“Ci sono più cose
tra cielo e terra che in tutta la tua filosofia” (William
Shakespeare)
Marco Dotti
Gli sguardi alefici di
Raffaele K. Salinari
Negli anni 80 del secolo
scorso Michael Foucault elabora il termine «eterotopia» che, nella
sua forma più essenziale, definisce: «Quegli spazi che hanno la
caratteristica di essere connessi a tutti gli altri ma in modo da
sospendere, neutralizzare, invertire l’insieme dei rapporti che
essi rispecchiano o riflettono».
Cinquant’anni prima,
dall’altra parte del mondo, in Argentina e precisamente nel 1929,
si spegneva, dopo una «imperiosa agonia» Beatriz Viterbo. Questa
splendida figura di donna era amata dallo scrittore forse più
immaginifico della storia della letteratura fantastica, dunque
“eterotopica” per eccellenza: Jorge Luis Borges.
Vale la pena allora porsi
una domanda: Foucault conosceva Borges, ed in particolare il testo
che il Direttore emerito delle Biblioteca Nazionale Argentina aveva
esplicitamente dedicato alla sua adorata Beatriz? Non ci è dato
saperlo, ma ciò che con assoluta certezza possiamo invece dire, è
che l’omonimo racconto che titola l’antologia borgesiana più
famosa è certo la descrizione maggiormente intrisa di poesia di una
suggestione eterotopica: L’Aleph.
Raffaele K. Salinari
Quando Borges, che nel
racconto parla di se in prima persona, scende nel sottoscala della
casa di via Garay a Buenos Aires invitato dal cugino e coinquilino
della defunta Beatriz a rimirare l’Aleph, si trova improvvisamente
di fronte al «microcosmo di alchimisti e cabalisti»: un sfera
incredibilmente piccola e luminosa attraverso la quale si riflettono
ed emanano, in uno stesso momento ed in uno stesso luogo, senza
sovrapposizioni o scarti cronologici, tutti i luoghi e tutti i
momenti esistenti e vissuti dal cosmo.
E, come Dante di fronte
allo splendore dell’Essere del Vero, della Sfera Suprema, ad un
certo punto non ha più le parole per descrivere l’ineffabile. E
allora il Maestro argentino si affida ad una serie di metafore,
simboli, analogie, suggestioni, rimandi letterari e poetici, per
cercare di rendere l’idea di questo unicum che vedrà quella sola,
memorabile, volta. Ma tutto questo, lo ammette lo stesso Borges, ha
una origine molto più lontana: ha i suoi archetipi. L’idea di Dio
come sfera infinita il cui centro è dappertutto e la circonferenza
in nessun luogo, come pure l’immagine della biblioteca come un
immenso labirinto, o dello specchio come forma del passaggio da un
piano di realtà ad un altro, magari dal sonno alla morte, ma anche
(perché no) viceversa, sono solo alcuni di questi; sono le immagini
immaginanti la cui infinita ricreazione e ripetizione costituiscono
le fondamenta stesse della Storia Universale.
A questi archetipi
borgesiani, ma anche ai parerga e paralipomeni legati all’immagine
dell’Aleph come eterotopia-atopia-utopia, cioè ai luoghi (e non
luoghi) ed alle suggestioni che da questa figura centrale possono
irradiare, o su di essa e da essa convergere o divergere, e ben al di
la del racconto, è dedicato il libro Alias: Aleph di Raffaele K.
Salinari (edizioni Punto Rosso). Nel titolo è già contenuta la
genesi di questo densissimo volume: si tratta, infatti, di una
raccolta ragionata e rivista di una serie di articoli apparsi nel
tempo sull’omonimo inserto culturale del manifesto.
Il «biglietto di
accompagnamento» di Silvana Silvestri, direttrice di Alias, ce ne
rende ragione, mentre l’erudita prefazione animica di Davide
Susanetti apre alle ascendenze orfico-iniziatiche del testo. Ma è
indubbiamente la coerenza dei vari capitoli – che hanno tra l’altro
la caratteristica di poter essere letti come essenziali monografie
sui vari argomenti – unificati dall’immagine espressa nel
sottotitolo del volume«Mundus Imaginalis Borgesianus», a suscitare
nel lettore le suggestioni maggiori.
Henry Corbin
L’espressione «Mundus
Imaginalis» rimanda, infatti, a quella folgorante intuizione di
Henry Corbin, maestro massone, filosofo e soprattutto iranista, che,
studiando l’esoterismo islamico di matrice sciita, coniò questa
definizione per descrivere, utilizzando le parole di una lingua morta
«un ordine di realtà superiore che corrisponde a un certo tipo di
percezione, poiché la terminologia latina ha il vantaggio di fornire
un punto di riferimento tecnico preciso, con cui confrontare i più o
meno idonei equivalenti dei linguaggi moderni occidentali».
E qui Corbin, il cui
spirito esoterico aleggia attraverso tutto lo svolgersi del libro,
offre il suo assist allo sguardo «alefico» di R. K. S. quando
chiarisce che: «Indichiamo solitamente l’immaginario come irreale,
utopistico… Di contro l’ordine di realtà che io ho designato
come Mundus Imaginalis è ciò che i teosofi islamici indicano come
coscienza immaginativa, l’Immaginazione cognitiva».
La potenza simbolica del
Mundus Imaginalis evocata dal sottotitolo si specifica allora con
l’aggettivo «borgesiano» anch’esso in latino, che rimanda
perfettamente alla scansione degli argomenti contenuti nei vari
capitoli, che spaziano vertiginosamente dall’Omino con la gobba
caro a Walter Benjamin, sino allo sguardo di Gagarin, primo uomo a
contemplare nel suo splendore totale l’immensità cosmica di Gaia.
Tra gli Aleph più originali forse le Body Map disegnate dai
sieropositivi da Hiv in Sud Africa e decisamente le bottiglie di
gazzosa degli anni 50 con le perle di vetro, – come quelle del
romanzo di Herman Hesse – racchiuse al loro interno. I tanti Aleph
descritti divengono allora gli specchi splendenti od oscuri nei quali
si riflettono una moltitudine di immagini archetipali, i dispositivi,
direbbe ancora Foucault, della funzione cognitiva dell’Immaginazione.
Nell’introduzione si
avanza anche una ipotesi poetica: che tutto il racconto sia stato
scritto per omaggiare la bella Beatriz, la Beatrice di Borges,
esattamente come la Commedia lo fu per quella di Dante. Varrebbe la
pena inoltrarsi su questo sentiero non fosse altro per scovare le
relazioni inaudite tra due personaggi la cui capacità visionaria era
certo sublime.
Gli Aleph divengono
allora i luoghi o le situazioni che consentono di superare il dilemma
del razionalismo, che lascia soltanto la scelta tra i due termini di
un dualismo banale: «materia» o «spirito», un dilemma che
l’eterotopia alefica risolve sostituendolo con una scelta, non meno
fatale, tra sogno e realtà, storia e mito.
E così le parole
inscritte in queste pagine visionarie trovano nello spazio infinito
del Mundus Imaginalis la possibilità di comporre il Volto
dell’Angelo del Mondo, un ris/volto che risplende delle luci di una
«costellazione inscritta nelle traiettorie di astri a volte
impercettibili, eclissati dall’ombra feroce della modernità ma
che, come certe stelle spente da eoni, continuano a irradiare il loro
fulgore su di noi».
Sono i «mondi alefici»
descritti dall’autore, le Porte Regali, come direbbe Pavel
Florenskij, sulle cui soglie s’incontrano finalmente visibile e
invisibile. E così la moltitudine degli Aleph e gli sguardi
«alefici» – aggettivo coniato per descrivere lo stato visionario
che ci rende possibile la loro percezione – precipitano finalmente
all’interno di un caleidoscopio che si svela sempre e solo al
singolo – ai suoi sensi, al suo cuore, alla sua consapevolezza –
e dunque mai definibile, o definito, in modo univoco. Nel capitolo
finale, forse ciò che tutti si aspettano: la descrizione dell’Aleph
dell’autore, l’origine della metafora creata nel e dal suo stesso
Mundus Imaginalis per continuarne la ricerca; un augurio per ogni
lettore alla ricerca del suo.
Il Manifesto/Alias – 9
dicembre 2017