lunedì 31 ottobre 2022

Quaderni per la storia della Massoneria 5. Il Manoscritto Regius (1390)

 



Il cosiddetto Manoscritto Regius è un poema anonimo, probabilmente opera di un uomo di chiesa. Il testo contiene vocaboli di derivazione francese e la cosa si spiega con i contatti tra Francia e Inghilterra nel Basso Medioevo e in particolare durante la guerra dei 100 anni (1337-1453).

Il Manoscritto, chiamato anche Manoscritto Halliwell dal nome del suo primo studioso, è un lungo poema di 794 versi, destinato a determinare, in modo dettagliato, i doveri e gli obblighi degli scalpellini e dei muratori nei confronti del Mestiere e della Geometria. È considerato il più antico dei circa cento libri degli Antichi Doveri conosciuti. 

Sulla base dell'analisi linguistica del testo gli studiosi concordano ad attribuirgli una data anteriore a quella che usualmente gli viene riconosciuta. La tesi più accreditata sostiene che il 1390 sia soltanto l'anno in cui il documento venne trascritto da un copista, ma che la stesura sia in realtà da collocarsi tra il 1250 e il 1300.

Il documento è di straordinaria importanza per la conoscenza della antica massoneria operativa inglese. Lo riportiamo integralmente nella splendida traduzione della Rivista Massonica dell'agosto 1973, che gli dedicò l'intero numero. Traduzione poi ripresa dalla quasi totalità delle versioni che si possono trovare oggi in rete.

Il Manoscritto è preceduto da larghi estratti dello studio sugli Old Charges, apparso nel numero di settembre 1923 di The Builder, prestigiosa rivista negli anni Venti del secolo scorso della Libera Muratoria statunitense, a firma di Harry Le Roy Haywood (1886.1956), uno studioso libero muratore, molto prolifico i cui lavori, ancora oggi di grande interesse, non ci risultano essere mai stati tradotti in italiano.

martedì 25 ottobre 2022

lunedì 24 ottobre 2022

In forma di essere umano


 

sabato 22 ottobre 2022

IL PIEDE Scultura teatrale di Dario Bellini

 


Quarto Pianeta Festival
IL PIEDE
Scultura teatrale di Dario Bellini
ex O.P., via Giovanni Maggio 4 - Genova Quarto
Aula 7
sabato 22 ottobre 2022, ore 19:00

Il Piede di Filippo Tommaso Marinetti, andato in scena al teatro Dal Verme di Milano nel 1915 e mai più rappresentato, aveva, secondo le ricostruzioni, la quarta parete aperta su un baratro spazio-temporale. Riapparso in sogno con tutti i dettagli della messa in scena all'autore nel 2015 costituisce il primo dei quattro livelli di una scultura teatrale di Dario Bellini.

Primo livello: Il piede, appunto, inedita e plausibile pièce di Marinetti; Secondo livello: l'interazione polemica col pubblico; Terzo: arte sull'arte, annoso meta-testo tra la pressione degli eventi e le ragioni dell'arte; Infine quarto livello: gli slogan, i diktat inamovibili cui siamo incatenati.

Il piede, così concepito, è una commedia con un epilogo patetico e senza alcuno sviluppo. Il pubblico è diviso in due per ricostruire idealmente un confronto tra il pubblico della prima rappresentazione nel 1915 e il pubblico di oggi. Ciascuno vede solo una parte dello spettacolo, ma sente le voci di entrambi i lati.

Il primo livello è diretto da un regista (Andrea Manni), il secondo ed il terzo da un altro regista (Dario Bellini). Il quarto livello è gettato nelle probabilità del caso. La scultura teatrale descrive mediante le parole un profilo nell'aria come si trattasse di una normale scultura. Il profilo si delinea coi pensieri. Non è teatro! Sembra, teatro, ma non è teatro. Non è 900! Sembra, 900, ma non è novecento. Non sembra arte visiva, sembra più teatro. Ma non è più novecento e l'arte visiva si è molto allargata, fin dentro il teatro. Oltre il teatro. Fa finta di essere teatro per disputare su ciò che è, o non è, dell'arte visiva. Non ha un punto di applicazione, sono solo chiacchiere. “Chiacchiere non direi, sono chiacchiere, ma interessanti. È politico tutto ciò? Assolutamente!”

SCULTURE TEATRALI

Di cosa parliamo? Di cosa vale la pena parlare? Qual è l’argomento, quali sono gli argomenti? Con tutto quello che succede in giro sono queste le domande da farsi? Ci sono un mucchio di faccende di cui occuparsi. Sciagure, guai di ogni genere, torture e repressioni. Dittature e rivendicazioni. Argomenti, dunque, in quantità industriale. Cause. Ottime cause per cui battersi, e morire anche, se occorre... e molti vi muoiono, infatti.

Ma sono questi gli argomenti? Sono queste enormità gli argomenti dell’arte? O non è che l’arte vi si appiccica per darsi appunto un argomento? Per non diventare esclusivo gioco di design o... panna montata? Schiuma che cola, magari?

La parola come un movimento rallentato che dilata il tempo e lo riempie di accidentalità. Bill Viola e Douglas Gordon hanno usato ampiamente il rallentamento aprendo intervalli come radure che lo spettatore colma con la propria immaginazione. I futuristi avevano teorizzato la simultaneità nel movimento e le avanguardie hanno cercato di far coesistere punti di vista temporalmente impossibili nella realtà. Inoltre il rallentamento ha a che fare con la dimensione. Anche la grandezza della scala contribuisce a innescare il rallentamento, come avviene dall'espressionismo astratto in poi, sintetizzare nello sguardo istantaneo e totale la specifica modalità dell’occhio, vago e all-over. Il fuoco oscilla poco più in là o più in qua della superficie del dipinto.

La parola nella scultura teatrale ha un po'; la stessa funzione, satura lo spazio di chiacchiere, sì e no importanti, e immerge lo spettatore-interlocutore in una dimensione di galleggiamento nel senso. Ogni parola dovrebbe contenere uno schiamazzo, ed è così infatti, dentro le parole o le immagini ci sono un sacco di faccende, a dipanarle c’è da sollevare un vespaio.

In molte serie televisive, anche quelle visivamente più potenti e d'azione, si aprono molto spesso parentesi di dialogo dalle dimensioni inusuali in un film, anzi potremmo dire che nelle serie sono proprio le parole, la messa in campo dei dilemmi, delle motivazioni delle scelte, cui non si era abituati negli anni scorsi a tenere il campo. In realtà l'azione non ha che lo scopo di verificare contrapposizioni o ipotesi a proposito delle quali i personaggi si sono ampiamente dilungati.

Dario Bellini


giovedì 20 ottobre 2022

Per una storia dei comunismi del Novecento. Il Partito comunista francese

 


Proponiamo questo libro, di cui non esiste una traduzione italiana, per i molteplici spunti di riflessione che offre su una realtà ancora attuale, ma soprattutto per il metodo usato che condividiamo totalmente. Un modo di fare storia del movimento operaio e delle sue manifestazioni politiche, laico e multidisciplinare, ben esplicitato nell'introduzione che riportiamo.


Introduzione


Chiunque si interessi al comunismo francese si trova di fronte a un oggetto che non lascia mai indifferenti, ma che spesso confonde. A suo modo, è davvero un'eccezione. 

Il comunismo del XX secolo ha certamente avuto un impatto profondo sul suo tempo, dominava vaste aree del continente e affascinava le persone con la sua capacità di attrarre o detestare. Esistevano potenti partiti comunisti, al potere o meno. Tuttavia, pochi sono riusciti a imporsi nel cuore del sistema mondiale costruito attorno all'economia espansiva del capitale industriale e commerciale. Per tutto il "secolo breve ", il comunismo è stato un fenomeno della periferia piuttosto che del centro. Ciò non gli impediva di influenzare l'insieme planetario, anche nella parte di esso che sfuggiva al suo diretto controllo. Ma l'incapacità di salire al potere nelle cittadelle del capitalismo ha limitato il suo impatto e la sua legittimazione nel cosiddetto mondo sviluppato. Il posto importante occupato dal PC nel sistema politico francese non è quindi banale.

Si può naturalmente paragonare alla posizione che la sua controparte ha conquistato in Italia, dopo la sconfitta del fascismo. Tuttavia, la forte presenza dei comunisti è stata costruita in un Paese con un'industrializzazione squilibrata e una democrazia politica poco radicata e ancora fragile. La forza del PC italiano era dovuta innanzitutto al fatto che era il cofondatore di una Repubblica basata non su una base molto antica, ma sull'antifascismo portato al potere da una sconfitta militare. Il comunismo si trovò così in una posizione in cui, pur essendo in minoranza, attirò a sé la maggior parte della tradizione di sinistra, coprendo sia gli spazi di "riforma" che quelli di "opposizione". "Riforme" e "rivoluzione". La Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, don Camillo e Peppone, sono stati a lungo i due poli organizzativi del conflitto e dell'equilibrio nella Prima Repubblica Italiana.

Non è stato così in Francia. Quando alla fine del 1920 nacque il Partito Comunista, la tradizione democratica aveva una lunga storia, la Repubblica era in vigore da mezzo secolo, la sinistra era forte e ramificata e il movimento operaio era ampiamente decollato. Fin dall'inizio, il nuovo partito fu quindi costretto a determinarsi in relazione a una realtà politica preesistente, a lavorare sia su ciò che lo distingueva sia su ciò che lo avvicinava alle altre correnti per costituire possibili maggioranze. Aggiungiamo che è allo stesso tempo parte di un movimento comunista internazionale che voleva essere un "partito mondiale" e un partito politico inserito in un substrato materiale e simbolico strutturato a livello nazionale. L'equilibrio tra le due dimensioni variava a seconda dei momenti; la loro tensione era comunque permanente, almeno fino alla fine della Guerra Fredda.

Ciò significa che è ragionevole evitare qualsiasi visione semplicistica, qualsiasi costruzione superficiale che tenda a dedurre i discorsi e gli atti comunisti da una "natura" o "identità" prestabilita. La storia comunista, come tutta la storia sociale, è il risultato di contraddizioni, di scontri tra esigenze che si combattono o si combinano. È il risultato di determinazioni interne o interne che devono essere rilevate e interpretate.

Ma anche se sono pesanti - la configurazione delle classi, i vincoli dell'apparato, il peso e il controllo dell'internazionale - queste determinazioni non devono in alcun modo essere considerate come fatalità. Sempre intessuta da conflitti e non da necessità univoche, la storia vede la scena politica costantemente occupata da possibilità, alcune delle quali vengono mantenute e altre respinte. Qualsiasi storia del comunismo politico deve quindi mostrare, in egual misura, il peso delle strutture e quello delle scelte degli attori, che orientano un gruppo umano verso una possibilità piuttosto che altre.

Non si può fare alcun progresso intellettuale senza questa presa di coscienza della complessità. È una fortuna che la storiografia sul comunismo non si trovi più, almeno nella sua parte più consistente, nell'epoca del confronto binario tra pro e anticomunisti, e nemmeno nell'epoca del "militantismo accademico". Dobbiamo ricordare, come fa Bernard Pudal, che ci troviamo in una quarta fase della conoscenza storica del nostro soggetto. Meno ideologica che in passato, si nutre della combinazione di metodi vecchi e nuovi, forgiati in molteplici ambienti scientifici e mutuati dalla sociologia, dall'antropologia e persino dalla psicosociologia, oltre che dalla storia. Inoltre, beneficia dell'apertura di un mondo di archivi liberati dal crollo del sistema sovietico all'inizio degli anni Novanta.

È vero che la massa di materiale archivistico messo a disposizione della ricerca ha alimentato l'illusione di una storia finalmente svelata. Accumulati e conservati in una logica meticolosa che unisce controllo politico e sorveglianza poliziesca, questi archivi hanno alimentato la convinzione che la loro rivelazione prendesse il posto dell'analisi storica. L'archivio stesso era "la" verità che era stata accuratamente nascosta fino a quel momento. Tuttavia, nessun archivio può essere utilizzato seriamente senza la mediazione di uno studio delle sue condizioni di produzione e dei pregiudizi che orientano lo sguardo dei suoi produttori.

La vertigine dell'apertura delle fonti documentarie non mancò di avere effetti politici e intellettuali. Per alcuni anni, in relazione all'imposizione ideologica della vulgata "antitotalitaria", si sono accumulati processi a questo o quel paese socialista, a questo o quel partito e molto spesso anche al comunismo in generale. Il tempo delle semplificazioni è passato, almeno per gli storici. Senza dubbio persiste nell'arena politica, dove il gioco delle condanne in blocco occupa ancora lo spazio politico-istituzionale dell'Europa. Ma la storiografia ha piuttosto superato il ricorso a giudizi basati sull'idea che esista un solo comunismo e che, come affermava Papa Pio XI nel 1937, esso "sia intrinsecamente perverso".

l nostro obiettivo non è quello di decostruire i punti di vista esistenti, anche se a volte nel testo prendiamo le distanze da un'interpretazione o da un'altra. In realtà, non pretendiamo di appartenere a nessuna scuola. Questo libro non vuole essere un riassunto dettagliato o una teoria dell'oggetto "Partito Comunista Francese". Non è una storia dei "comunisti", ma di questa struttura in cui hanno scelto di inserire il loro impegno politico. Abbiamo scelto di dare uno sguardo globale a un oggetto particolare, alla cerniera tra il politico e il sociale, un partito politico per eccellenza e un fatto sociale globale, con le sue coerenze e i suoi difetti, le sue strutture e la sua cultura, la sua rigidità e la sua fluidità. Attraverso una storia particolare, il lettore troverà un resoconto semplificato di un secolo tormentato. A seconda del momento, si insisterà sul tempo lungo o sul tempo breve, sulle strutture pesanti o sul gioco degli individui, sulle determinazioni strutturali o sulle incertezze dell'evento.

La narrazione è sintetica e si basa sul maggior numero possibile di opere pubblicate (…). Anche se distaccata il più possibile dai preconcetti, ogni sintesi è una scelta. Accettiamo l'imperfezione della nostra. Siamo semplicemente convinti che solo il confronto ragionato delle scelte sia la chiave di lettura delle inesauribili contraddizioni della realtà.


Roger Martelli – Jean Vigreux – Serge Wolikow
Le Parti rouge. Une histoire du PCF, 1920-2020.
Armand Colin, Paris 2020.


mercoledì 19 ottobre 2022

La Massoneria di colore negli Stati Uniti

 

Giorgio Amico

La Massoneria di colore negli Stati Uniti


Come è stato autorevolmente affermato, nonostante il suo ampio radicamento sociale e la grande vitalità, « la carenza dell'attuale Massoneria statunitense sta nell'illiberalità della non ammissione delle genti di colore » (1). Fra le quali, tuttavia, si sono create Obbedienze anche di notevole consistenza, come la cosiddetta « Massoneria di Prínce Hall ». 

Secondo la tradizione Prince Hall sarebbe stato un nero libero nato nel 1748 a Bridgetown, nelle isole Barbados, da padre inglese e da madre di colore. Nel 1765 il giovane si sarebbe trasferito a Boston, nell'allora colonia inglese del Massachussetts, per dedicarsi all'attività di pellettiere.

L'ascesa sociale del giovane antillano deve essere stata rapida, se solo dieci anni più tardi lo ritroviamo affermato artigiano e benestante proprietario terriero, nonché predica-tore della locale Chiesa Metodista. 

Il 6 marzo 1775 Prince Hall e altri 14 bostoniani di colore vengono iniziati e subito innalzati al grado di Maestro in una loggia militare inglese al seguito delle truppe del generale Gage. Questa loggia garantisce a Prince Hall ed ai suoi confratelli l'autorità di lavorare massonicamente, di partecipare alle celebrazioni della festa di S. Giovanni e di avere funerali rituali, ma non di iniziare nuovi membri o conferire gradi.

Nel 1784 viene perciò fatta esplicita richiesta alla G.L. d'Inghilterra di una patente regolare che permetta di superare tali limitazioni. Concessa nel mese di settembre di quello stesso anno, a causa di incredibili vicissitudini la patente non viene consegnata che tre anni più tardi nell'aprile del 1787.

Finalmente il 6 maggio 1787 la prima loggia massonica di colore in territorio americano è ufficialmente insediata nel pieno dei suoi poteri col titolo distintivo di « African Lodge n. 459 » di Boston. Quattro anni più tardi l'African Lodge si unisce ad altre due logge di colore a formare la «African Grand Lodge » con Prince Hall come Gran Maestro, ufficio questo che il prestigioso leader rivestirà fino alla sua morte, sopraggiunta nel dicembre 1807. Il 24 giugno 1808 in suo onore l'African G.L. cambierà il proprio nome in «Prince Hall Grand Lodge of Massachussetts».

Fin qui la tradizione che ha goduto e gode ancora oggi di grande favore negli Stati Uniti, tanto da condizionare spesso pesantemente la stessa storiografia ufficiale (2). Tale ricostruzione non ha retto alle più recenti e accurate indagini storiografiche, tanto, che la sua credibilità ha subito negli ultimi anni duri colpi.

In realtà Prince Hall sembra essere stato un africano, nato verso il 1735 in un punto imprecisato del continente nero, catturato tra gli 11 e i 14 anni e venduto come schiavo nel New England. Da un certificato di manomissione conservato nella Boston Athenaeum Library risulta incontrovertibilmente che egli lavorò per 21 anni alle dipendenze di un certo William Hall che lo liberò, concedendogli come allora d'uso il suo nome, il 9 aprile 1770 (3). Abile artigiano, Prince Hall riuscì a raggiungere una modesta agiatezza, rivestendo anche cariche pubbliche e dedicandosi attivamente al progresso e alla tutela della popolazione di colore di Boston e del Massachusetts.

Se la vita profana di Prince Hall è ormai conosciuta anche nei dettagli, le circostanze della sua ammissione alla Massoneria rimangono in gran parte oscure. Di certo si sa che egli fu iniziato il 6 marzo 1775 assieme ad altri 14 cittadini di colore in una loggia militare probabilmente alle dipendenze della G.L. d'Irlanda. Ad iniziarli fu un certo John Batt, un avventuriero dalla carriera militare non molto limpida, tanto che si è perfino ipotizzato che tutto l'affare altro non sarebbe stato che un elaborato imbroglio architettato da un gruppo di militari burloni e squattrinati per intascare le 45 ghinee, una cifra rilevante per i tempi, che i 15 profani dovettero versare come tassa d'iniziazione (4).

Di sicuro c'è che negli archivi delle tre G.L. (d'Inghilterra, d'Irlanda e di Scozia) alle cui dipendenze operavano le 14 logge militari di stanza allora in Boston, nulla risulta circa questo avvenimento, an-che se va considerato il fatto che la documentazione può essere andata perduta a cause delle alterne vicende della guerra d'indipendenza americana scoppiata poco dopo.

La situazione si regolarizzò comunque nel 1784 con la concessione di una patente da parte della G.L. d'Inghilterra (Moderns), patente che, come si è visto, fu consegnata solo dopo tre anni.

È impossibile stabilire con esattezza quando e in base a quale autorità l'African Lodge assunse i poteri di una G.L.. Secondo la Massoneria americana bianca, che basa essenzialmente su questo dato il proprio non riconoscimento, si trattò di un'usurpazione in quanto l'African Lodge non aveva alcun potere di fondare nuove logge. Comunque già, il 22 marzo 1797 un certo Peter Mantore di Filadelfia chiese a Prince Hall una patente per una nuova loggia. Egli aveva precedentemente rivolta la stessa richiesta alla G.L. della Virginia (bianca), ma la domanda era stata respinta. Prince Hall si rivelò ben lieto di allargare gli angusti limiti della sua Obbedienza e concesse un duplicato della propria patente originale, determinando così la nascita di una «African Lodge n. 459 » a Filadelfia (5).

Dopo il 1792, per motivi ancora oggi sconosciuti, viene a cessare ogni rapporto tra l'African Lodge e la G.L. d'Inghilterra, tanto che nel 1813 la nuova G.L. Unita, nata dalla riunificazione di "Antichi" e "Moderni", decise di radiare dai propri ruoli la loggia di Boston che non aveva dato da anni più notizie di sé. Dal canto suo l'African Lodge non sembra essere stata informata di ciò, né dell'unificazione avvenuta nello stesso anno dei due tronconi in cui si era divisa la Massoneria inglese, tanto che ancora nel 1824 l'allora G.M. in carica, S. H. Moody, scriveva a Londra per informare la G.L. Madre sul buon andamento dei lavori.

Sicuramente nei primi due decenni dell'Ottocento la loggia di colore sofferse una grave crisi, come d'altronde testimonia la quasi assoluta mancanza di verbali. Verso il 1824 si iniziano ad intravvedere sintomi di ripresa che culminano nella dichiarazione di indipendenza del 1827.

Gran Maestro era allora John Telemachus Hilton, un mulatto nato in Pennsylvania nel 1801 e innalzato al grado di maestro nel 1823, da poco eletto alla suprema dignità. Dotato di grandi capacità organizzative e di un'assoluta fiducia nelle possibilità di una Massoneria di colore negli Stati Uniti, Hilton operò prima lo sganciamento della propria loggia da ogni legame con altri corpi massonici (Dichiarazione formale d'Indipendenza del 18 giugno 1827) e poi diede un contributo determinante a trasformare l'African Lodge in una vera G.L., costituendo a tal fine logge a New York e Providence.

Gli ideali di Hilton erano destinati ad avere una rapida attuazione. Agli inizi degli anni Quaranta negli Stati Uniti operavano ormai ben tre corpi massonici di colore, infatti all'African G.L. di Boston si erano via via aggiunte la First Independent African Grand Lodge of North America, nata nel 1815 dalla vecchia African Lodge di Filadelfia, con logge in Pennsylvania, New Jersey, New York, Maryland e District of Columbia (6), e la Hiram Grand Lodge of Pennsylvania, nata nel 1837 da una scissione della First G.L..

Dopo anni di intense rivalità e di polemiche feroci, nel 1847 J. T. Hilton prese l'iniziativa di convocare una Gran Convenzione Nazionale di tutti i gruppi massonici di colore operanti sul territorio degli Stati Uniti al fine di costituire una G.L. Nazionale unificata. La Convenzione, tenutasi a Boston il 23-24 giugno 1847, portò alla formazione di un'unica organizzazione col nome di National Grand Lodge of Free and Accepted Ancient York Masons of United States of North America. Gran Maestro Nazionale fu eletto Io stesso Hilton. La Convenzione adottò anche una « Dichiarazione d'Intenti » in cui si riprendevano le linee principali della dichiarazione d'indipendenza del 1827 e si rivendicava il diritto di concedere patenti o dispense a tutte le G.L. di Stato sotto le giurisdizione della nuova G.L. Nazionale. Conformemente a ciò, all'indomani della Convenzione tutte le logge restituirono le loro patenti e furono ricostituite ex-novo dalla G.L..

Il 28 aprile 1848 l'African G.L. di Boston si trasformò così in Prince Hall Grand Lodge of Massachusetts. All'indubbio successo rappresentato dalla Convenzione di Boston seguirono anni non lieti. Risorsero ben presto le antiche rivalità e vecchie polemiche mai del tutto sopite divisero l'Istituzione.

La polemica principale verteva proprio sull'opportunità che esistesse una G.L. Nazionale con poteri sulle G.L. di Stato. Da un lato vi erano i sostenitori dei diritti sovrani di ogni G.L. di Stato che credevano fosse più opportuno imitare l'esempio della Massoneria bianca che, gelosa delle prerogative sovrane di ogni singola G.L., mai aveva voluto costituire un'organizzazione unificata per l'intero territorio americano. Dall'altro lato si schieravano i difensori della G.L. Nazionale i quali sostenevano che una G.L. con pieni poteri sul territorio nazionale avrebbe evitato contrasti fra le G.L. di Stato e conferito più autorevolezza all'Istituzione nel suo complesso.

Nel 1871 la G.L. dell'Ohio, che si era apertamente ribellata alla G.L. Nazionale in difesa degli «States' Rights», fu espulsa; analoga sorte toccò due anni più tardi alla stessa Prince Hall G.L. of Massachusetts.

Via via altre GL si staccarono dall'organizzazione nazionale e per distinguersi, oltre che per rivendicare una maggiore purezza massonica, adottarono il nome di Prince Hall. Infine nel 1877 si arrivò alla spaccatura definitiva tra le due componenti, la National G.L. e le ribelli «States' Rights G.L.». Nel 1909, ad imitazione della Massoneria bianca, queste ultime decisero di istituire periodiche conferenze dei G.M. e proprio nel corso di una di queste conferenze, svoltasi ad Hot Springs (Arkansas) nel 1944, stabilirono che tutte le G.L. associate dovessero obbligatoriamente assumere il titolo distintivo di Prince Hall Grand Lodge.

Attualmente negli Stati Uniti la Prince Hall Freemasonry è la più diffusa Obbedienza di colore con circa 40 G.L. associate; viene poi la National G.L. con 27 G.L. di Stato. Nessuna di queste G.L. è riconosciuta da G.L. bianche ad eccezione della «Alpha Lodge» n. 116 del New Jersey che rappresenta finora l'unico esempio di una loggia di colore alle dipendenze di una G.L. bianca (7).

Note

1) Cfr. Massoneria oggi, in « Delta », febbraio 1983.

2) A questo proposito si vedano: W. H. Grimshall, Official History o/ Freemasonry Among the Coloured People, Washington 1903; H. E. Davis, Freemasonry Among Negroes in America, United Supreme Council, 1964; Prince Hall Masonic Year Book (pubblicazione ufficiale della Conferenza dei GM della Massoneria Prince Hall).

3) Cfr. G. D. Draffen, Prince Hall Freemasonry, in «Ars Quatuor Coronatorum», vol. 89, 1976, pp. 70 e sgg.

4) Cfr. G. D. Draffen, op. cit., p. 73.

5) Cfr. J. H. Sherman, The Negro "National" or "Compact" Grand Lodge, in «Ars Quatuor Coronatorum», vol. 92, 1979, p. 153.

6) Cfr. C. Woodlin, The Masonic National Union: a History of the Origin of Ancient Freemasonry Among the Coloured People in the United States of America, 1855.

7) Cfr. l'appendice di H. W. Coil a Sherman, cit., p. 168.



Fonte: Delta, 6, febbraio 1984, pp. 27-32.

Completa il Quaderno un'appendice documentaria contente le Patenti della GL d'Inghilterra, il regolamento generale della Loggia Africana e la Petizione contro la schiavitù indirizzata da Prince Hall al Consiglio e alla Camera dei Rappresentanti del Massachusetts il 13 gennaio 1777.

lunedì 17 ottobre 2022

domenica 16 ottobre 2022

lunedì 10 ottobre 2022

Essere o non essere. L'uomo e la morte nella cultura dell'Occidente

 


Sta per iniziare l'anno accademico 2022-2023 dell'Unisabazia. Dopo un anno di pausa dovuta alla pandemia riprendiamo una collaborazione che dura ormai da quasi vent'anni con un corso su un tema, quello della morte, che la cultura edonistica propria di una società basata sul consumo, cerca in ogni modo di esorcizzare. E questo nonostante lo spettacolo della morte non sia mai stato dal 1945 così forte come in questo frangente segnato dalla pandemia e dalla guerra spinta fino alla minaccia dell'olocausto nucleare. Ragionare sulla morte, dunque, non come semplice approfondimento storico-antropologico, ma come stimolo ad una riflessione sul senso autentico della vita.

Essere o non essere. L'uomo e la morte nella cultura dell'Occidente


I. L'uomo di fronte alla morte. Riti e credenze funebri


18 ottobre 2022 - Riti funebri nella preistoria
25 ottobre 2022 – La morte nel mondo classico. Etruschi, Greci, Romani
8 novembre 2022 - La morte nel mondo medievale
15 novembre 2022 - La morte nel mondo moderno


II. L'uomo di fronte alla morte. Il viaggio nell'Aldilà


22 novembre 2022 - Il Libro tibetano dei morti
29 novembre 2022 - Il culto dei Misteri nel mondo greco e romano
6 dicembre 2022 - Morire e rinascere. Riti iniziatici moderni (Il caso della Massoneria)

lunedì 3 ottobre 2022

Lungo le vie del sale fra Liguria e Piemonte a dorso di mulo

 

   Saliceto, Chiesa di S. Agostino (1455 ca.)

Giorgio Amico

Lungo le vie del sale fra Liguria e Piemonte a dorso di mulo


La rete viaria romana e le vie di valico

A metà del secondo secolo a.C. i Liguri sono definitivamente sottomessi dai romani che si dedicano alla costruzione di una vasta rete stradale (Via Postumia, Via Aemilia Scauri, Via Julia Augusta) e alla fondazione di città (Vada Sabatia-Vado, Albingaunum-Albenga, Albintimilium-Ventimiglia, Alba Pompeia-Alba, Augusta Bagiennorum-Benevagienna, Augusta Taurinorum-Torino, Pedona-Borgo San Dalmazzo, solo per citare le più importanti) collocate in snodi fondamentali della rete viaria.

Gli studi archeologici hanno evidenziato una popolazione sparsa sul territorio con insediamenti diffusi sia lungo la costa sia nell’entroterra (attuale Valle Bormida e Basso Piemonte, si è ipotizzata l’esistenza già in epoca romana di una fitta rete stradale secondaria, soprattutto in direzione trans-apenninica, lungo percorsi di valico che dalla costa conducevano alla Pianura Padana.

Le più importanti per restare alla Liguria occidentale di queste vie di valico sono la Ventimiglia-Pedona (l’attuale Borgo San Dalmazzo) che passava per Tenda, la cosiddetta Via Marenca (dalla zona di Imperia al passo Garlenda, al monte Bertrand, a Limone, con sbocco a Pedona), la via che da Alberga valicava il passo di San Bernardo per scendere in Valle Tanaro, il percorso che da Finale giungeva in Val Bormida attraverso sia il colle del Melogno che quello di San Giacomo. Questa rete stradale, ampi tratti della quale sono giunti fino a noi, sopravvive alle invasioni barbariche e riacquista nuova vitalità a partire dall’epoca carolingia. 

E’ una rete viaria fortemente condizionata dall’ambiente geografico e dalla vocazione del territorio a fungere da ponte fra nord e sud, funzionale al trasporto delle merci dall’interno verso il mare e viceversa. Ad ogni valico che permette il superamento delle montagne corrisponde una valle allo sbocco della quale troviamo sempre un porto.

La particolare configurazione del territorio ligure, caratterizzato da una ridottissima fascia pianeggiante litoranea e dall’esistenza di una catena ininterrotta di monti (Alpi Marittime, Apennino ligure) a ridosso immediato del mare, ha da sempre determinato le modalità concrete dello spostamento di merci e persone. 

Le vie di valico si caratterizzano soprattutto sul versante costiero per l’asperità delle salite (spesso con pendenze superiori al 15%) e dei fondovalle, generalmente tortuosi, stretti e franosi. Ciò determina la necessità di opere viarie (ponti, muraglioni di sostegno) imponenti e costose , necessitanti di una continua manutenzione.

Anche i percorsi di crinale non sono agevoli per l’esistenza di frequenti asperità dovute alla presenza di valli trasversali che dalla montagna scendono verso il mare in presenza di corsi d’acqua a carattere torrentizio.

Queste caratteristiche sfavorevoli rendono economicamente svantaggioso quando non materialmente impossibile l’uso di mezzi di trasporto a ruota, per cui, a parte le grandi strade consolari romane, la tipica via di comunicazione ligure è la mulattiera.

Un fenomeno duraturo, se si pensa che le prime strade carreggiabili anticipano solo di trenta anni la costruzione delle ferrovie Savona-Torino e Genova-Ventimiglia. Fino agli anni Sessanta del XIX secolo le vie di comunicazione restano come nel Medioevo le mulattiere, cioè le antiche vie del sale.

Le vie del sale

Fino alla costruzione delle strade moderne caratterizzate da trafori e viadotti che permettono di superare gli ostacoli naturali in linea retta, le asperità naturali venivano aggirate, da qui la tortuosità e la lunghezza dei percorsi che mettevano in comunicazione località anche vicine. Solo fondovalle larghi e limitati tratti di pianura costiera permettevano il transito dei carri, per cui l’impiego dei veicoli era limitato ai traffici locali intorno ai principali centri abitati.

Le persone si spostavano a piedi, le merci a dorso di mulo. E’ stato calcolato che un mulo a pieno carico non poteva percorrere in una giornata più di sei/sette ore di cammino ad una velocità non superiore, proprio per l’asperità dei percorsi, ai due chilometri l’ora. Ne consegue l’esistenza di una fitta rete di punti di tappa (laici e religiosi-taverne ed ospizi), corrispondenti ad una giornata di cammino e distanti fra loro di 10-15 Km.

Di queste merci il sale ha rappresentato per oltre un millennio l’elemento centrale e più prezioso. Le vie di comunicazione fra costa e entroterra, luoghi di questi traffici, diventano dunque fin dal primo medioevo le vie del sale.

Fino all’Ottocento (e allo sviluppo conseguente all’urbanizzazione massiccia di una moderna industria alimentare e di tecniche avanzate di conservazione degli alimenti) il sale rappresenta l’elemento fondamentale dell’alimentazione in quanto permette la conservazione dei cibi. Non va inoltre trascurata l’importanza del sale nella conciatura delle pelli.

Le vie del sale riprendevano ampliandoli i vecchi percorsi di valico di epoca romana se non addirittura pre-romana (si veda l’esempio della Val Roja). Da Ventimiglia lungo la Val Roja o la Val Nervia si raggiungeva il Colle di Tenda (Borgo SD), il Colle del Sabbione (Entracque), la Madonna del Colletto (Demonte), il Colle dell’Otica (Val Grana), il Colle d’Esischie (Val Maira), Elva (Val Varaita), Chianale-Colle dell’Agnello-Col de Vieux (Valle Pellice), Balboutet (Val Chisone), Susa e Novalesa, Moncenisio (Val d’Isere), La Thuile (Alta Savoia), Ginevra.

Da Oneglia-Porto Maurizio attraverso la valle dell’Impero si saliva a Pieve di Teco, poi al Col di Nava (Ospedale di S. Lazzaro). Da Albenga si raggiungeva Nizza con una strada alternativa alla via costiera che toccava via via Vessalico, Rezzo, Triora, Pigna, Sospello.

Sempre da Albenga, tramite la Valle Arroscia, il Colle di Nava, Val Tanarello, Monesi, Carnino, Passo delle Saline, si scendeva in Val Ellero a Rastello. Un percorso considerato il più diretto fra la costa e il monregalese, preferito a quello transitante per il colle di San Bernardo. Da Finale via Calice-Carbuta si svalicava alla Madonna della Neve, qui la via si biforcava verso Osiglia (sede a S. Giacomo dei Ronchi di una casa templare), Mallare e Pallare (Abbazia di Fornelli) e verso il colle di San Giacomo (Ospizio). Da Savona tramite la Rocca di Legino si saliva a Montemoro (Ospedale di san Giacomo) e poi a Cadibona o con un percorso secondario via Lavagnola (Ospizio di san Martino), si saliva al Priocco e poi via Naso di Gatto si scendeva all’Abbazia di Ferrania attraverso la zona del Parco dell’Adelasia (Bosco di Savona).

La presenza costante di toponimi riferentesi a San Giacomo ci rivela che le vie del sale erano anche le vie dei pellegrini diretti in Terra Santa o a San Giacomo di Compostella.

Vie di traffico intenso. Basti pensare che dal solo Marchesato del Finale (dal 1602 possesso della corona di Spagna in quanto via strategica per il Granducato di Milano) nel biennio 1641-43 transitano 13.500 quintali di sale.

Il sale veniva prodotto alle foci del Rodano nelle grandi saline della Camargue ( a cui a partire dal XVII Secolo si aggiungeranno la Sardegna, le Baleari e l’Africa del nord), da lì trasportato per nave ai porti della costa (Nizza, Villefranche-sur-mer (“Porto reale” dei Savoia, Ventimiglia, Porto Maurizio, Albenga, Finale, Savona, Genova), dove iniziavano i percorsi di valico.

Un traffico intenso, fonte di intensi guadagni per privati e Stati (fortissimi dazi che determinano spesso i percorsi e un esteso contrabbando), che vede già intorno ai primi secoli dopo il Mille (i più antichi documenti rimasti risalgono al 1212) “Compagnie” (come quella di Tenda) che raggruppano centinaia di mulattieri e migliaia di muli.

Un traffico tanto intenso e ricco da determinare addirittura l’apertura del primo tunnel nelle Alpi, quando nel 1480 Lodovico II, marchese di Saluzzo, apre il cosiddetto Buco del Viso, una galleria di ottanta metri, per tre di altezza e largo quanto basta per il passaggio di un mulo carico, che sotto il Colle delle Traversette mette in collegamento il Marchesato con il Delfinato.

Ogni mulo trasportava circa 120 chili di mercanzia, o due “brente” (antica unità di misura piemontese pari a 50 litri) di vino o d’olio. Si trattava di carovane di una cinquantina di muli, condotti a gruppi di tre da un conduttore, in grado di trasportare ad ogni viaggio circa 6000 chilogrammi di carico.

Un traffico destinato a durare intensissimo fino all’apertura delle prime strade moderne nel XIX secolo, anzi ad accrescersi con lo sviluppo delle città e delle industrie. Per inciso ricordiamo che al trasporto del sale si erano via via affiancati quello dell’olio e del vino e poi, a partire dalle prime ferriere impiantate ad Osiglia dai monaci benedettini nel XII secolo, quello del ferro (come minerale dall’Elba e come semilavorato dalle ferriere d’oltregiogo) e del carbone. Ancora nel 1812, in piena epoca napoleonica, una relazione, dopo aver definito il percorso tra Alba e Savona “un orribile sentiero, ma frequentatissimo”, stimava un passaggio di 52mila carichi di mulo all’anno.

(Testo di una lezione tenuta all'Unisabazia il 5 novembre 2008)


domenica 2 ottobre 2022

Raffaele K. Salinari, Spettro e fuoco del raggio verde

 


Dal tramonto all'alba. Misticismo e Jules Verne, L’Opera Alchemica e Jack Sparrow: un mistero luminoso 


Raffaele K. Salinari

Spettro e fuoco del raggio verde


Molti ricorderanno la scena del film Pirati dei Caraibi – Ai confini del mondo, in cui per recuperare il capitano Jack Sparrow dallo scrigno fatato di Davy Jones, Barbossa, Elizabeth e Will Turner, con il resto della ciurma, sono costretti a ribaltare la nave, così da essere sott’acqua nel momento del «Raggio Verde». «Il vostro sguardo si è mai posato su un verde baleno, mastro Gibbs?» chiede Barbossa «Ho visto anche questo, lo devo ammettere. Avviene in rare occasioni: nell’ultimo spasmo di tramonto un verde baleno si impenna su nel cielo. C’è chi tutta una vita non lo vedrà mai e c’è chi afferma che sì, era presente, e c’è chi dice che è il segnale di quando un’anima rimette piede in questo mondo da quello dei morti!».

Altri, invece, andranno con la memoria al film omonimo del  1986 diretto da Éric Rohmer in cui una depressa segretaria parigina, scaricata sia dal ragazzo sia dall’amica per le vacanze, si aggira inquieta tra le strade della città ed improbabili amicizie di provincia. Troverà infine l’amore vedendo il Raggio Verde al tramonto del sole su un promontorio di Biarritz.

Tutte queste sono, in realtà, citazioni del romanzo di J. Verne che porta lo stesso nome, storia di una ragazza che cerca il suo Raggio Verde e, dopo infinite avventure, rischiando la morte, non lo vede direttamente, ma lo percepisce intimamente assieme al suo amore. L’autore lo descrive in questi termini: «Un raggio verde, ma di un verde meraviglioso, di un verde che nessun pittore può ottenere sulla sua tavolozza, un verde di cui la natura né nella varietà dei vegetali, né nel colore del mare più limpido, ha mai riprodotto la sfumatura! Se c’è del verde in paradiso, non può essere che quel verde, il vero colore della speranza».

Il Raggio Verde

E infatti la leggenda del Raggio Verde, forse di origine irlandese, forse inventata da Verne stesso, dice che chi lo ha visto può leggere nell’intimo cuore di se stesso e delle altre persone capendone l’essenza. Ma esiste davvero il Raggio Verde e da dove vengono queste storie legate alla sua visione? Il nostro Raggio è in natura un fenomeno ottico visibile quando il Sole, all’alba o al tramonto, crea una sottile striatura luminosa dal colore verde che dura pochi istanti. Questo è dovuto alla rifrazione della luce solare da parte dell’atmosfera: in certe condizioni i raggi solari vengono scomposti come in un prisma tra le varie componenti colorate, e quella verde si distingue per contrasto con la tonalità generale giallo-arancione del cielo. Il colore del raggio è il verde veronese, così chiamato in onore di Paolo Veronese, il pittore scopritore del pigmento. Occasionalmente può sfumare nel blu-indaco, dando vita al «Raggio Blu». Questo avviene perché, notoriamente, il verde precede, nello spettro luminoso, questo colore. 

La storia del Raggio è antica: varie popolazioni, tra cui i caldei i babilonesi e gli egizi, notarono il fenomeno senza riuscire però a spiegarne l’origine. Gli Egizi in particolare ritenevano che il disco solare una volta sparito al di sotto dell’orizzonte si tingesse di verde smeraldo, per poi riprendere la colorazione usuale all’alba successiva.

La tavola smeraldina

Tornando per un momento alla scena dei Pirati che rivoltano la nave per ritrovare la realtà perduta, è interessante notare che la formula rivelatrice «così sopra come sotto», viene interpretata da Jack Sparrow, l’unico in grado di leggere la mappa misteriosa che indica qualsiasi terra ignota, esattamente come l’incipit del più famoso testo ermetico, la Tavola di Smeraldo che recita: «È vero senza menzogna, certo e verissimo, che ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare il miracolo della cosa unica. E poiché tutte le cose sono e provengono da una sola, per la mediazione di una, così tutte le cose sono nate da questa cosa unica mediante adattamento». 

Lo smeraldo sul quale Ermete Trismegisto, il «tre volte grande», incise queste parole, era forse quello caduto dalla fronte di Lucifero durante la sua dannazione per avere peccato di superbia nei confronti di Dio portando, come Prometeo, la luce agli uomini, ma anche la stessa pietra preziosa nella quale fu scavata la coppa per la raccolta del sangue di Cristo: il Santo Graal. Ecco che, allora, la scena apparentemente fantasiosa del film, si colora, è il caso di dirlo, di una tonalità molto più profonda, esoterica, che in fondo rende ragione della magica attrazione di tutti i film che mantengono la tradizione principiata da Walt Disney, cultore dell’esoterismo, iniziato all’Ordine De Molay, l’anticamera della Libera muratoria, già nel 1920.

La visio smaragdina

A questo punto, per completare il quadro, dobbiamo introdurre il fenomeno dei «fotismi» colorati che i mistici sufi percepiscono nell’attraversamento dei loro stati spirituali, e che li porteranno alla visione della Luce Verde come manifestazione massima del divino. Prima di tutto, in coerenza con l’impianto immaginale, va chiarito che non si tratta assolutamente di percezioni fisiche; N. Kobrâ si riferisce ad essi come a qualcosa che si vede «chiudendo gli occhi». Certo esistono delle corrispondenze tra i colori fisici e questi «colori auratici» come possiamo definirli, ma ciò che fa la differenza tra le due categorie è l’organo della percezione: nel caso dei colori fisici l’occhio anatomico, in quelli auratici il senso della visione sovrasensibile, che appartiene alla complessa fisiologia simbolica dell’«Uomo di Luce». 

E dunque il mistico sufi, e non solo, si immagina come scintilla divina: egli deve tornare a congiungersi con la fonte luminosa che lo ha generato; e cosi vede realmente ed effettivamente tenebre e luce, e le percepisce alternativamente come stati da cui aspira a separarsi, le prime, poiché lo attirano verso il basso, verso il «pozzo nero» dell’ignoranza, o cui tendere, la Luce, che percepisce misticamente in tutti i segni premonitori della Liberazione: «durante il tuo cammino infatti Egli ti verrà incontro ovunque» si dice nel Corpus Hermeticum (XI, 21).

Ora, per collegare pienamente la natura del mistico sufi all’appercezione dei «fotismi» colorati, possiamo citare una frase tratta dal Fawā’ih al-jamāl wa l-fawātih al-jalāl (Gli schiudimenti della Bellezza e i profumi della Maestà), di N. Kobrâ: «Apprendi, amico mio, che l’oggetto della ricerca è Dio, e che il soggetto che cerca è una luce che proviene da Lui (una particella della sua luce)». Qui appare chiaro come il cercatore, il saggio, l’iniziato, sia una scintilla della Luce creatrice prigioniera che aspira a ricongiungersi con la sua Origine, ove questa gli apparirà come la sua «Natura Perfetta».

«Ogni volta che sale da te una luce, scende verso di te una luce», ci ricorda ancora N. Kobrâ. Naturalmente, per giungere a questo, c’è bisogno di una inesausta lotta spirituale: il «saper conoscere il divino, averne avuto la volontà e la ferma speranza», che il sufi compie con l’aiuto dei suoi Maestri, della preghiera e dei suoi simboli. La scelta data è dunque tra il ricongiungimento dell’«Uomo di luce» con la sua Guida celeste, e «l’ignoranza del divino» che segna così la dannazione dell’anima nelle tenebre.

Come abbiamo accennato, sono gli esercizi spirituali ad «accendere» i «fotismi» colorati che porteranno, di colore in colore, sino alla Visione di Smeraldo. Nel caso del sufismo, l’esercizio (dhikr), insieme a posture e studio simbolico, è imperniato sulla ripetizione della prima parte della shada, la professione di fede: la ilaha illa’llah (nullus deus nisi deus), meditata secondo le regole della Confraternita. Perseguendo con la «volontà e la ferma speranza» ecco che ad un certo punto si accende un «fuoco interiore» che «brucia» le tenebre dell’anima.

Il fuoco alchemico

È interessante notare come questa del «fuoco» sia l’immagine percepita da quasi tutti i mistici, indipendentemente dalla loro base religiosa. Ad esempio ecco la descrizione dell’estasi tratta dall’autobiografia di Teresa d’Avila, composta tra il 1562 e il 1565: «Vedevo un angelo vicino a me, a sinistra, in sembianze carnali, come non ne avevo mai visti tranne che nelle mie visioni. […] Non era alto, era piccolo, e molto bello, aveva il volto così illuminato che mi sembrava uno degli angeli delle schiere più alte, quelli che sembrano bruciare. […] Gli vedevo in mano un lungo dardo dorato, e alla fine del ferro mi sembrava ci fosse un po’ di fuoco. Mi sembrava che col dardo mi trafiggesse il cuore alcune volte, e che mi arrivasse fino alle viscere. Quando toglieva il dardo, mi sembrava quasi che se le portasse via con sé, e che mi lasciasse tutta bruciare di un grande amore per Dio. Il dolore era così forte che mi faceva emettere alcuni gemiti, ma era così grande la dolcezza che questo fortissimo dolore mi dava, che non riuscivo a desiderare che smettesse, né che la mia anima si contentasse con altro che non fosse Dio. Non era un dolore fisico, ma spirituale, anche se in qualche misura lo stesso corpo ne era partecipe, anzi lo era davvero molto. Era una carezza così dolce tra l’anima e Dio, che prego la sua bontà affinché la possano provare anche coloro che pensano che io menta». 

Ora, al di là della sensualità erotica, il tema del fuoco che brucia ed illumina è lo stesso che troviamo nelle testimonianze dei sufi. E, a motivo dell’impostazione alchemica del sufismo, attraverso questo fuoco spirituale si tratta di «estrarre dall’organismo sottile la luce dalle montagne sotto cui giace prigioniero», dice N. Kobrâ. È a questo punto che cominciano progressivamente a manifestarsi, come nelle fasi dell’Opera Alchemica, diversi colori: nero, bianco, rosso, intramezzato dalla viriditas, il verde, «fotismo» della purezza della visione spirituale.

Le corrispondenze alchemiche sono assolute tanto che, continua N. Kobrâ: «Tu provi interiormente in te ciò che visualizzi attraverso la tua vista interiore e, viceversa, visualizzi attraverso la tua vista interiore ciò che provi in te». Anche il concetto stesso di fuoco spirituale va riportato a quello acceso sotto il crogiolo alchemico: non esiste la possibilità di comprendere il giusto regime del fuoco fisico senza la comprensione, cioè la presenza in se stessi di quello spirituale. Per questo le «opere buone», che E. Canseliet attribuisce al Fulcanelli nell’introduzione del Il Mistero delle cattedrali, hanno un ruolo imprescindibile, anzi, non devono essere considerate un mezzo ma un fine, il compimento dell’Opera stessa. E ancora: «Non ho conosciuto alchimisti che non cercassero rifugio nel XII Imâm, quello nascosto, l’Imâm dell’ultimo giorno», confessa da parte sua un alchimista persiano.

E dunque, il Raggio Verde di Jack Sparrow e dei suoi sodali Pirati dei Caraibi, è il simbolo di una vita forse lontana dalla legge degli uomini, ma certo molto vicina, per purezza di intenti, a quella divina.

Il Manifesto/Alias – 1 ottobre 2022




sabato 1 ottobre 2022

Il Programma del Grande Oriente d'Italia (1861)

 


Il 16 marzo 1805 nasceva a Milano il Grande Oriente d'Italia. Nato sotto l'egida francese il GOI finì la sua prima fase di vita con la caduta di Napoleone. La Restaurazione del vecchio ordine rese impossibile l'esistenza legale in Italia della Massoneria che sopravvisse in forme clandestine estremamente ridotte e frammentate Si dovette attendere il 1859 perché il Grande Oriente riprendesse vita, conseguenza diretta dell'ormai avviata unità nazionale, con la fondazione a Torino della Loggia Ausonia. La prima assemblea costituente del GOI fu organizzata il 20 dicembre 1860 in una situazione di estrema confusione. Come scrive Luigi Polo Friz:

"Nei primi anni Sessanta in Italia coesisterono Obbedienze diverse, in lotta continua fra loro. A Palermo un Supremo Consiglio arroccato su rivendicazioni di primogeniture inesistenti, a Napoli il Grande Oriente Napoletano di Domenico Angherà, teso a dimostrare a sua volta di avere avuto per padre putativo Pitagora, si contesero aspramente l'esclusiva del rito che praticavano, lo scozzese. Lo fecero richiamandosi a tradizioni vetuste e fumose. È nostra convinzione che combattessero solo per avere la supremazia sul territorio in cui operavano. A Torino il Grande Oriente Italiano, che si appoggiava sui 3 gradi del Rito Simbolico, fu l'unico a raggiungere una struttura definibile nazionale ed è da considerare il germe della Massoneria peninsulare intesa come componente di un'unica entità politica." (Luigi Polo Friz, “Una voce”. Lodovico Frapolli. I fondamenti della prima Massoneria italiana, Carmagnola, Ed. Arktos, 1998, p. 11.)

Da qui la necessità non solo di radicare il Grande Oriente su tutto il territorio nazionale, ma soprattutto di dotarlo di un Programma che costituisse le fondamenta politiche di tale opera di costruzione. Tale Programma non poteva che andare nel senso della costruzione di una cultura nazionale condivisa, insomma in quello che Massimo d'Azeglio chiamò “il fare gli Italiani”.Il compito dell'ora era quello e a quello si dedicò la Massoneria ricostituita fino a che il fascismo non la costrinse di nuovo alla clandestinità

Il documento che presentiamo, riscoperto alla fine degli anni '70 da Ivan Mosca, allora Gran Maestro Aggiunto del Grande Oriente d'Italia, testimonia di questa volontà ed evidenzia il carattere eminentemente politico della ricostituita Massoneria italiana e la grande attenzione posta alla questione dell'istruzione e del lavoro considerate centrali nella costruzione di un paese laico, moderno e democratico.

Il Quaderno (in versione pdf) può essere scaricato dal sito www.academia.edu o richiesto a cedoc.sv@gmail.com