Il profondo messaggio
dell'enigma che risale agli albori del pensiero
Raffaele K. Salinari
Sciarada, una voce
arcana
Proviamo a chiederci come
mai, in quest’epoca di smartphone e video virali, di
notizie in tempo reale e multimedialità imperante, il settimanale
più venduto in Italia resta La Settimana Enigmistica. Chi di
noi non ha messo alla prova il suo acume almeno una volta attraverso
la Pagina della Sfinge cercando di risolvere una sciarada ad enigmi
collegati? Oggi, ad uno sguardo superficiale, può sembrare un banale
passatempo da pendolari; ma perché dai quei quadratini neri tra una
parola e l’altra di un semplice cruciverba emana ancora un
affascino che ci trattiene sulle pagine con la forza di un
incantesimo: da dove viene questo potere? Forse dagli albori del
pensiero, quando la soluzione dell’enigma portava un messaggio
drammaticamente profondo, abissale.
La morte di Omero
Una storia tra le più
antiche, ripresa anche da Aristotele, ci narra le circostanze della
morte di Omero, il più sapiente tra gli uomini, come dice Eraclito
di Efeso. Sappiamo che il cantore dell’Iliade morì nell’isola
materna di Io «di scoramento» per non essere stato in grado di
interpretare la risposta che alcuni giovani pescatori avevano dato
alla sua domanda su cosa avessero preso; quelli, non avendo preso
alcun pesce, ma intenti a spidocchiarsi, così risposero: “Ciò che
abbiamo preso lo abbiamo gettato e ciò che non abbiamo preso lo
portiamo con noi”. Essi si riferivano ai pidocchi di cui si erano
appena liberati e a quelli che ancora li tormentavano, ma Omero, non
riuscendo a capirlo, morì.
Molti secoli dopo,
durante la Seconda Guerra mondiale, i Nazisti concepirono una machina
che cifrava le loro comunicazioni e la chiamarono con lo stesso nome
di ciò che aveva determinato la morte di Omero: Enigma; lo stesso
nome per la stessa essenza: qualcosa che evoca l’oscuro, l’ambiguo,
a volte lo spaventoso, il malevolo, il perturbante, ma soprattutto,
alla sua scaturigine, il divino.
E allora, come nasce
l’enigma? Da dove prende la sua natura? Per rispondere a queste
domande dobbiamo risalire il tempo sino a quando la comunicazione tra
gli dei e gli uomini era ancora possibile, prima delle nozze di Cadmo
ed Armonia, l’ultima volta che le due razze si incontrarono
convivialmente sulla terra.
Enigma e sapienza
L’epilogo esiziale
dell’episodio omerico può sembrare eccessivo ma, come fa notare
Giorgio Colli nel suo La nascita della filosofia, l’enigma è
legato direttamente alla nascita della sapienza.
Omero, infatti, è ancora
un sapiente, non un semplice filosofo «amico della verità»,
della aletheia, cioè letteralmente di «ciò che non è
nascosto», ma un conoscitore della sofia, delle cose ultime, di
«quelle cose» come le definisce il canto orfico di Pindaro: «Felice
chi entra sotto terra dopo aver visto quelle cose: conosce
la fine della vita, conosce anche il principio dato da Zeus». Il
punto dunque è questo: perché egli muore «di scoramento» per non
aver risolto l’enigma? Perché al tempo mitico del poeta l’enigma
non era ancora diventato solo una forma di contesa tra uomini di
cultura, una sfida tra due pensatori che, com’era costume
nell’antica Grecia, facevano del dominio del logos la più
alta forma della potenza umana.
In illo
tempore l’enigma, in altre parole, non si era ancora
secolarizzato, cioè non aveva perso quella carica sacrale che
possedeva in origine e mercé la quale era nato. Il cantore cieco,
abbiamo detto, era un sapiente – anche la sua cecità mantica, come
quella di Tiresia e poi di Edipo, ce lo conferma -, cioè in grado di
scrutare, con gli occhi chiusi sul mondo dei fenomeni, la trama
invisibile che gli dei tessono attorno alle cose per unirle tra di
loro attraverso una mistica armonia, insensibile ai più, ma
chiaramente udibile dal saggio.
Ed è propriamente la
natura di questa trama nascosta, «più forte di quella manifesta»,
come ci ricorda Eraclito, che il sapiente originariamente ricerca,
nella quale egli vuole essere immerso totalmente; non pensarla
semplicemente come altro da sé, un oggetto del pensiero- come
filosofia insomma – ma come stato ontico del suo esserci nel mondo.
Ecco perché, come ci ricorda anche Platone nelle cui parole risuona
la nostalgia per il tempo della saggezza rispetto a quello della
filosofia, questa è già una sconfitta, un livello inferiore di
conoscenza, mediata e dunque non più autentica, delle cose ultime.
Per Omero, allora, non
risolvere l’enigma era una condanna a morte come quella in cui
incorrevano i tebani prima che Edipo svelasse quello della Sfinge.
La risposta all’enigma
come ricerca della ragione dell’esistenza risale dunque agli albori
della relazione tra gli uomini e gli dei dell’antichità Grecia,
alle sue radici sciamaniche; al tempo di Empedocle e Talete, quando
la parola divina poteva ancora trasmettere agli umani una traccia del
mistero della vita. E questa comunicazione aveva una forma oscura,
ambigua, come lo sono gli dei e le loro verità; era veicolata da un
sintagma non immediatamente intelligibile dal pensiero: una frase
enigmatica.
Aristotele cerca di darne
una definizione: “Il concetto dell’enigma è questo: dire cose
reali collegando cose impossibili”. Ora, dato che per Aristotele –
il filosofo del terzo escluso e del principio di identità sui quali
si basa tutta la logica occidentale – collegare due cose
impossibili significa formulare una contraddizione, la sua
definizione designa qualcosa di apparentemente aporetico che, invece,
contiene un concetto coerente. E a questo punto che Aristotele
introduce la metafora dato che, per collegare cose in apparenza
contraddittorie, non bisogna intenderle nel loro significato
letterale ma trasportarle oltre questo, cioè metaforizzarle. Anche
l’uso della metafora dunque, chiosa Colli, sarebbe connesso
all’origine della sapienza.
E allora, prima che
l’enigma divenisse una contesa tra uomini di cultura o, come ai
nostri giorni, un semplice gioco di società o un esercizio mentale o
il nome di una macchina cifrata, chi lo emetteva, e chi lo
interpretava?
Apollo e Dioniso
Nel suo famoso saggio La
nascita della Tragedia, Nietzsche attribuisce a Dioniso il ruolo di
divinità capace di dare agli uomini l’accesso alla saggezza
attraverso l’ebbrezza estatica. Ma il dio epidemico, il dio che
muore e rinasce, l’archetipo della vita indistruttibile, come lo
definisce Kerényi, non è il solo a poter esercitare una simile
ascendenza tra gli uomini, dato che il suo alter ego, Apollo, da
sempre detiene il possesso della mantica, l’interpretazione degli
enigmi attraverso cui il dio si esprime nel santuario di Delfi.
L’enigma, o meglio la
sua forma spaziale, nasce però con Dioniso, e ben cinque secoli
prima che il culto di Apollo sia introdotto a Delfi: nella mitica
Creta dagli stupendi palazzi senza mura, troviamo già scritto, su
una tavoletta di argilla, il nome di Arianna, la «signora del
labirinto». La figura di Dioniso è legata a questa prima
manifestazione divina di cui abbiamo una testimonianza arcaica.
Ariadne, da ari molto, e adnós sacro, puro, la
«molto sacra» dunque, è al tempo stesso carnefice e vittima di
Dioniso, ma anche sua sposa e liberatrice, donna e dea. Una serie di
ruoli che ce la tramandano come l’epitome stessa dell’enigma.
«Chi sa cosa è Arianna»? si chiedeva giustamente Nietzsche,
ponendo così una domanda che riassume tutto il mistero di questo
archetipo delle relazioni tra enigma e conoscenza.
Il mito del labirinto è
noto, almeno nella sua forma aneddotica. Ma cosa ci narra il
mitologema, cioè il cuore simbolico del racconto, pur nelle sue
infinite varianti, a proposito della saggezza e dei suoi enigmi? Qui
siamo di fronte alla manifestazione del divino nelle sue forme più
possenti e spaventose, arcaiche, di fronte al Dioniso cretese,
figlio, paredro e vittima della Grande Dea minoica: Arianna stessa.
Il suo messaggio di
saggezza all’umanità e annichilente, com’era guardare senza
schermarsi gli occhi la luminosità del divino, o sporgersi
nell’estasi verso il vortice in cui gorgoglia la Zoé, l’esistenza
senza caratterizzazione alcuna. E questa esistenza primigenia, fonte
di ogni saggezza, agli occhi dell’umanità assume una forma
simbolica precisa ed al tempo stessa indefinita: il labirinto.
Umberto Eco, cui tra le altre cose dobbiamo la brillante introduzione
al libro di Paolo Santarcangeli sui labirinti, sostiene che un
labirinto è «un luogo in cui è facile entrare ma è difficile
uscire».
E dunque, prima di tutto,
è la forma stessa del labirinto che ci segnala un enigma sotto forma
di costruzione, non solo fisica ma della mente. Platone,
nell’Eutidemo, per ricordarci questa analogia tra dentro e fuori,
usa l’espressione «gettati in un labirinto», proprio per
attestare l’inestricabile complessità dell’esistenza. E poi il
Minotauro, metà uomo e metà toro, col corpo coperto di stelle –
Asterios, come si chiamava – non esprime forse la confluenza tra il
bestiale ed il divino, tra il razionale e l’irrazionale? Non è
dunque l’epitome dell’umano? Schopenhauer scioglie così il
significato enigmatico del mito: attraverso la ragione –
simboleggiata dal filo di Arianna – si raggiunge la conoscenza
della condizione umana – la vita del Minotauro – e della via per
sconfiggere il dolore: la morte del bestiale figlio di Pasifae come
metafora della liberazione dalla condizione di sofferenza. Questa è
la saggezza che ci trasmettono gli dei attraverso il tortuoso
percorso del labirinto. Non a caso è Schopenhauer a dircelo, il
filosofo più vicino al pensiero dell’Oriente:
nelle Upanishad troviamo, infatti, questa frase: “Perché
gli dei amano l’enigma, e ad essi ripugna ciò che è manifesto”.
Lo stesso concetto lo ritroveremo in Eraclito.
La figura di Dioniso
cretese è dunque spietata nel suo messaggio: sarà il suo amico
Sileno a rammentare a Creso che la somma saggezza consiste nel non
essere mai nati o nel morire giovanissimi. Col passaggio alla
classicità Greca il dio diventerà più amico degli umani, si
trasformerà nell’ispiratore di quella figura a metà tra apollineo
e dionisiaco che è Orfeo, nei cui Misteri l‘enigma delle cose
ultime verrà svelato agli iniziati pur restando ineffabile. Il suo
oracolo, presso l’isola di Lesbo, dove la testa mantica del poeta
era stata trasportata dalle onde del mare Egeo, gli eroi greci erano
andati a chiedere responsi prima di partire per la guerra di Troia.
E così, inevitabilmente,
quando si indagano le relazioni tra enigma e saggezza, non si può
che arrivare ad Apollo, «il signore il cui oracolo è a Delfi» e
che, come afferma Eraclito, «non afferma né smentisce ma allude».
Ed è Apollo stesso che parla per bocca della Pizia, dicendo «cose
senza riso, né ornamento, né unguento». E pure, Apollo, come
Dioniso, quando esprime le sue sentenze è oscuro ed a volte crudele,
ambiguo, come le frecce del suo arco che uccidono da lontano, come
l’esistenza stessa degli dei creati dagli uomini.
Ma, e qui sta l’arcano,
l’oracolo che emette la Sibilla non è intelligibile da chi lo
pronuncia: non è la Pizia che può interpretare le parola del dio,
ma il veggente, il saggio. Ecco dunque il nesso primario tra saggezza
ed enigma: solo il sapiente è in grado di sciogliere l’enigmatica
sentenza oracolare, e spesso questo può significare vita o morte.
Pensiamo alla Sfinge ed ad Edipo. Mandata sulla terra dagli dei per
mettere alla prova la conoscenza degli uomini, solo chi rispondeva
all’enigma si salvava: in altre parole solo chi penetrava la trama
nascosta ed obliqua delle cose divine aveva il diritto di vivere.
Dice Gregory Bateson:
“All’enigma della Sfinge ho dedicato cinquant’anni della mia
vita di antropologo. È di importanza primaria che la nostra risposta
sia in armonia col modo in cui gestiamo la nostra civiltà e ciò
dovrebbe a sua volta essere in armonia con il funzionamento effettivo
dei sistemi viventi […].
Inoltre le nostre idee su
come rispondere all’enigma della Sfinge sono oggi in uno stato
fluido. Ciò che noi crediamo di essere, dovrebbe essere compatibile
con ciò che crediamo del mondo intorno a noi”.
L’enigma diviene così,
per l’uomo contemporaneo, un sorta di specchio attraverso il quale
egli cerca di svelare la sua propria enigmatica natura: ma non era
forse questo lo scopo della domanda oracolare dell’antichità? Chi
aspira alla “normalità” non è forse già fuori dalla
comprensione dell’esistenza? Riverberando queste antiche
reminiscenze alcune sensibilità si sono servite dell’analogia tra
enigma e spirito del tempo per esplorare i lati oscuri della
modernità. Un esempio lo troviamo in Walter Benjamin che, quasi
descrivendo se stesso, ci regala l’immagine di un uomo che «sul
punto di attraversare la soglia della scomparsa storica, già ombra,
risponde un’ultima volta al richiamo della sua enigmatica identità,
prima di tuffarsi là dove nessuno più lo aspetta»: è il gesto di
un’avanguardia disperata, l’abbandono di un essere nel mondo del
quale rifiuta i contorni, le determinanti fondamentali.
L’affermazione di
Benjamin esprime così tutta la sua valenza profetica: emette il suo
oracolo perché l’idea, lungi dall’essere la deriva di un
singolo, dichiara invero l’oscuramento del mistero, ci consegna il
fato di un enigma divino oramai inintelligibile perché nascosto sia
dalla luce abbagliante della razionalità, cifra della modernità,
sia dalla visione teologica di matrice giudaico-cristiana. San
Paolo, il fondatore della teologia politica, sancì questa
impossibilità a cogliere la divinità attingendo all’enigma,
affermando che si poteva contemplare Dio solo per speculum in
aenigmate, cioè come semplice riflesso fideistico nelle verità
ultime.
Enigma e La Settimana
enigmistica
E così, non solo la
nascita della filosofia vera e propria, ed il suo impetuoso sviluppo
nella classicità Greca, ma il regno dell’Evo giudaico-cristiano,
di fatto sviliscono la portata sacra e terribile dell’enigma come
voce del dio e lo riducono a competizione tra intellettuali che, non
più come Omero, sono disposti a perdere una contesa dialettica ma
non certo la vita.
«Così la neve al sol si
disigilla, così al vento ne le foglie levi, si perdea la sentenza di
Sibilla», dice Dante nel canto XXXIII del Paradiso.
In epoca ellenistica,
così come romana, si interrogavano ancora gli oracoli, sparsi per
tutta la Magna Grecia ed in Italia: i Libri Sibillini ad
esempio, erano una raccolte di oracoli, ma ridotti a semplici
profezie o come regole di comportamento e fonte giuridica divina,
come nel caso del primo Diritto romano, non come porta verso la
saggezza. Poi, con l’era Cristiana, solo alcune Sibille itineranti
vennero ascoltate più per tradizione popolare che per genuino
ascolto della voce degli dei, dato che al panteon greco-romano si era
da tempo sostituito l’unico vero Dio.
Solo nei libri alchemici,
per espressa necessità degli adepti, l’enigma permane ad occultare
le verità esoteriche agli occhi dei profani. Come ci
ricorda Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim, considerato il
principe degli alchimisti del XIV secolo, miracolosamente sfuggito
all’Inquisizione: “Nessuno deve adirarsi se abbiamo dovuto
nascondere la verità delle scienza sotto l’ambiguità degli
enigmi, In realtà non l’abbiamo nascosta ai sapienti ma agli
spiriti malvagi”.
Ma, proprio per questo
ritirarsi dell’enigma come voce della natura superiore, prosegue la
sua secolarizzazione. Agli inizi del ‘600 Giulio Cesare Croce,
l’autore di Bertoldo e Bertoldino scrive due libri di enigmi: Notte
sollazzevole di cento enigmi da indovinare, aggiuntovi altri sette
sonetti del medesimo genere con le loro dichiarazioni nel
fine (Bologna, 1594) e Seconda notte sollazzevole di cento
enigmi da indovinare (Bologna, 1601). Nella seconda metà del
‘700 in Francia nasce la charade, indovinello la cui soluzione
è composto da più enigmi concatenati, come nella trama dell’omonimo
film di Alfred Hitchcock, con Cary Grant e Audrey
Hepburn.
Nonostante quest’ultima
filiazione: dalle parole oscure della divinità ad una intelligenza
totalmente prodotta dall’uomo, l’enigma scivola verso i giochi di
parole, oramai confinati nella pagina della Sfinge nella Settimana
Enigmistica il settimanale, fondato negli anni ‘30 da Giorgio
Sisini, più venduto in Italia. Eppure, al netto delle sue tante
imitazioni, forse l’unica produzione di massa in cui si può
ritrovare ogni giovedì, ora anche in rete, una lontanissima eco
della temibile voce degli dei, rivivere a distanza di millenni il
confronto tra Edipo e la Sfinge. Qualcosa, ombra nell’ombra di
«quelle cose», ci affascina ora come allora con la sua oscura
presenza. Nel profondo della nostra sensibilità desacralizzata la
scintilla della saggezza che viene dal divino brilla sempre,
attizzata seppur debolmente dal mistero che emana ancora da questi
pallidi indovinelli.
Il Manifesto – 25
giugno 2016