Dal
tramonto all'alba. Misticismo e Jules Verne, L’Opera Alchemica e
Jack Sparrow: un mistero luminoso
Raffaele
K. Salinari
Spettro
e fuoco del raggio verde
Molti
ricorderanno la scena del film Pirati dei Caraibi – Ai confini
del mondo, in cui per recuperare il capitano Jack Sparrow dallo
scrigno fatato di Davy Jones, Barbossa, Elizabeth e Will Turner, con
il resto della ciurma, sono costretti a ribaltare la nave, così da
essere sott’acqua nel momento del «Raggio Verde». «Il
vostro sguardo si è mai posato su un verde baleno, mastro
Gibbs?» chiede Barbossa «Ho visto anche questo, lo devo
ammettere. Avviene in rare occasioni: nell’ultimo spasmo di
tramonto un verde baleno si impenna su nel cielo. C’è chi tutta
una vita non lo vedrà mai e c’è chi afferma che sì, era
presente, e c’è chi dice che è il segnale di quando un’anima
rimette piede in questo mondo da quello dei morti!».
Altri,
invece, andranno con la memoria al film omonimo del 1986
diretto da Éric Rohmer in cui una depressa segretaria parigina,
scaricata sia dal ragazzo sia dall’amica per le vacanze, si aggira
inquieta tra le strade della città ed improbabili amicizie di
provincia. Troverà infine l’amore vedendo il Raggio Verde al
tramonto del sole su un promontorio di Biarritz.
Tutte
queste sono, in realtà, citazioni del romanzo di J. Verne che porta
lo stesso nome, storia di una ragazza che cerca il suo Raggio Verde
e, dopo infinite avventure, rischiando la morte, non lo vede
direttamente, ma lo percepisce intimamente assieme al suo amore.
L’autore lo descrive in questi termini: «Un raggio verde, ma di un
verde meraviglioso, di un verde che nessun pittore può ottenere
sulla sua tavolozza, un verde di cui la natura né nella varietà dei
vegetali, né nel colore del mare più limpido, ha mai riprodotto la
sfumatura! Se c’è del verde in paradiso, non può essere che quel
verde, il vero colore della speranza».
Il
Raggio Verde
E
infatti la leggenda del Raggio Verde, forse di origine irlandese,
forse inventata da Verne stesso, dice che chi lo ha visto può
leggere nell’intimo cuore di se stesso e delle altre persone
capendone l’essenza. Ma esiste davvero il Raggio Verde e da dove
vengono queste storie legate alla sua visione? Il nostro Raggio è in
natura un fenomeno ottico visibile quando il Sole, all’alba o al
tramonto, crea una sottile striatura luminosa dal colore verde che
dura pochi istanti. Questo è dovuto alla rifrazione della luce
solare da parte dell’atmosfera: in certe condizioni i raggi solari
vengono scomposti come in un prisma tra le varie componenti colorate,
e quella verde si distingue per contrasto con la tonalità generale
giallo-arancione del cielo. Il colore del raggio è il verde
veronese, così chiamato in onore di Paolo Veronese, il pittore
scopritore del pigmento. Occasionalmente può sfumare nel blu-indaco,
dando vita al «Raggio Blu». Questo avviene perché, notoriamente,
il verde precede, nello spettro luminoso, questo colore.
La
storia del Raggio è antica: varie popolazioni, tra cui i caldei i
babilonesi e gli egizi, notarono il fenomeno senza riuscire però a
spiegarne l’origine. Gli Egizi in particolare ritenevano che il
disco solare una volta sparito al di sotto dell’orizzonte si
tingesse di verde smeraldo, per poi riprendere la colorazione usuale
all’alba successiva.
La
tavola smeraldina
Tornando
per un momento alla scena dei Pirati che rivoltano la nave per
ritrovare la realtà perduta, è interessante notare che la formula
rivelatrice «così sopra come sotto», viene interpretata da Jack
Sparrow, l’unico in grado di leggere la mappa misteriosa che indica
qualsiasi terra ignota, esattamente come l’incipit del più famoso
testo ermetico, la Tavola di Smeraldo che recita: «È vero senza
menzogna, certo e verissimo, che ciò che è in basso è come ciò
che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per
fare il miracolo della cosa unica. E poiché tutte le cose sono e
provengono da una sola, per la mediazione di una, così tutte le cose
sono nate da questa cosa unica mediante adattamento».
Lo
smeraldo sul quale Ermete Trismegisto, il «tre volte grande»,
incise queste parole, era forse quello caduto dalla fronte di
Lucifero durante la sua dannazione per avere peccato di superbia nei
confronti di Dio portando, come Prometeo, la luce agli uomini, ma
anche la stessa pietra preziosa nella quale fu scavata la coppa per
la raccolta del sangue di Cristo: il Santo Graal. Ecco che, allora,
la scena apparentemente fantasiosa del film, si colora, è il caso di
dirlo, di una tonalità molto più profonda, esoterica, che in fondo
rende ragione della magica attrazione di tutti i film che mantengono
la tradizione principiata da Walt Disney, cultore dell’esoterismo,
iniziato all’Ordine De Molay, l’anticamera della Libera
muratoria, già nel 1920.
La
visio smaragdina
A
questo punto, per completare il quadro, dobbiamo introdurre il
fenomeno dei «fotismi» colorati che i mistici sufi percepiscono
nell’attraversamento dei loro stati spirituali, e che li porteranno
alla visione della Luce Verde come manifestazione massima del divino.
Prima di tutto, in coerenza con l’impianto immaginale, va chiarito
che non si tratta assolutamente di percezioni fisiche; N. Kobrâ si
riferisce ad essi come a qualcosa che si vede «chiudendo gli occhi».
Certo esistono delle corrispondenze tra i colori fisici e questi
«colori auratici» come possiamo definirli, ma ciò che fa la
differenza tra le due categorie è l’organo della percezione: nel
caso dei colori fisici l’occhio anatomico, in quelli auratici il
senso della visione sovrasensibile, che appartiene alla complessa
fisiologia simbolica dell’«Uomo di Luce».
E
dunque il mistico sufi, e non solo, si immagina come scintilla
divina: egli deve tornare a congiungersi con la fonte luminosa che lo
ha generato; e cosi vede realmente ed effettivamente
tenebre e luce, e le percepisce alternativamente come stati da cui
aspira a separarsi, le prime, poiché lo attirano verso il basso,
verso il «pozzo nero» dell’ignoranza, o cui tendere, la Luce, che
percepisce misticamente in tutti i segni premonitori della
Liberazione: «durante il tuo cammino infatti Egli ti verrà incontro
ovunque» si dice nel Corpus Hermeticum (XI, 21).
Ora,
per collegare pienamente la natura del mistico sufi all’appercezione
dei «fotismi» colorati, possiamo citare una frase tratta
dal Fawā’ih al-jamāl wa l-fawātih al-jalāl (Gli
schiudimenti della Bellezza e i profumi della Maestà), di N. Kobrâ:
«Apprendi, amico mio, che l’oggetto della ricerca è Dio, e
che il soggetto che cerca è una luce che proviene da Lui
(una particella della sua luce)». Qui appare chiaro come il
cercatore, il saggio, l’iniziato, sia una scintilla della Luce
creatrice prigioniera che aspira a ricongiungersi con la sua Origine,
ove questa gli apparirà come la sua «Natura Perfetta».
«Ogni
volta che sale da te una luce, scende verso di te una luce», ci
ricorda ancora N. Kobrâ. Naturalmente, per giungere a questo, c’è
bisogno di una inesausta lotta spirituale: il «saper conoscere il
divino, averne avuto la volontà e la ferma speranza», che il sufi
compie con l’aiuto dei suoi Maestri, della preghiera e dei suoi
simboli. La scelta data è dunque tra il ricongiungimento dell’«Uomo
di luce» con la sua Guida celeste, e «l’ignoranza del divino»
che segna così la dannazione dell’anima nelle tenebre.
Come
abbiamo accennato, sono gli esercizi spirituali ad «accendere» i
«fotismi» colorati che porteranno, di colore in colore, sino alla
Visione di Smeraldo. Nel caso del sufismo, l’esercizio (dhikr),
insieme a posture e studio simbolico, è imperniato sulla ripetizione
della prima parte della shada, la professione di fede: la
ilaha illa’llah (nullus deus nisi deus), meditata secondo le
regole della Confraternita. Perseguendo con la «volontà e la ferma
speranza» ecco che ad un certo punto si accende un «fuoco
interiore» che «brucia» le tenebre dell’anima.
Il
fuoco alchemico
È
interessante notare come questa del «fuoco» sia l’immagine
percepita da quasi tutti i mistici, indipendentemente dalla loro base
religiosa. Ad esempio ecco la descrizione dell’estasi tratta
dall’autobiografia di Teresa d’Avila, composta tra il 1562 e il
1565: «Vedevo un angelo vicino a me, a sinistra, in sembianze
carnali, come non ne avevo mai visti tranne che nelle mie visioni.
[…] Non era alto, era piccolo, e molto bello, aveva il volto così
illuminato che mi sembrava uno degli angeli delle schiere più alte,
quelli che sembrano bruciare. […] Gli vedevo in mano un lungo dardo
dorato, e alla fine del ferro mi sembrava ci fosse un po’ di fuoco.
Mi sembrava che col dardo mi trafiggesse il cuore alcune volte, e che
mi arrivasse fino alle viscere. Quando toglieva il dardo, mi sembrava
quasi che se le portasse via con sé, e che mi lasciasse tutta
bruciare di un grande amore per Dio. Il dolore era così forte che mi
faceva emettere alcuni gemiti, ma era così grande la dolcezza che
questo fortissimo dolore mi dava, che non riuscivo a desiderare che
smettesse, né che la mia anima si contentasse con altro che non
fosse Dio. Non era un dolore fisico, ma spirituale, anche se in
qualche misura lo stesso corpo ne era partecipe, anzi lo era davvero
molto. Era una carezza così dolce tra l’anima e Dio, che prego la
sua bontà affinché la possano provare anche coloro che pensano che
io menta».
Ora,
al di là della sensualità erotica, il tema del fuoco che brucia ed
illumina è lo stesso che troviamo nelle testimonianze dei sufi. E, a
motivo dell’impostazione alchemica del sufismo, attraverso questo
fuoco spirituale si tratta di «estrarre dall’organismo sottile la
luce dalle montagne sotto cui giace prigioniero», dice N. Kobrâ. È
a questo punto che cominciano progressivamente a manifestarsi, come
nelle fasi dell’Opera Alchemica, diversi colori: nero, bianco,
rosso, intramezzato dalla viriditas, il verde, «fotismo» della
purezza della visione spirituale.
Le
corrispondenze alchemiche sono assolute tanto che, continua N. Kobrâ:
«Tu provi interiormente in te ciò che visualizzi attraverso la tua
vista interiore e, viceversa, visualizzi attraverso la tua vista
interiore ciò che provi in te». Anche il concetto stesso di fuoco
spirituale va riportato a quello acceso sotto il crogiolo alchemico:
non esiste la possibilità di comprendere il giusto regime del fuoco
fisico senza la comprensione, cioè la presenza in se stessi di
quello spirituale. Per questo le «opere buone», che E. Canseliet
attribuisce al Fulcanelli nell’introduzione del Il Mistero
delle cattedrali, hanno un ruolo imprescindibile, anzi, non devono
essere considerate un mezzo ma un fine, il compimento dell’Opera
stessa. E ancora: «Non ho conosciuto alchimisti che non cercassero
rifugio nel XII Imâm, quello nascosto, l’Imâm dell’ultimo
giorno», confessa da parte sua un alchimista persiano.
E
dunque, il Raggio Verde di Jack Sparrow e dei suoi sodali Pirati dei
Caraibi, è il simbolo di una vita forse lontana dalla legge degli
uomini, ma certo molto vicina, per purezza di intenti, a quella
divina.
Il
Manifesto/Alias – 1 ottobre 2022