il ringraziamento del padrone del granoturco a tutti e poi si
riprendeva la via di casa. Il mozzicone di candela dentro la zucca si
era ormai consumato e spento, la sua luce era finita e con essa la
magia di quella serata. Magie che oggi non esistono più, non sono
più possibili ed il ricordarle fa scendere un velo di triste
melanconia in fondo al cuore.
(Da
“Passaparola”, giornale della Comunità di Piana Crixia)