Nel
fiume di pubblicazioni che stanno celebrando il centenario della
nascita di Italo Calvino e che ne tratteggiano i molteplici aspetti
della vita e della creazione letteraria non si trova quasi traccia
del rapporto profondo che legò il grande scrittore alla Massoneria.
Rapporto di cui si ritrovano tracce evidenti in tutta la sua opera a
partire da un passaggio de “La strada di San Giovanni”, una sorta
di bilancio che Calvino fa nel 1961 della sua giovinezza. Parlando
dell'amore del padre per la campagna egli scrive:
“La
tavola dove si posava la frutta e la verdura e si riempivano le ceste
da portare giù, era sotto il fico, a fianco dell'antico casolare di
Cadorso, (dove viveva la famiglia dei manenti) con ancora la traccia
sbiadita, sopra la porta, del simbolo massonico che i vecchi Calvino
mettevano sulle loro case”.
Frase
rivelatrice del legame profondo che da sempre univa la sua famiglia
alla Massoneria. Legame antico se nel 1874 fra i dieci fondatori
della loggia “Liguria”, prima loggia del GOI a Sanremo risultano
il nonno e lo zio dello scrittore, il medico e floricoltore
GioBernardo Calvino e suo fratello GioBatta. Il 26 marzo 1900 la
“Liguria” gemmava una nuova officina: la “Giuseppe Mazzini”.
Fra i fondatori ritroviamo il nonno di Calvino, GioBernardo poco dopo
raggiunto dai figli, Mario e Quirino, rispettivamente padre e zio di
Italo.
In
un articolo uscito l'anno precedente nel numero di settembre-dicembre
della rivista “Il Paradosso”, Calvino aveva descritto con
ricchezza di particolari l'ambiente culturale nel quale era
cresciuto, sottolineando come la vita della famiglia fosse improntata
a rigorosi principi etici di origine laica e repubblicana e come ciò
comportasse una netta presa di distanza dal regime fascista allora
all'apice del consenso:
“
La mia famiglia era piuttosto insolita sia per San Remo sia per
l'Italia d'allora: i miei genitori erano persone non più giovani,
scienziati, adoratori della natura, liberi pensatori, personalità
diverse tra loro ed entrambe all'opposto dal clima del paese. Mio
padre, sanremese, di famiglia mazziniana repubblicana anticlericale
massonica, era stato in gioventù anarchico kropotkiniano e poi
socialista riformista, aveva vissuto nell'America Latina molti anni e
non aveva conosciuto l'esperienza della Guerra mondiale; mia madre,
sarda, di famiglia laica, era cresciuta nella religione del dovere
civile e della scienza, socialista interventista nel '15 ma con una
tenace fede pacifista. Ritornati in Italia dopo anni all'estero
mentre il fascismo stabiliva il suo potere, avevano trovato un'Italia
diversa, difficilmente comprensibile. Mio padre cercava senza fortuna
di mettere al servizio del suo paese la sua competenza e la sua
onestà (…) mia madre, sorella d'un professore universitario
firmatario del manifesto Croce, era d'un antifascismo intransigente.
Cosmopoliti entrambi per vocazione ed esperienze (...) Il fascismo
s'inseriva in questo quadro come una via tra le tante, ma condotta da
ignoranti e disonesti. La critica al fascismo nella mia famiglia,
oltre che per la violenza, l'ingordigia, la soppressione della
libertà di critica, l'aggressività in politica estera, si appuntava
soprattutto su due peccati capitali: l'alleanza con la monarchia e la
conciliazione col Vaticano (…) Da bambino sentendo i discorsi dei
grandi a casa mia, ebbi sempre per ovvia l'impressione che in Italia
andasse tutto per traverso”.
Date
queste premesse non stupisce che in uno dei suoi primi scritti
importanti, “La Riviera di Ponente”, suo esordio su “Il
Politecnico” di Elio Vittorini, rivista centrale nel panorama
culturale italiano di quegli anni, il giovane scrittore tracciasse
nel novembre 1945 una sintetica ricostruzione del ruolo importante
svolto dalla Massoneria in Liguria e più in generale in Italia, nel
Risorgimento prima e nella costruzione dello Stato unitario poi:
“
Battuto Napoleone, nel 1814, i Savoia si trovarono padroni della
regione. Come conseguenza si ebbe che, al Risorgimento, la borghesia
ligure, tradizionalmente repubblicana, diede i suoi uomini migliori
alla cospirazione ed alla lotta dei Mazzini e dei Garibaldi. Delle
vecchie famiglie borghesi, chi non era bigotto e clericale era nei
carbonari, o nei mazziniani, o nella Massoneria. La Massoneria
soprattutto finì per raggruppare intorno a sé tutte le energie
progressive dell’epoca e per temperar ogni slancio rivoluzionario:
il repubblicanesimo diventò un puro sfogo verbale e la lotta si
polarizzò sull’anticlericalismo. Così due forze dominarono la
vita pubblica della Liguria di Ponente: la Chiesa e la Massoneria. E
due furono i partiti che si contesero le amministrazioni: il
conservatore (clericale e monarchico) e il socialista (sostenuto e
temperato dalla Massoneria)…”.
A
quell'epoca lo scrittore è fresco di militanza comunista, si era
iscritto al partito nel 1944 durante la guerra partigiana, ma,
nonostante la diffidenza se non l'ostilità del PCI verso la
Massoneria, non esita a riconoscere l'importanza del ruolo svolto da
questa nella storia d'Italia. E non è, come si potrebbe pensare, una
semplice ripresa adattata al contesto ligure delle tesi gramsciane
sul Risorgimento sviluppate nei “Quaderni del carcere”, di cui
allora non si conosceva neppure l'esistenza visto che la casa
editrice Einaudi ne iniziò la pubblicazione solo nel 1948, ma di una
riflessione del tutto personale, acutissima nella sua sinteticità,
derivante dalla conoscenza diretta frutto della sua personale
esperienza dato che, come si è visto, le due storie, quella della
Massoneria nel Ponente ligure alla fine dell'Ottocento e quella della
famiglia Calvino, risultavano inestricabilmente connesse. Una
conoscenza profonda della storia e dei riti massonici che riemergerà
un decennio più tardi nel romanzo “Il barone rampante”.
“Il
barone rampante”
Nel
1957 Calvino pubblica “Il barone rampante”, secondo capitolo de
“I nostri antenati”, insieme a “Il visconte dimezzato” (1952)
e “Il cavaliere inesistente” (1959). In questo romanzo, che
abbraccia tutto il periodo della Rivoluzione francese iniziando nel
ventennio immediatamente precedente e concludendosi in piena
Restaurazione lo scrittore fa precisi riferimenti alla Massoneria. In
particolare nel capitolo XXV che è interamente dedicato alla vita
massonica non proprio ortodossa del protagonista e in cui si può
leggere questa illuminante annotazione:
“Nella
Massoneria Cosimo dunque non faceva che ripetere quel che già aveva
fatto nelle altre società segrete o semisegrete cui aveva
partecipato. E quando un certo Lord Liverpuck, mandato dalla Gran
Loggia di Londra a visitare i confratelli del Continente, capitò a
Ombrosa mentre era Maestro mio fratello, restò così scandalizzato
dalla sua poca ortodossia che scrisse a Londra questa d’Ombrosa
dover essere una nuova Massoneria di rito scozzese, pagata dagli
Stuart per fare propaganda contro il trono degli Hannover, per la
restaurazione giacobita”.
Per
il lettore comune un periodo buttato là con nonchalance, come una
annotazione fra le tante, ma per chi ha gli strumenti per
comprenderne le implicazioni profonde, la testimonianza della
conoscenza di prima mano che l'autore aveva delle cose massoniche,
considerato che la cosiddetta massoneria dissidente “giacobita” è
da sempre argomento per accademici e specialisti della materia e in
quanto tale, non solo del tutto sconosciuto ai “profani”, ma
spesso poco noto anche agli stessi appartenenti all'istituzione
libero muratoria.
Tornando
al “Il barone rampante”, il romanzo racconta la
storia di un giovane aristocratico del Ponente ligure, Cosimo
Piovasco di Rondò, che all’età di dodici anni, in seguito a un
litigio con i genitori si arrampica su un albero del giardino di casa
per non scendervi più per il resto della vita. Come via via
raccontato dal fratello, voce narrante del romanzo, quell'atto di
ribellione diventa una scelta di vita, un percorso di formazione e
maturazione destinato a durare tutta la vita nel tentativo di passare
dal caos del mondo a un ordine fondato sulla ragione e su una visione
etica della vita. Il romanzo si chiude con un ultimo colpo di scena:
ormai anziano, Cosimo non si arrende e non scende a terra, al
passaggio di una mongolfiera, si aggrappa ad un cima penzolante e
scompare nel cielo alla ricerca di nuovi superiori orizzonti.
Come
si comprende fin dalle prima pagine quella di Cosimo non è una fuga
dal mondo, né il rifiuto snobistico o capriccioso di mantenere
rapporti con gli altri uomini. Cosimo non è un eremita. Fedele alla
sua scelta di vita, Cosimo vive sugli alberi, ma continua a
partecipare attivamente alla vita del suo tempo, tanto da
interloquire idealmente anche con il grande Voltaire. Semplicemente,
scrive Calvino, Cosimo ha compreso che “per essere con gli altri
veramente, la sola via era d’essere separato dagli altri”. Detto
in altri termini, un'azione mirante ad un cambiamento in meglio del
mondo e al “benessere dell'umanità” deve partire da un punto di
osservazione esterno alle dispute ideologiche e personali,
mantenendosi estranea ad ogni fanatismo. Esattamente quanto predicava
negli anni in cui il romanzo è ambientato il massone Voltaire, in
questo fedele interprete degli ideali su cui il giorno di San
Giovanni Battista del 1717 era stata fondata a Londra, nei locali
della taverna “L'oca e la graticola”, la Gran Loggia
d'Inghilterra. E d'altronde la frase altro non è che una citazione
del filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte che nelle sue famose
“Lezioni sulla Massoneria”, pubblicate nel 1802-1803, aveva
affermato che solo «uscendo dalla società» e cercando di superare
gli svantaggi di una «cultura unilaterale», si poteva diventare
uomini veramente liberi e di buoni costumi come i massoni amano
definirsi.
Figlio
e nipote di massoni, Calvino non fu mai iniziato alla Massoneria, né
per quello che se ne sa provò mai il desiderio di esserlo, forse
proprio perché massone si sentiva già nel senso più profondo del
termine e l'adesione formale sarebbe stata probabilmente fonte di
delusione. Perché gli ideali camminano sulle gambe degli uomini che
sono spesso terribilmente corte e di questo Calvino, che aveva
appena rotto con il PCI, era pienamente consapevole. Di questa
adesione ideale, che era anche – sia detto per inciso –
riconciliazione con il padre e il suo percorso di vita - “Il barone
rampante” resta testimonianza viva nel suo essere non solo romanzo
filosofico, intriso di ironia alla maniera settecentesca, ma anche
espressione in forma di favola dei fondamenti del pensiero massonico:
l'iniziazione (l'abbandono della vita terrestre e la salita sugli
alberi) come cambiamento di stato; la ricerca costante della verità
non fine a sé stessa ma finalizzata al miglioramento della
condizione umana; il Tempio (la chioma degli alberi) come luogo
separato dal caos del mondo dove meditare sulla vita per raggiungere
uno stato superiore di coscienza. E nel cielo stellato che sovrasta
sia il bosco che il Tempio massonico, Cosimo sparisce a simboleggiare
che la morte è solo un ulteriore passaggio di stato, proprio come lo
è da sempre l'iniziazione ai Misteri.
Ne
abbiamo già accennato: il momento in cui il romanzo viene scritto è
estremamente significativo. Calvino è ad una svolta fondamentale
della sua vita, analoga per importanza a quella operata nel 1944
quando era salito in montagna per unirsi alle Brigate Garibaldi e
aveva chiesto l'iscrizione al Partito comunista. Una scelta etica più
che ideologica: “Quando seppi – scrive in “Autobiografia
politica giovanile” del 1960 – che il primo capo partigiano della
nostra zona, il giovane medico Felice Cascione, comunista, era caduto
combattendo contro i tedeschi a Monte Alto nel febbraio 1944 chiesi
a un amico comunista di entrare nel partito”.
Sono
gli anni della crisi politica dello scrittore, della sua rottura con
il Partito comunista e l'abbandono di una militanza politica intensa
come conseguenza diretta del dramma dell'Ungheria e delle
rivelazioni del XX Congresso del PCUS. Anche questa volta l'aspetto
etico è predominante, risposta al fallimento di una fede salvifica
rivelatasi fallace. “Il dio che è fallito” aveva non a caso
titolato nel 1950 l'ex comunista Silone un suo libro importante che
raccoglieva, oltre la sua, testimonianze di altri intellettuali che
avevano vissuto gli stessi entusiasmi e la stessa disillusione. Per
Calvino, che pure ci aveva creduto fortemente, il comunismo nella sua
versione storicamente realizzata non rappresenta, come aveva
utopicamente pensato Marx, la risposta finalmente trovata alla
alienazione della condizione umana. Altra è la via. La rivoluzione è
prima di tutto rivoluzione interiore, conoscenza e miglioramento di
sé. Conquiste da riportare nel mondo, perché la vita degli uomini
si regga su quei principi di armonia (libertà, eguaglianza,
fratellanza) che lo scrittore aveva appreso a conoscere e ad amare in
famiglia a contatto con il padre e lo zio e nel ricordo del nonno,
combattente alla presa di Porta Pia nel 1870. Per essere con gli
altri veramente, la sola via è essere separato dagli altri, afferma
Calvino. Proprio quello che aveva scritto centocinquanta anni prima
Fichte e che rappresenta l'essenza di quel “segreto” massonico su
cui tanto si è scritto a sproposito. Una scelta che i “profani”
spesso non comprendono, vedendo in questa voluta separazione dal
vociare confuso e caotico del mondo la prova di chissà quali oscure
e inconfessabili manovre, ma che rende la Massoneria scuola di vita e
non partito o sorta di religione come qualcuno vuole dipingerla per
meglio combatterla.
Sarà
da queste esperienza traumatica ma illuminante che nasceranno le
riflessioni contenute in un altro scritto autobiografico di Calvino,
quel già citato “La strada di san Giovanni” in cui nel 1961 lo
scrittore ricostruisce il rapporto con il padre negli anni
dell'adolescenza.
“La
strada di San Giovanni”
Nella
Strada di San Giovanni Calvino contrappone l’universo del padre,
Mario, agronomo e floricoltore di fama internazionale, al proprio di
adolescente inquieto:
“Una
spiegazione generale del mondo e della storia deve innanzi tutto
tener conto di com'era situata casa nostra, nella regione un tempo
detta «punta di Francia», a mezza costa sotto la collina di San
Pietro, come a frontiera tra due continenti. In giù, appena fuori
del nostro cancello e della via privata, cominciava la città coi
marciapiedi le vetrine i cartelloni dei cinema le edicole, e Piazza
Colombo li a un passo, e la marina; in su, bastava uscire dalla porta
di cucina nel beudo che passava dietro casa a monte (sapete i beudi,
che derivano le acque dei torrenti per irrigare i terreni della
costa: un canaletto a ridosso d'un muro, fiancheggiato da uno stretto
marciapiede di lastre di pietra, tutto in piano) e subito si era in
campagna, su per le mulattiere acciottolate, tra muri a secco e pali
di vigne e il verde.
Era sempre di là che usciva mio padre, vestito alla
cacciatora, coi gambali, e si sentiva il passo delle scarpe chiodate
per il beudo, e lo scampanellio d'ottone del cane, e il cigolare del
cancelletto che dava nella strada di San Pietro. Per mio padre il
mondo era di là in su che cominciava, e l'altra parte del mondo,
quella di giù, era solo un'appendice, talvolta necessaria per cose
da sbrigare, ma estranea e insignificante, da attraversare a lunghi
passi quasi in fuga, senza girare gli occhi intorno. Io no, tutto il
contrario: per me il mondo, la carta del pianeta, andava da casa
nostra in giù, il resto era spazio bianco, senza significati; i
segni del futuro mi aspettavo di decifrarli laggiù da quelle vie, da
quelle luci notturne che non erano solo le vie e le luci della nostra
piccola città appartata, ma la città, uno spiraglio di tutte le
città possibili”.
Il paesaggio come punto
di partenza per definire un percorso umano, una identità, dunque, ma
ancora non basta. Per attribuire senso e significato alla vita il
paesaggio non è sufficiente. Perché il paesaggio non è un dato
oggettivo, che basta a sé stesso, ma la cristallizzazione
dell'occhio che si posa sulle cose e dunque prima di tutto uno stato
dell'animo, una presa di posizione. Per poter essere rappresentato il
paesaggio deve poter essere introiettato, in qualche modo vissuto,
fatto proprio. E proprio a questo serve la vita vissuta come ricerca
di sé: a dare senso e significato al caos che ci circonda, alla
apparente irrazionalità e casualità dell'esistere. “Ordo ab chao”
il motto del Rito Scozzese Antico e Accettato in cui Mario Calvino
aveva raggiunto il 33° grado, ma anche la
conclusione a cui giunge Italo e che lo riconcilia idealmente con il
padre nel riconoscere che, anche se in forme diverse, la strada
cercata era stata la stessa:
“Capite
come le nostre strade divergevano, quella di mio padre e la mia. Ma
anch'io, cos'era la strada che cercavo se non la stessa di mio padre
scavata nel folto d'un'altra estraneità, nel sopramondo (o inferno)
umano, cosa cercavo con lo sguardo negli androni male illuminati
nella notte (l'ombra d'una donna, a volte, vi spariva) se non la
porta socchiusa, lo schermo del cinematografo da attraversare, la
pagina da voltare che immette in un mondo dove tutte le parole e le
figure diventassero vere, presenti, esperienza mia, non più l'eco di
un'eco di un'eco”.
Attraversare
lo schermo del cinematografo, voltare pagina alla ricerca di un
altrove dove le parole abbiano sostanza e non siano l'eco di altri
echi, scrive Calvino. E questo per scoprire la propria individualità,
il proprio essere autentico. Sono i motivi per cui si bussa alla
porta del Tempio, per cui si cerca la Luce. Ed è questa ricerca che
innerva la vita e l'opera letteraria di Italo Calvino a rendere lo
scrittore un Massone non iniziato, un Massone nel cuore.
Savona - Ottobre 2023