domenica 31 dicembre 2023

Il grido di Pan

 


Fine anno è da sempre tempo di bilanci. Vale per tutto anche per la lettura. Il libro che proponiamo è uno dei più belli che abbiamo letto in questo 2023 che sta terminando. Una riflessione profonda sulla vita, sulla morte, sulla natura e sull'uomo. Il tutto rifacendosi al linguaggio del mito e al pensiero greco classico. Ne presentiamo l'incipit.


La meraviglia


Al principio è la meraviglia. Tutto suscita meraviglia e stupore. Un’emozione confusa in cui la paura diventa inquietudine. L’emozione di chi non sa dare spiegazione di ciò che ascolta, vede o pensa, e dunque quasi prova un senso di vertigine che lo spinge a mettersi in cerca.

A raccontarlo in maniera perfetta fu Platone in un dialogo molto bello e molto complesso che scrisse verso i sessant’anni e prese il nome dal principale interlocutore di Socrate, un matematico che Platone aveva molto amato: Teeteto. Questo ragazzo che ebbe una vita sfortunata e morí giovane, nella rappresentazione letteraria platonica, a un tratto, seguendo i ragionamenti paradossali di Socrate, dice: «Per gli dèi, Socrate, provo una meraviglia sconvolgente chiedendomi come mai stiano queste cose. A tratti, anzi, a dire il vero, guardandole e riguardandole ho le vertigini».

Al che Socrate gli risponde: «Amico mio, sembra che Teodoro non abbia avanzato congetture scorrette sulla tua natura. E infatti è tipico del filosofo questo stato d’animo: la meraviglia. Non esiste altra origine della filosofia se non questa».

È un passo famosissimo. Aristotele, al principio della Metafisica, riprende l’idea del maestro e spiega che gli uomini hanno cominciato a filosofare proprio perché si meravigliavano delle stranezze che avevano davanti agli occhi, passando poi a indagare fenomeni piú importanti, come «le affezioni della luna, del sole e degli astri, e la genesi del tutto».

Le cose stanno proprio così. Anche se a leggere i due grandi filosofi, e soprattutto Aristotele, si ha l’impressione che ciò di cui gli esseri umani si meravigliarono (e in effetti, continuano sempre a meravigliarsi) sia solo ciò che è fuori di essi, «davanti ai loro occhi», mentre sappiamo benissimo che il primo oggetto di meraviglia di fronte a cui tutti ci troviamo fin dalla nascita siamo proprio noi stessi. Conoscere le cose con cui ci confrontiamo, conoscere il nostro posto nel mondo, dunque conoscere il mondo che abitiamo, ovvero la natura in cui siamo apparsi, noi stessi germogli della natura. Ecco il compito di quella lotta per la sapienza che caratterizza gli esseri umani da sempre e per sempre. Un compito cui solo la meraviglia può spingerci.


Matteo Nucci
Il grido di Pan
Einaudi 2023

sabato 30 dicembre 2023

Verità per Giulio Regeni

 


Verità per Giulio Regeni

Tante domande, nessuna risposta.

Si riparla con insistenza del caso Regeni dopo troppi anni di silenzi e omissioni. E la cosa non può che fare piacere. In tanti a partire dalla famiglia chiedono che sia fatta piena luce su quanto accaduto. Ed è quello che anche noi vorremmo. Ma ci pare che nessuno, però, si sia posta la prima domanda che verrebbe alla mente anche di un semplice lettore di libri gialli: perché i dirigenti dei servizi egiziani, che pure ne avevano piena possibilità, invece che far sparire il corpo, rendendo così impossibile ogni indagine, lo fecero ritrovare e in quelle orribili condizioni?

Vengono in mente certi metodi tipici della Mafia e non solo. Detto con chiarezza, con quel ritrovamento che messaggio i servizi egiziani volevano mandare e a chi?

E cosa rendeva Regeni una minaccia così temibile da giustificare quelle torture tanto feroci da far morire il prigioniero? Modi usati verso la dissidenza interna, ma impensabili nei confronti di un occidentale, uno studioso, cittadino per di più di un paese amico come l'Italia con cui esistevano e esistono rapporti di cooperazione militare e di intelligence.

Ridicolo pensare che, come si è scritto e riscritto, tutto si riduca ad una banale intervista all'esponente di un sindacatino paralegale, personaggio ambiguo e probabile collaboratore della polizia politica. Per quello bastava un decreto di espulsione.

E invece a occuparsene furono, a quanto appurato dalla Magistratura italiana, i vertici dei Servizi e non qualche ufficiale subalterno, magari troppo zelante, scappato di mano ai suoi superiori.

Una ulteriore dimostrazione che il caso era considerato un problema di primaria importanza per la sicurezza del regime. Un allarmismo assolutamente non giustificato dal tipo di ricerca che Regeni stava svolgendo. Ma allora perché i vertici della sicurezza erano così preoccupati da intervenire in prima persona e quel modo?

E poi che informazioni potevano ricavare da un giovane, e a quanto si è visto, anche molto ingenuo, ricercatore universitario? Perché accanirsi in quel modo barbaro? Ma soprattutto perché far ritrovare il corpo e rendere così pubblico ciò che era accaduto? Senza il corpo si sarebbe trattato di una semplice sparizione, un fatto inspiegabile, come ne accadono ogni giorno, e non solo in Egitto, un caso da "Chi l'ha visto?".

E invece no, contro ogni logica, si decise di lasciare il corpo in bella vista e con segni inequivocabili che conducevano immediatamente alle pratiche tipiche della polizia e dei servizi egiziani e dunque rendevano il caso un affare politico internazionale.

Una scelta dei vertici dell'intelligence, sicuramente ben consapevoli del vespaio che si sarebbe scatenato. Il tutto porta a pensare, come già detto, che si volesse mandare in modo brutale un avvertimento a qualcuno, a torto o a ragione, considerato il regista di un'operazione di cui non sappiamo nulla e di cui lo stesso sfortunato Regeni era con tutta probabilità del tutto all'oscuro. Una semplice pedina mandata allo sbaraglio.

Chi potrebbe forse dare qualche informazione in merito è l'insegnante inglese che coordinava la ricerca e che lo aveva mandato in Egitto, ma , almeno a quanto riportato dalla stampa, la sua collaborazione alle indagini è stata minima. Eppure le cose da chiarire sarebbero tante. Chi è? Che tipo di Istituto dirige? Chi lo finanzia? Che ricerche svolge e per chi? Tutte domande a cui non pare che né la Magistratura né la stampa abbiano dato molto peso, puntando tutto sul Cairo, quando forse sarebbe stato opportuno indagare anche a Londra.

Se questi sono uomini... Dalla Ceka a Kronstadt al Gulag.

 


È in via di pubblicazione l'ultima ricerca di Roberto Massari dedicata a sfatare il mito tanto caro alla sinistra comunista, sia trotskista che bordighiana, di una netta cesura fra la fase leninista e quella staliniana della storia dell'URSS. Una continuità evidenziata non tanto da una visione politica, a partire da quella "teoria leninista del partito" di cui Massari mosta la natura mitica, ma dalla storia degli apparati repressivi che dalla primitica Ceka conduce al KGB e, per certi aspetti, ancora permane nella Russia putinina.

Un libro di grande interesse di cui offriamo in anteprima la copertina e l'indice.




venerdì 29 dicembre 2023

SCRITTURE OPERAIE. L'esperienza genovese 1970-2020:

 


SCRITTURE OPERAIE. L'esperienza genovese 1970-2020:

Nella Genova degli anni Settanta, quattro metalmeccanici, Pippo Carrubba, Fancesco Currà, Vincenzo Guerrazzi e Giuliano Naria iniziano a scrivere testi letterari. Lo faranno per tutta la vita pubblicando romanzi, inchieste giornalistiche, favole, racconti, poesie e LP. Tre di loro daranno vita, con altri compagni di lavoro, al Collettivo letterario dell'Ansaldo Meccanico, un laboratorio di creatività operaia unico nel panorama italiano e non solo. Attraverso saggi, testimonianze e documenti inediti, oltre a una ricca antologia, il libro racconta, per la prima volta, questa straordinario rapporto tra vita di fabbrica e cultura. L'esperienza è contestualizzata nella genealogia della scrittura operaia, a partire dal falegname-filosofo parigino Louis Gabriel Gauny (1806-1889) fino al Festival di letteratura working class che si è svolto a Campi Bisenzio (Firenze) nel 2023


IL LIBRO sarà presentato
VENERDI' 12 GENNAIO, ore 17
nella Sala Camino di PALAZZO DUCALE (Genova, piazza Matteotti)

All'incontro parteciperanno Claudio Panella (Università di Torino), Marco Codebò e Giorgio Moroni (curatori) e una parte degli autori: Stefano A. Bigazzi, Claudio Gambaro, Liliana Lanzardo, Giovanna Lo Monaco, Augusta Molinari, Rosella Simone. Coordina Giuliano Galletta.

sabato 23 dicembre 2023

Bordighisti filoputiniani. Dovevamo vedere anche questa


Durante la nostra ormai lunga vita ne abbiamo viste di tutti i colori, ma questa ci mancava. I pronipoti di Amadeo, vestali del verbo bordighista e dell'invarianza del marxismo che nacque  integralmente definito e intoccabile già dal primo vagito del Marx infante, schierarsi in nome dell'antiamericanismo a fianco dello zar Putin.

Così nell'ultimo numero di Programma comunista vediamo riprese ad una ad una, e perfino esasperate, la tesi di Putin che i motivi dell'aggressione all'Ucraina (ma lui la chiama "Operazione speciale") sono la denazificazione del paese e una risposta all'aggressività della NATO.

Nell'articolo si lamenta "il silenzio sulla sorte delle popolazioni russofone del Donbass, spinte a proclamare la separazione da Kiev per sfuggire a un regime pesantemente oppressivo nei confronti di tutto ciò che ha sentore di russo entro i confini dello Stato ucraino".

Si sostiene (sempre testuale) "la sollevazione in armi del Donbass russofono, in atto fin dal 2014 come reazione al colpo di Stato di Maidan" e che "lo Stato ucraino (...) che ha alla guida un burattino nelle mani di forze esterne e gruppi di potere interni, è in preda a una dilagante corruzione, e nella condotta della guerra non durerebbe un giorno senza il supporto della Nato, nei cui comandi le sue forze armate sono pienamente integrate".

Per questi bordighisti ultraortodossi il governo ucraino è "un governo quisling degli USA". Quisling, per chi non lo sapesse, era il capo del governo collaborazionista nella Norvegia occupata dai nazisti.

Un paragone di grande spessore storico, sicuramente un buon suggerimento per il prossimo discorso di Putin che non si era ancora spinto fino a questo tipo di argomentazioni.

Come diceva la vecchia canzoncina? Ah si: "era meglio morire da piccoli....".


lunedì 11 dicembre 2023

La Massoneria nel Ponente ligure agli inizi del Novecento


 

Quella della Massoneria in Liguria è una storia ancora in gran parte da scrivere.

A differenza di altre regioni italiane non esiste a tutt'oggi una storia complessiva ed organica della Massoneria nella nostra regione. La letteratura in materia è piuttosto scarna e consiste soprattutto in opuscoli o libri celebrativi la fondazione di singole logge.

Materiali il più delle volte di scarso valore documentale e storico.

Se si eccettuano i volumi dedicati da Luca Fucini alle vicende della Massoneria a Ventimiglia e a Sanremo e al bel libro di Francesco Barbanente sulla Massoneria a La Spezia e in Lunigiana, il panorama è desolante.

Nulla su Genova o su Savona, città dove la Massoneria ebbe non poco peso soprattutto nel periodo intercorrente fra la nascita dello Stato unitario e l'avvento del fascismo.

E questo non, come si potrebbe pensare, per il carattere particolarmente riservato dell'istituzione liberomuratoria, che anzi in quel periodo operava alla piena luce del sole, partecipando attivamente alla vita sociale e politica delle comunità, qualche volta in modo persino eccessivamente ostentato, ma per l'opera sistematica di distruzione negli anni della persecuzione degli arredi e degli archivi delle logge ad opera delle squadracce fasciste.

Nonostante ciò non tutto è andato perduto, come dimostra il documento che presentiamo in questo quaderno, la riproduzione anastatica del regolamento interno della Loggia "Giuseppe Garibaldi" di Porto Maurizio, approvato proprio all'inizio del secolo scorso, il 25 ottobre 1900, e controfirmato dal Gran Maestro Ernesto Nathan.

G.A.


il quaderno può essere letto o scaricato dalla mia pagina nel sito www.academia.edu


giovedì 7 dicembre 2023

Francesco Biamonti. Le carte, la vita, gli incontri


 FRANCESCO BIAMONTI

le carte, le voci, gli incontri

a cura di Matteo Grassano e Claudio Panella

Il Canneto, 2023


A vent’anni dalla morte dell’autore il gruppo di amici e studiosi che sostiene ormai da tempo l’Asso­ciazione Amici di Francesco Bia­monti ha scelto di ricordarlo attra­verso un convegno, da cui è nato questo libro. L’idea è stata quella di fare incon­trare una nuova generazione di studiosi con chi ha sempre segui­to il lavoro dello scrittore fin dagli esordi, con lo scopo di aprire nuo­ve prospettive di ricerca sulla sua produzione letteraria e sulla sua visione etico-filosofica. Oltre alla centralità del paesag­gio e della sua rappresentazione, sono stati approfonditi innanzitut­to l’impegno politico di Biamonti e il suo sguardo sulla cultura fran­cese, letteraria e filosofica, degli anni ’50 e ’60. Gli studi sui suoi scritti di critica d’arte, unitamente all’analisi delle profonde connessioni, anche in­tertestuali, con le voci di scrittori amati, hanno inoltre permesso di comprendere meglio il suo com­plesso e sfaccettato profilo intel­lettuale. A emergere in questo libro non è però solo il ritratto di un autore, ma anche il carattere di un’opera che ha profondamente influenzato la tradizione letteraria italiana fino ai giorni nostri.


lunedì 4 dicembre 2023

Marco Paladini "miniature"


 

giovedì 30 novembre 2023

La Resistenza senza retorica


 

giovedì 23 novembre 2023

Scritture operaie. L'esperienza genovese 1970-2020

 


SCRITTURE OPERAIE

L'esperienza genovese 1970-2020: Pippo Carrubba, Francesco Currà, Vincenzo Guerrazzi, Giuliano Naria.

Con un'antologia di testi.

A cura di Marco Codebò e Giorgio Moroni.

Introduzione di Giuliano Galletta.

Testi di Giuliano Galletta, Marco Codebò, Giorgio Moroni, Ignazio Pizzo, Marino Fermo, Rosella Simone, Antonio Gibelli, Claudio Gambaro, Stefano A. Bigazzi, Giovanna Lo Monaco, Sandro Ricaldone, Liliana Lanzardo, Augusta Molinari

Il libro, a partire dai quattro autori analizzati riflette, in una prospettiva nazionale e internazionale, sul rapporto tra la vita di fabbrica e la comunicazione letteraria.

Nella Genova degli anni Settanta del Novecento, Pippo Carrubba (1938-2020), Fancesco Currà (1947-2016), Vincenzo Guerrazzi (1940-2012) Giuliano Naria (1947-1997), operai dell’Ansaldo Meccanico e dell’Italcantieri, iniziano a scrivere testi letterari. Continueranno a farlo per tutta la vita. Con modi e tempi diversi, legati alle particolari curve delle loro esistenze, produrranno romanzi, inchieste giornalistiche, favole, racconti, memoirs. Questo volume affronta l’esperienza di

questi scrittori attraverso l’analisi del contesto storico e culturale in cui hanno operato, la ricostruzione delle loro biografie, e la presentazione di un’antologia dei loro scritti.

Il contesto storico, nel senso più largo del termine, coincide con l’esistenza stessa della classe operaia. Già dopo la rivoluzione del luglio 1830, come spiega Jacques Rancière nella “Nuit des prolétaires. Archives du rêve ouvrier” (1981), appaiono operai parigini che decidono “di non sopportare più l’insopportabile”, vale a dire “il dolore del tempo rubato ogni giorno per lavorare il legno e il ferro”, e dedicano le notti a discutere, progettare, scrivere. All’altro capo della storia, Xu Lizhi, operaio della Foxconn di Shenzhen, un’azienda che conta sulle commesse di giganti come Apple, Motorola, Samsung e Microsoft, traduce la sua storia nelle poesie pubblicate in "Mangime per le macchine" (tradotte e pubblicate online in Italia a cura dell’Istituto Onorato Damen nel 2010). Fra questi due estremi temporali, altre esperienze di scrittura operaia emergono in contesti storici e culturali molto diversi. Adelheid Popp racconta la sua vita di giovane operaia in “Jugend einer Arbeiterin” (1909), mentre in “Tea Rooms. Mujeres Obreras” (1934), Luisa Carnés Caballeros narra la sua storia di cameriera nelle sale da the della Puerta del Sol; “A la ligne”, infine, è una testimonianza di sofferenza operaia scritta da Joseph Ponthus nel 2018. Questi tre casi sono solo un campione minimo della scrittura operaia in un quadro internazionale. Davanti ad un contesto così ampio e variegato, si tratta di individuare alcune costanti nel rapporto fra scrittura e lavoro operaio e verificarne la loro presenza nei testi prodotti dai quattro operai genovesi di cui si occupa il libro.


Per quel che riguarda il contesto italiano si tratta da una parte di considerare il percorso della narrativa italiana nel trattare la condizione operaia e dall’altra di indagare le spinte culturali e politiche che nella situazione degli anni Sessanta indirizzano ricercatori, sociologi e militanti verso la raccolta di testimonianze operaie. Il quadro letterario è caratterizzato dal ritardo del romanzo italiano nel mettere al centro della rappresentazione il lavoro e la vita di operai e operaie. Renzo e Lucia lavorano tutti e due in filanda ma di quel che fanno là non se ne sa niente nei “Promessi sposi”. La situazione rimane tale fino agli anni Trenta, quando esce “Tre operai” (1934) di Carlo Bernari e soprattutto fino al secondo dopoguerra quando la narrativa neorealista, come anche il cinema, sceglie l’ambiente proletario come il suo terreno d’azione privilegiato. Gli anni Sessanta aggiungono a questo quadro d’insieme l’interesse politico verso la condizione operaia, con le inchieste in cui ricercatori come Danilo Montaldi, Raniero Panzieri, Romano Alquati vanno a scoprire la fabbrica attraverso la partecipazione attiva dei soggetti operai, la cui voce inizia così a depositarsi sulla pagina. In fondo a questo percorso c’è Nanni Balestrini: “Vogliamo tutto” (1971) è un romanzo a due voci, quella dello scrittore affiancata da quella del protagonista Alfonso Natella, operaio della Fiat. Natella diventerà poi scrittore in proprio scrivendo, alcuni anni dopo,

“Come pesci nell’acqua inquinata “(1978). Ma qui siamo ormai quasi arrivati ai nostri scrittori. L’ultimo elemento da inserire nella miscela di fattori che stanno alla base della loro pratica è proprio il protagonismo operaio nelle lotte di fabbrica e di territorio iniziate nell’autunno del 1969; quelle lotte che Balestrini e Natella raccontano in “Vogliamo tutto”.

Come entra la miscela di elementi appena accennati nei testi dei quattro scrittori operai al centro del volume? Il libro risponde scrittore per scrittore e testo per testo, scoprendo sia i fattori comuni sia i tratti espressivi e culturali che invece appartengono solo all’individualità di chi scrive. Com’è ovvio, si è cercato anche di evidenziare i momenti di superamento del contesto, quando la scrittura trascende le condizioni della propria produzione e sia avvia in direzioni originali. Ultimo, ma non meno importante, compito è stato la raccolta di dati e documenti – che diventeranno patrimonio dell'Archivio e fonti per nuove ricerche – attraverso l’inchiesta sulle singole biografie, intorno alle esperienze scolastiche, le pratiche di lettura, le biblioteche personali e le abitudini di scrittura di ognuno dei tre scrittori.

mercoledì 22 novembre 2023

D'autunno Francesco


 

martedì 21 novembre 2023

Enrico Bignami sulla guerra di Libia e l'espulsione dei massoni dal partito socialista

 


Giorgio Amico

Enrico Bignami sulla guerra di Libia e l'espulsione dei massoni dal partito socialista


Nel 1912 si era aperta nel Partito socialista italiano una accesa discussione sulla compatibilità fra appartenenza al partito e alla Massoneria. La questione fu definitivamente risolta nel corso dei lavori del congresso di Ancona che su proposta del direttore dell' "Avanti!" Benito Mussolini proibì la doppia appartenenza ed espulse i massoni dal partito. Da notare come Amadeo Bordiga, futuro fondatore del Partito comunista e allora esponente di primo piano della Federazione giovanile socialista, fosse stato il principale sostenitore di Mussolini in questa battaglia. Cosa che non mancò di ripetutamente ricordare alle autorità di polizia negli anni Trenta per allontanare da sé il sospetto di svolgere attività antiregime (cfr. Il nostro Bordiga, il fascismo e la guerra (1926-1944), Massari Editore 2021).

Nel vivo di questa battaglia, che vide non pochi esponenti illustri del socialismo italiano abbandonare il partito, si colloca una lettera di Enrico Bignami, uno dei padri del movimento operaio e socialista italiano, fondatore della rivsta "La Plebe" e poi della sezione italiana dell'Internazionale socialista.

Da Lugano, dove risiedeva e dirigeva la rivista "Coenobium", terreno di incontro di figure importanti della cultura di allora come, solo per citare le più illustri, Miguel de Unamuno e andré Gide, in una lettera datata 10 maggio 1913 (che riproduciamo in copertina riprendendola da un vecchio numero di Hiram del marzo 1989), dopo aver rivendicato con orgoglio il suo essere massone, il vecchio internazionalista esprime la sua sdegnata condanna del sostegno dato dal Grande Oriente alla guerra di conquista coloniale della Libia:

"Io non metterò più piede in una loggia italiana, se non sarà fatto sicurodi trovarsi in una accolta di fratelli che, almeno nella loro maggioranza, non aderito alla nefasta impresa di rapina e di sterminio che disonora e dissangua la patria".

La lettera è occasione anche di pronunciarsi sul dibattito in corso nel Psi. In una breve annotazione in appendice alla lettera, indirizzata al Maestro Venerabile della Loggia "Carlo Cattaneo" di Milano, Bignami interviene infatti sul tema della incompatibilità fra iscrizione al Partito socialista e appartenenza alla Massoneria, ricordando come proprio grazie al sostegno delle logge il movimento operaio si fosse potuto organizzare politicamente e difendere dalla repressione governativa:

"Lanciai il manifesto della Plebe repubblicano-socialista da Lodi nel nov. 1867, reduce appena da Mentana. Fu al coperto di una volta stellata di un Tempio che potei costituire la prima sez. Italiana dell'Internazionale. I denigratori socialisti della Massoneria potrebbero ricordarsi di cento altri fatti come questo".



domenica 19 novembre 2023

La rinascita della Massoneria italiana dopo la caduta del fascismo: una realtà complessa


 

Giorgio Amico

La rinascita della Massoneria italiana dopo la caduta del fascismo: una realtà complessa


Quello in cui la Massoneria rinasce a quasi vent'anni dalla messa fuori legge è un momento estremamente complesso: il regime fascista è caduto, ma la guerra continua con la lenta avanzata delle truppe alleate a cui si contrappone una accanita resistenza tedesca. Il paese è diviso in due, da una parte la monarchia detentrice di un potere poco più che nominale, dall'altra la neocostituita Repubblica Sociale Italiana dalle caratteristiche ancora più effimere. Nei territori occupati opera un forte movimento di resistenza che combatte una guerra nella guerra dalle caratteristiche complesse, al contempo guerra di liberazione nazionale, guerra civile e guerra di classe. 

Allo stato di estrema precarietà della situazione politica e sociale del paese si accompagnano a complicare ulteriormente le cose per i "Fratelli" i frutti avvelenati dello scisma del 1908. Quando già alla fine del 1942, alla luce della avvertibile crisi del regime, i superstiti quadri dirigenti della Massoneria prefascista cominciarono a intensificare i loro sforzi per ricostruire legami stabili che andassero al di là dei rapporti, più o meno forti, mantenuti a livello personale per tutta la durata degli anni della clandestinità, il problema che si pose fu immediatamente se ricostituire le due vecchie Obbedienze di Palazzo Giustiniani e di Piazza del Gesù o, considerato il cambiamento epocale avvenuto nel frattempo, una Massoneria completamente diversa, rinnovata e riunificata. 

Il risultato fu una notevole confusione di sigle e di personaggi. Una situazione caotica non priva di ambiguità, anche per il pullulare di avventurieri pronti ad ogni tipo di operazioni e di elementi già pesantemente compromessi con il regime fascista e ora all'affannosa ricerca di una riabilitazione democratica. 

A ciò si univano sia i contrasti fra le potenze alleate che avrebbero presto portato alla fine dell'unità antifascista e allo scoppio della guerra fredda, sia le diverse valutazioni e prospettive con cui Americani e Inglesi guardavano all'Italia del dopoguerra. La ricostituzione della Massoneria fu fin dagli inizi uno dei campi di intervento negli affari interni italiani dei Servizi di intelligence occidentali e in particolare di quelli americani. Prima l'OSS e poi la CIA si mossero attivamente e con spregiudicatezza nell'ambito del confuso processo di decantazione che vide coinvolti decine di gruppi massonici o paramassonici, ciascuno rivendicante l'eredità della massoneria prefascista. Lo scopo era erigere una solida barriera che proteggesse la neonata e fragilissima democrazia repubblicana dal pericolo del comunismo o comunque di un'avanzata significativa delle sinistre. Un sorta di "grande gioco" cui partecipò una pluralità di attori, non ultimi il Vaticano e nello specifico siciliano la mafia e il movimento separatista. 

 Ci vollero anni perché tutti questi nodi venissero sciolti. Le elezioni politiche del 1948 e la netta scelta di campo atlantica e filoamericana segnarono un punto fermo non solo per la rinascita del Paese dopo il periodo travagliato della ricostruzione, ma anche per gli assetti definitivi della Massoneria del dopoguerra.


sabato 18 novembre 2023

Con un piede impigliato nella storia. Gli "anni di piombo" visti dalla figlia di Toni Negri

 


Ritorna il libreria il libro-testimonianza di Anna Negri. Uno sguardo femminile sugli anni "caldi" tra sogni di rinnovamento e repressione. Un libro bellissimo, da leggere per capire quegli anni al di là di come li raccontano oggi i vincitori. Riportiamo una parte dell'articolo "la coscienza politica di incedere" di Laura Fortini. 


(...)

Tra i titoli più efficaci per rappresentare il difficile e complesso rapporto delle personagge con la storia del Novecento quello del libro di Anna Negri, Con un piede impigliato nella Storia, pubblicato per la prima volta nel 2009, oggi meritatamente riedito da Deriveapprodi (pp. 320, euro 20, prefazione di Cristina Piccino).

Molte le definizioni che si possono dare di un testo che racconta la complessa vicenda del processo del 7 aprile 1979, ferita mai rimarginata del castello accusatorio che negli anni Ottanta del Novecento mise fine a una stagione di lotte di cui mai si era visto l’eguale in Italia: testimonianza, memoir, autobiografia, molte le possibili definizioni per questo volume, ma anche romanzo che storicizza con la propria narrazione quanto avvenuto in una stagione italiana vissuta in prima persona in quanto l’autrice è figlia di Toni Negri, ma guardata nel suo acre dipanarsi tra le carceri e i processi a partire da sé e dal proprio crescere e divenire donna in una stagione politica che, con difficoltà ancora oggi, riconosce al femminismo della liberazione lo statuto di unica rivoluzione riuscita.

SI TRATTA DI UNO SGUARDO apparentemente marginale, ma particolarmente efficace perché lo sguardo bambino che narra, a partire dal prologo nel maggio 1977, che cosa accadde con la stagione delle leggi dell’emergenza produce, lo ha scritto bene Ida Dominijanni nel 2009 su questo giornale «un nuovo punto di vista che modifica la prospettiva». Perché leggere quegli anni attraverso le vite e i corpi di quante e quanti vennero travolti dal teorema Calogero, che prende il nome dal giudice che diede il via a quell’ondata di arresti che mise in galera una generazione politica, rende come nulla d’altro mai il senso di quanto accadde in un decennio cruciale per la stagione politica in cui ci troviamo a vivere i frutti avvelenati di una lunga storia.

E che vale leggere oggi proprio per la sua capacità di essere romanzo – e quindi narrazione, non testimonianza o almeno non solo, non solo memoir, né pure autobiografia –, e romanzo storico per gli interrogativi che pone alla storia e alla possibilità di ricostruire un’epoca e una stagione in cui la politica è stata gioia e passione condivisa, oltre che patimento, fatica, impegno allo spasmo, ma sempre condivisi.
Quando ciò è venuto meno si è continuato a guardare indietro piuttosto che avanti, come invece è costretta a fare, pure con immenso dolore e rischio di perdersi, la protagonista Anna, il fratello e tutta le generazioni venute poi.

CORPI E VITE diversamente raccontati, quando raccontati, da Toni Negri nella sua autobiografia in più volumi, tutti pubblicati dopo Con un piede impigliato nella Storia (Storia di un comunista, 2015; Galera ed esilio, 2017; Da Genova a domani, 2020, a cura di Girolamo De Michele per Ponte alle Grazie) e che con esso quasi sembra non dialogare, se non per un filo intimo e molto riservato che corre sommesso nella narrazione del padre ed è bene che sia così, perché certamente differenti i toni e gli scopi delle due scritture.

Ciò si comprende fin dalle prime pagine del libro di Anna Negri, in cui la voce narrante prende coscienza dell’avere un corpo di donna poco prima di essere operata d’urgenza d’appendicite e due medici, pensandola già sotto anestesia, sollevano il lenzuolo che la copre dicendo: «Dodici anni. Sembra più grande, vero? Pensa che non è ancora mestruata». A scandire la narrazione le date: Padova 1968-72, Milano Assicurazioni 1972-1975, Latitanza 1977-1978, e così via fino alla Maturità 1982-83 che coincide con la scarcerazione del padre, dopo anni di viaggi verso carceri lontanissime e difficili da raggiungere, di solitudine e di abbandono da parte di genitori pure affettuosissimi ma in altro impegnati allo spasmo tra galera e difesa legale, e una comunità politica che si andava sfaldando.

Una storia fatta di personale che è politico e lo diviene tanto più nel modo con cui lo svolgersi di eventi simbolici (ma non solo ovviamente) si intreccia alla propria, ad esempio attraverso la notizia e il processo del massacro del Circeo, la morte di Pasolini percepita come una ferita insanabile, e i primi episodi di una vertigine esistenziale che poi Elena Ferrante chiamerà ’smarginatura’: «Un pomeriggio mi sono alzata dalla sedia da camping e improvvisamente non ho più saputo chi ero, cosa ci facevo lì, chi erano le persone che mi circondavano. (…) Era una vertigine molto prolungata, come un’esperienza extracorporea, quelle in cui ci si vede distesi sul letto dal soffitto».

In realtà molto corporea, se nella narrazione non è una vita astratta quella che fa i conti con la Storia impigliandovisi continuamente, ma quella di una ragazzina che diviene donna passando attraverso la percezione di sé e del proprio corpo come un elemento problematico passabile di palpeggiamenti e tentativi di violenza, da cui riscattarsi grazie alla propria capacità di reazione, le amiche, e una genealogia di donne forti come le madri che riescono a scherzare, mentre attendono in un agosto caldissimo di entrare con i bambini in carcere per l’incontro con i compagni e padri dei loro figli: «Certo che si sta bene a Rebibbia Beach» e da quel momento invece di dire andiamo in prigione a trovare papà si diceva ci vediamo a Rebibbia Beach.

QUEL GIORNO, scrive Anna Negri, «mi è parso tutto chiaro: gli uomini prima facevano la rivoluzione lasciando le donne a casa ad accudire i figli, poi venivano messi dentro ed erano sempre le donne a crescere i figli, a lavorare, ad occuparsi dei mariti in carcere (…). Erano loro le vere rivoluzionarie, quelle che paravano i colpi, che preservavano, che andavano avanti». In una lettera al padre la protagonista scrive che pensa di avere un piede impigliato nella Storia che le impedisce di correre verso la sua vita, ma di fatto le va incontro, perché anche se nessuno sceglie la Storia cui appartenere ci sono molti modi per stare in essa interamente. (...)


Da il Manifesto del 7 novembre 2023



mercoledì 15 novembre 2023

sabato 11 novembre 2023

Am ha Sefer - Il Popolo del Libro

 


Il 21 novembre la Fondazione Beni Culturali Ebraici in Italia organizza il convegno "AM HA SEFER - IL POPOLO DEL LIBRO Lettori e bibliofili nell’Italia ebraica tra il XVII e il XX secolo". Un ricco programma di interventi ci accompagnerà in un viaggio nella storia del libro e delle biblioteche dell'Italia ebraica.

mercoledì 8 novembre 2023

Angelo Gualco Back to the future

 


ANGELO GUALCO
Back to the Future
(otto lavoretti + 1
e cinque altre cose)
a cura di Sandro Ricaldone
Entr’acte
via sant’Agnese 19r – Genova
9 - 30 novembre 2023
orario: mercoledì- venerdì 16-19
inaugurazione: giovedì 9 novembre, ore 17


Una “piccola” mostra adatta al luogo e all’età, la mia, quando lasciate le grandi attese, resta il piacere del fare che consola.
Sono dei “lavoretti”, dice Enrica sorridente, come quelli dei bambini alla scuola materna, da mettere sotto l’albero quando viene Natale.
In questi miei “lavoretti” c’è una presa di distanza dal prima (Barricate, Ça Ira, Mediterraneo in fiamme) in cui si “immemorava” il passato, lo si riviveva nel presente perché incompiuto, irrealizzato nel prima.
Oggi prevale una disposizione a lasciare, ad abbandonare i ricordi vissuti come un peso e un inciampo.Reporter mancato per ignavia e per timore, da sempre fotografo oggetti, trovati, ritrovati perché conservati, presenti nello spazio di casa.
Anche la fotografia (sia analogica che digitale) è ormai un oggetto del passato, è - oggi - una pratica quotidiana che si esaurisce nella presenza rituale su Instagram e Facebook.
La fotografia non mi bastava, per un ritorno dopo una assenza durata molti anni e che credevo fosse per sempre.
Gli oggetti dovevano essere presentati insieme alle immagini che li ritraggono in un continuo rimando, teso ad amplificare la dimensione ludica del mio lavoro, così da intensificarne l’effetto catartico-liberatorio.
Questo è l’intento, quantomeno desiderato, sperato.
Oggetti che ri-guardano, che testimoniano il passato, che ingombrano la mente: desideri, miti, sedimenti
di memoria, amori, illusioni che - consegnati, sacrificati ai “lavoretti” - spero possano essere dimenticati
per far posto ad un futuro arduo e difficile anche solo da pensare.

- Angelo Gualco

martedì 7 novembre 2023

Archeologia a Ventimiglia

 


mercoledì 25 ottobre 2023

Italo Calvino e la Massoneria

 


Nel fiume di pubblicazioni che stanno celebrando il centenario della nascita di Italo Calvino e che ne tratteggiano i molteplici aspetti della vita e della creazione letteraria non si trova quasi traccia del rapporto profondo che legò il grande scrittore alla Massoneria. Rapporto di cui si ritrovano tracce evidenti in tutta la sua opera a partire da un passaggio de “La strada di San Giovanni”, una sorta di bilancio che Calvino fa nel 1961 della sua giovinezza. Parlando dell'amore del padre per la campagna egli scrive:

“La tavola dove si posava la frutta e la verdura e si riempivano le ceste da portare giù, era sotto il fico, a fianco dell'antico casolare di Cadorso, (dove viveva la famiglia dei manenti) con ancora la traccia sbiadita, sopra la porta, del simbolo massonico che i vecchi Calvino mettevano sulle loro case”.

Frase rivelatrice del legame profondo che da sempre univa la sua famiglia alla Massoneria. Legame antico se nel 1874 fra i dieci fondatori della loggia “Liguria”, prima loggia del GOI a Sanremo risultano il nonno e lo zio dello scrittore, il medico e floricoltore GioBernardo Calvino e suo fratello GioBatta. Il 26 marzo 1900 la “Liguria” gemmava una nuova officina: la “Giuseppe Mazzini”. Fra i fondatori ritroviamo il nonno di Calvino, GioBernardo poco dopo raggiunto dai figli, Mario e Quirino, rispettivamente padre e zio di Italo.

In un articolo uscito l'anno precedente nel numero di settembre-dicembre della rivista “Il Paradosso”, Calvino aveva descritto con ricchezza di particolari l'ambiente culturale nel quale era cresciuto, sottolineando come la vita della famiglia fosse improntata a rigorosi principi etici di origine laica e repubblicana e come ciò comportasse una netta presa di distanza dal regime fascista allora all'apice del consenso:

“ La mia famiglia era piuttosto insolita sia per San Remo sia per l'Italia d'allora: i miei genitori erano persone non più giovani, scienziati, adoratori della natura, liberi pensatori, personalità diverse tra loro ed entrambe all'opposto dal clima del paese. Mio padre, sanremese, di famiglia mazziniana repubblicana anticlericale massonica, era stato in gioventù anarchico kropotkiniano e poi socialista riformista, aveva vissuto nell'America Latina molti anni e non aveva conosciuto l'esperienza della Guerra mondiale; mia madre, sarda, di famiglia laica, era cresciuta nella religione del dovere civile e della scienza, socialista interventista nel '15 ma con una tenace fede pacifista. Ritornati in Italia dopo anni all'estero mentre il fascismo stabiliva il suo potere, avevano trovato un'Italia diversa, difficilmente comprensibile. Mio padre cercava senza fortuna di mettere al servizio del suo paese la sua competenza e la sua onestà (…) mia madre, sorella d'un professore universitario firmatario del manifesto Croce, era d'un antifascismo intransigente. Cosmopoliti entrambi per vocazione ed esperienze (...) Il fascismo s'inseriva in questo quadro come una via tra le tante, ma condotta da ignoranti e disonesti. La critica al fascismo nella mia famiglia, oltre che per la violenza, l'ingordigia, la soppressione della libertà di critica, l'aggressività in politica estera, si appuntava soprattutto su due peccati capitali: l'alleanza con la monarchia e la conciliazione col Vaticano (…) Da bambino sentendo i discorsi dei grandi a casa mia, ebbi sempre per ovvia l'impressione che in Italia andasse tutto per traverso”.

Date queste premesse non stupisce che in uno dei suoi primi scritti importanti, “La Riviera di Ponente”, suo esordio su “Il Politecnico” di Elio Vittorini, rivista centrale nel panorama culturale italiano di quegli anni, il giovane scrittore tracciasse nel novembre 1945 una sintetica ricostruzione del ruolo importante svolto dalla Massoneria in Liguria e più in generale in Italia, nel Risorgimento prima e nella costruzione dello Stato unitario poi:

“ Battuto Napoleone, nel 1814, i Savoia si trovarono padroni della regione. Come conseguenza si ebbe che, al Risorgimento, la borghesia ligure, tradizionalmente repubblicana, diede i suoi uomini migliori alla cospirazione ed alla lotta dei Mazzini e dei Garibaldi. Delle vecchie famiglie borghesi, chi non era bigotto e clericale era nei carbonari, o nei mazziniani, o nella Massoneria. La Massoneria soprattutto finì per raggruppare intorno a sé tutte le energie progressive dell’epoca e per temperar ogni slancio rivoluzionario: il repubblicanesimo diventò un puro sfogo verbale e la lotta si polarizzò sull’anticlericalismo. Così due forze dominarono la vita pubblica della Liguria di Ponente: la Chiesa e la Massoneria. E due furono i partiti che si contesero le amministrazioni: il conservatore (clericale e monarchico) e il socialista (sostenuto e temperato dalla Massoneria)…”.

A quell'epoca lo scrittore è fresco di militanza comunista, si era iscritto al partito nel 1944 durante la guerra partigiana, ma, nonostante la diffidenza se non l'ostilità del PCI verso la Massoneria, non esita a riconoscere l'importanza del ruolo svolto da questa nella storia d'Italia. E non è, come si potrebbe pensare, una semplice ripresa adattata al contesto ligure delle tesi gramsciane sul Risorgimento sviluppate nei “Quaderni del carcere”, di cui allora non si conosceva neppure l'esistenza visto che la casa editrice Einaudi ne iniziò la pubblicazione solo nel 1948, ma di una riflessione del tutto personale, acutissima nella sua sinteticità, derivante dalla conoscenza diretta frutto della sua personale esperienza dato che, come si è visto, le due storie, quella della Massoneria nel Ponente ligure alla fine dell'Ottocento e quella della famiglia Calvino, risultavano inestricabilmente connesse. Una conoscenza profonda della storia e dei riti massonici che riemergerà un decennio più tardi nel romanzo “Il barone rampante”.

Il barone rampante”

Nel 1957 Calvino pubblica “Il barone rampante”, secondo capitolo de “I nostri antenati”, insieme a “Il visconte dimezzato” (1952) e “Il cavaliere inesistente” (1959). In questo romanzo, che abbraccia tutto il periodo della Rivoluzione francese iniziando nel ventennio immediatamente precedente e concludendosi in piena Restaurazione lo scrittore fa precisi riferimenti alla Massoneria. In particolare nel capitolo XXV che è interamente dedicato alla vita massonica non proprio ortodossa del protagonista e in cui si può leggere questa illuminante annotazione:

“Nella Massoneria Cosimo dunque non faceva che ripetere quel che già aveva fatto nelle altre società segrete o semisegrete cui aveva partecipato. E quando un certo Lord Liverpuck, mandato dalla Gran Loggia di Londra a visitare i confratelli del Continente, capitò a Ombrosa mentre era Maestro mio fratello, restò così scandalizzato dalla sua poca ortodossia che scrisse a Londra questa d’Ombrosa dover essere una nuova Massoneria di rito scozzese, pagata dagli Stuart per fare propaganda contro il trono degli Hannover, per la restaurazione giacobita”.

Per il lettore comune un periodo buttato là con nonchalance, come una annotazione fra le tante, ma per chi ha gli strumenti per comprenderne le implicazioni profonde, la testimonianza della conoscenza di prima mano che l'autore aveva delle cose massoniche, considerato che la cosiddetta massoneria dissidente “giacobita” è da sempre argomento per accademici e specialisti della materia e in quanto tale, non solo del tutto sconosciuto ai “profani”, ma spesso poco noto anche agli stessi appartenenti all'istituzione libero muratoria.

Tornando al “Il barone rampante”, il romanzo racconta la storia di un giovane aristocratico del Ponente ligure, Cosimo Piovasco di Rondò, che all’età di dodici anni, in seguito a un litigio con i genitori si arrampica su un albero del giardino di casa per non scendervi più per il resto della vita. Come via via raccontato dal fratello, voce narrante del romanzo, quell'atto di ribellione diventa una scelta di vita, un percorso di formazione e maturazione destinato a durare tutta la vita nel tentativo di passare dal caos del mondo a un ordine fondato sulla ragione e su una visione etica della vita. Il romanzo si chiude con un ultimo colpo di scena: ormai anziano, Cosimo non si arrende e non scende a terra, al passaggio di una mongolfiera, si aggrappa ad un cima penzolante e scompare nel cielo alla ricerca di nuovi superiori orizzonti.

Come si comprende fin dalle prima pagine quella di Cosimo non è una fuga dal mondo, né il rifiuto snobistico o capriccioso di mantenere rapporti con gli altri uomini. Cosimo non è un eremita. Fedele alla sua scelta di vita, Cosimo vive sugli alberi, ma continua a partecipare attivamente alla vita del suo tempo, tanto da interloquire idealmente anche con il grande Voltaire. Semplicemente, scrive Calvino, Cosimo ha compreso che “per essere con gli altri veramente, la sola via era d’essere separato dagli altri”. Detto in altri termini, un'azione mirante ad un cambiamento in meglio del mondo e al “benessere dell'umanità” deve partire da un punto di osservazione esterno alle dispute ideologiche e personali, mantenendosi estranea ad ogni fanatismo. Esattamente quanto predicava negli anni in cui il romanzo è ambientato il massone Voltaire, in questo fedele interprete degli ideali su cui il giorno di San Giovanni Battista del 1717 era stata fondata a Londra, nei locali della taverna “L'oca e la graticola”, la Gran Loggia d'Inghilterra. E d'altronde la frase altro non è che una citazione del filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte che nelle sue famose “Lezioni sulla Massoneria”, pubblicate nel 1802-1803, aveva affermato che solo «uscendo dalla società» e cercando di superare gli svantaggi di una «cultura unilaterale», si poteva diventare uomini veramente liberi e di buoni costumi come i massoni amano definirsi.

Figlio e nipote di massoni, Calvino non fu mai iniziato alla Massoneria, né per quello che se ne sa provò mai il desiderio di esserlo, forse proprio perché massone si sentiva già nel senso più profondo del termine e l'adesione formale sarebbe stata probabilmente fonte di delusione. Perché gli ideali camminano sulle gambe degli uomini che sono spesso terribilmente corte e di questo Calvino, che aveva appena rotto con il PCI, era pienamente consapevole. Di questa adesione ideale, che era anche – sia detto per inciso – riconciliazione con il padre e il suo percorso di vita - “Il barone rampante” resta testimonianza viva nel suo essere non solo romanzo filosofico, intriso di ironia alla maniera settecentesca, ma anche espressione in forma di favola dei fondamenti del pensiero massonico: l'iniziazione (l'abbandono della vita terrestre e la salita sugli alberi) come cambiamento di stato; la ricerca costante della verità non fine a sé stessa ma finalizzata al miglioramento della condizione umana; il Tempio (la chioma degli alberi) come luogo separato dal caos del mondo dove meditare sulla vita per raggiungere uno stato superiore di coscienza. E nel cielo stellato che sovrasta sia il bosco che il Tempio massonico, Cosimo sparisce a simboleggiare che la morte è solo un ulteriore passaggio di stato, proprio come lo è da sempre l'iniziazione ai Misteri.

Ne abbiamo già accennato: il momento in cui il romanzo viene scritto è estremamente significativo. Calvino è ad una svolta fondamentale della sua vita, analoga per importanza a quella operata nel 1944 quando era salito in montagna per unirsi alle Brigate Garibaldi e aveva chiesto l'iscrizione al Partito comunista. Una scelta etica più che ideologica: “Quando seppi – scrive in “Autobiografia politica giovanile” del 1960 – che il primo capo partigiano della nostra zona, il giovane medico Felice Cascione, comunista, era caduto combattendo contro i tedeschi a Monte Alto nel febbraio 1944 chiesi a un amico comunista di entrare nel partito”.

Sono gli anni della crisi politica dello scrittore, della sua rottura con il Partito comunista e l'abbandono di una militanza politica intensa come conseguenza diretta del dramma dell'Ungheria e delle rivelazioni del XX Congresso del PCUS. Anche questa volta l'aspetto etico è predominante, risposta al fallimento di una fede salvifica rivelatasi fallace. “Il dio che è fallito” aveva non a caso titolato nel 1950 l'ex comunista Silone un suo libro importante che raccoglieva, oltre la sua, testimonianze di altri intellettuali che avevano vissuto gli stessi entusiasmi e la stessa disillusione. Per Calvino, che pure ci aveva creduto fortemente, il comunismo nella sua versione storicamente realizzata non rappresenta, come aveva utopicamente pensato Marx, la risposta finalmente trovata alla alienazione della condizione umana. Altra è la via. La rivoluzione è prima di tutto rivoluzione interiore, conoscenza e miglioramento di sé. Conquiste da riportare nel mondo, perché la vita degli uomini si regga su quei principi di armonia (libertà, eguaglianza, fratellanza) che lo scrittore aveva appreso a conoscere e ad amare in famiglia a contatto con il padre e lo zio e nel ricordo del nonno, combattente alla presa di Porta Pia nel 1870. Per essere con gli altri veramente, la sola via è essere separato dagli altri, afferma Calvino. Proprio quello che aveva scritto centocinquanta anni prima Fichte e che rappresenta l'essenza di quel “segreto” massonico su cui tanto si è scritto a sproposito. Una scelta che i “profani” spesso non comprendono, vedendo in questa voluta separazione dal vociare confuso e caotico del mondo la prova di chissà quali oscure e inconfessabili manovre, ma che rende la Massoneria scuola di vita e non partito o sorta di religione come qualcuno vuole dipingerla per meglio combatterla.

Sarà da queste esperienza traumatica ma illuminante che nasceranno le riflessioni contenute in un altro scritto autobiografico di Calvino, quel già citato “La strada di san Giovanni” in cui nel 1961 lo scrittore ricostruisce il rapporto con il padre negli anni dell'adolescenza.

La strada di San Giovanni”

Nella Strada di San Giovanni Calvino contrappone l’universo del padre, Mario, agronomo e floricoltore di fama internazionale, al proprio di adolescente inquieto:

“Una spiegazione generale del mondo e della storia deve innanzi tutto tener conto di com'era situata casa nostra, nella regione un tempo detta «punta di Francia», a mezza costa sotto la collina di San Pietro, come a frontiera tra due continenti. In giù, appena fuori del nostro cancello e della via privata, cominciava la città coi marciapiedi le vetrine i cartelloni dei cinema le edicole, e Piazza Colombo li a un passo, e la marina; in su, bastava uscire dalla porta di cucina nel beudo che passava dietro casa a monte (sapete i beudi, che derivano le acque dei torrenti per irrigare i terreni della costa: un canaletto a ridosso d'un muro, fiancheggiato da uno stretto marciapiede di lastre di pietra, tutto in piano) e subito si era in campagna, su per le mulattiere acciottolate, tra muri a secco e pali di vigne e il verde.

Era sempre di là che usciva mio padre, vestito alla cacciatora, coi gambali, e si sentiva il passo delle scarpe chiodate per il beudo, e lo scampanellio d'ottone del cane, e il cigolare del cancelletto che dava nella strada di San Pietro. Per mio padre il mondo era di là in su che cominciava, e l'altra parte del mondo, quella di giù, era solo un'appendice, talvolta necessaria per cose da sbrigare, ma estranea e insignificante, da attraversare a lunghi passi quasi in fuga, senza girare gli occhi intorno. Io no, tutto il contrario: per me il mondo, la carta del pianeta, andava da casa nostra in giù, il resto era spazio bianco, senza significati; i segni del futuro mi aspettavo di decifrarli laggiù da quelle vie, da quelle luci notturne che non erano solo le vie e le luci della nostra piccola città appartata, ma la città, uno spiraglio di tutte le città possibili”.

Il paesaggio come punto di partenza per definire un percorso umano, una identità, dunque, ma ancora non basta. Per attribuire senso e significato alla vita il paesaggio non è sufficiente. Perché il paesaggio non è un dato oggettivo, che basta a sé stesso, ma la cristallizzazione dell'occhio che si posa sulle cose e dunque prima di tutto uno stato dell'animo, una presa di posizione. Per poter essere rappresentato il paesaggio deve poter essere introiettato, in qualche modo vissuto, fatto proprio. E proprio a questo serve la vita vissuta come ricerca di sé: a dare senso e significato al caos che ci circonda, alla apparente irrazionalità e casualità dell'esistere. “Ordo ab chao” il motto del Rito Scozzese Antico e Accettato in cui Mario Calvino aveva raggiunto il 33° grado, ma anche la conclusione a cui giunge Italo e che lo riconcilia idealmente con il padre nel riconoscere che, anche se in forme diverse, la strada cercata era stata la stessa:

“Capite come le nostre strade divergevano, quella di mio padre e la mia. Ma anch'io, cos'era la strada che cercavo se non la stessa di mio padre scavata nel folto d'un'altra estraneità, nel sopramondo (o inferno) umano, cosa cercavo con lo sguardo negli androni male illuminati nella notte (l'ombra d'una donna, a volte, vi spariva) se non la porta socchiusa, lo schermo del cinematografo da attraversare, la pagina da voltare che immette in un mondo dove tutte le parole e le figure diventassero vere, presenti, esperienza mia, non più l'eco di un'eco di un'eco”.

Attraversare lo schermo del cinematografo, voltare pagina alla ricerca di un altrove dove le parole abbiano sostanza e non siano l'eco di altri echi, scrive Calvino. E questo per scoprire la propria individualità, il proprio essere autentico. Sono i motivi per cui si bussa alla porta del Tempio, per cui si cerca la Luce. Ed è questa ricerca che innerva la vita e l'opera letteraria di Italo Calvino a rendere lo scrittore un Massone non iniziato, un Massone nel cuore.

Savona - Ottobre 2023


giovedì 12 ottobre 2023

A proposito di un graffito antisemita attribuito a Banksy

 

Si può discutere della questione palestinese, delle responsabilità e delle colpe dei governi israeliani, della condizione terribile in cui molti palestinesi sono da decenni costretti a vivere, di tutto quello che si vuole. Ognuno ha il diritto di pensarla come vuole e di sostenere le sue idee. E' la base stessa della convivenza civile e della democrazia.

Ma equiparare la condizione dei bambini palestinesi oggi a quella dei bambini ebrei nei campi di sterminio, rappresenta una tale mancanza di cultura storica, una menzogna così grande che non ci può essere confronto possibile.

Ho amici di ogni idea politica, anche di destra, che rispetto e con cui mi confronto volentieri pur sapendoli lontanissime dalle mie idee. Ma gli antisemiti, soprattutto quelli di sinistra, no. Con loro non voglio avere alcun rapporto.

Mi ripeto, sarete anche andati ad Auschwitz, celebrerete pure la Giornata della Memoria, ma se mettete sullo stesso piano la condizione dei bambini ebrei nei campi di sterminio con quella dei bambini palestinesi oggi, vuol dire che non avete capito nulla. Vi scandalizzate se qualcuno accosta le foibe o il gulag ai crimini nazisti, dite, giustamente, che non sono fenomeni paragonabili, ma quando si tratta di Israele allora i distinguo non valgono più.

Vergognatev

martedì 10 ottobre 2023

A qualcuno gli ebrei piacciono solo morti

 


Oltre a lanciare 5000 missili sulle città israeliane, Hamas ha occupato una ventina di insediamenti ebraici sul confine di Gaza. Ma non si è limitata all'effetto propagandistico della riconquista simbolica di una parte del territorio che considera storicamente suo, ne ha ucciso sistematicamente gli abitanti senza di distinzione di età e di sesso, ha violentato le donne, ha rapito bambini e donne esposte nude nelle vie di Gaza o , come i bambini, chiusi in gabbie per cani.

Nel suo documento fondativo Hamas si propone da sempre la distruzione dello Stato di Israele. Con questa azione ha voluto dimostrare che distruzione di Israele significa concretamente e deliberatamente lo sterminio del popolo ebraico. Ogni ebreo è per Hamas un nemico da abbattere, anche se è un bambino di quatto anni o una ragazza di sedici o una donna di 85.

Chi parla del probabile attacco israeliano a Gaza come di una rappresaglia, e prende una posizione di equidistanza, o non capisce o non vuol capire che Israele sta lottando per la sua sopravvivenza, fisica prima che politica, contro una guerra di sterminio. Non capisce che la prima vittima del fanatismo di Hamas sono proprio i civili palestinesi usati cinicamente come scudo e, se vittime, come arma di propaganda per rinfocolare nel mondo arabo e non solo, basta vedere le reazioni di una certa sinistra italiana, l'odio contro gli ebrei. Anche solo per questo, chi sostiene le legittime ragioni del popolo palestinese, chi davvero è per la pace, non può non essere contro i tagliagole di Hamas.

Chi difende Hamas, con i distinguo da anima bella sui se e i ma, chi non si schiera, chi parla di pace in astratto, si rende complice, ne sia consapevole o no, di una nuova Shoah. Sono magari andati a Aushwitz ma non hanno imparato nulla. Il loro è stato solo un macabro turismo dell'orrore. Perché per questi "pacifisti", per questi spiriti superiori, gli ebrei devono essere sempre e solo vittime. Questo è il loro unico modo di accettare l'ebreo. Se gli ebrei si alzano in piedi e combattono, se non accettano più di farsi massacrare senza reagire, tornano ad essere i "perfidi giudei". Sono antisemiti nel profondo del cuore, ma parlano di pace e fratellanza.



domenica 1 ottobre 2023

I servizi segreti USA nella campagna d'Italia e nella Resistenza

 


Giorgio Amico

I servizi segreti USA nella campagna d'Italia e nella Resistenza


Abbiamo appena terminato la lettura di "La campagna d'Italia dei servizi segreti americani 1943-1945" dell'italo-americano Max Corvo che di quella storia fu uno dei principali protagonisti.

Dettagliatissimo sul piano militare, il libro (uscito negli Sati Uniti nel 1990 e in Italia nel 2006) risulta invece estremamente deludente su quello politico, disattendendo le attese di chi si aspettava qualche informazione sui rapporti dei servizi americani con la realtà complessa e contradditoria della Sicilia.

Attesa inutile perché l'autore, uno dei principali capi dell'OSS in Italia, si guarda bene dall'accennare anche di sfuggita ai rapporti con la mafia. Rapporti che pure ci furono e intensi, come documentato da una significativa mole di documenti via via desecretati negli anni dalla CIA che nel 1947 prese il posto dell'OSS, sciolto nel 1946.

Pur dedicando quasi metà del libro prima alla preparazione della Operazione Husky, nome in codice dello sbarco in Sicilia e poi alla conquista dell'isola, Max Corvo evita con la massima attenzione di usare il termine mafia, che non appare mai nel libro.

Nella postfazione all'edizione italiana il figlio (Max Corvo era morto nel 1994) si affanna a smentire quanti, e sono molti, hanno accennato a questi legami che costarono il richiamo in America nel settembre 1945 di Corvo, Scamporino e i loro principali collaboratori definiti in un rapporto a Washington "la banda dei siciliani".

D'altronde lo stesso racconto di Corvo su come divenne prima un agente e poi di fatto la mente strategica della missione OSS in Italia appare, per chi conosca anche vagamente le logiche di un apparato militare, assolutamente non credibile.

Racconta Max Corvo, ricordiamolo emigrato negli USA dalla Sicilia a nove anni, di avere mentre frequentava un centro addestramento reclute (si era arruolo volontario nell'esercito nel 1942) di aver trasmesso ai suoi superiori le linee guida di un piano per l'invasione della Sicilia.

Corvo era allora un giovane di 22 anni, di estrazione popolare e senza alcun titolo di studio o particolare preparazione in materia, eppure – udite, udite – gli si spalancarono immediatamente le porte di Washington. Fu immediatamente arruolato nell'OSS, ricevuto dai "grandi capi" Bill Donovan e Earl Brennan, inserito nella struttura che preparava l'invasione e dotato di pieni poteri nella scelta dei suoi collaboratori. Cosa che egli prontamente fece, arruolando quella che uno studioso ha chiamato la "Connecticut connection", cioè una serie di italoamericani di origine siciliana residenti nel Connecticut, Stato da dove proveniva lo stesso Corvo.

Insomma, uno sconosciuto soldatino di vent'anni che da un giorno all'altro si trova a dare disposizioni a generali e esperti di fama. Tanto che, ricorda, per salvar le forme mi dovettero nominare almeno tenente.

Una storia francamente poco credibile. Più realistico pensare ai contatti che le famiglie, tutte di recente immigrazione, di Corvo e dei suoi collaboratori ancora mantenevano in Sicilia. Ovviamente non si può affermare che si trattasse di contatti mafiosi, ma molte cose portano a pensarlo.

Che poi i metodi di Corvo non fossero dei più ortodossi anche per un servizio segreto, cioè per una organizzazione deputata a giocare sporco, lo dimostra il caso del maggiore Holohan, un ufficiale dell'OSS misteriosamente scomparso dopo essersi paracadutato a capo di una missione nei dintorni del lago d'Orta. L'ufficiale scompare nel dicembre 1944 e ancora nel 1990 Corvo lo dichiara "disperso". In realtà il povero maggiore proprio disperso non era, tanto che il suo cadavere fu ripescato dal lago nel 1947 con due fori di proiettile in testa. Furono due partigiani a far ritrovare il corpo, conducendo i carabinieri nel luogo dove due anni prima avevano occultato il cadavere. Ne seguì un processo terminato con la condanna per omicidio degli altri due militari americani componenti la missione. Militari, detto per inciso, processati in contumacia, perché il governo americano non acconsentì mai all'estradizione neppure dopo la condanna.

Un avvenimento dagli aspetti ancora misteriosi, legato a questioni sordide, i 16 mila dollari destinati ai partigiani che l'ufficiale aveva con se, e a una lotta di potere dentro la sezione italiana dell'OSS che in qualche modo coinvolgeva anche lo stesso Corvo.

Nel suo libro Corvo fa un accenno sprezzante al processo definendolo una farsa gestita da un giudice comunista. In realtà si trattò di una inchiesta condotta con grande serietà come documenta l'accurato studio dedicatogli da Adriano Maini, serissimo ricercatore e fraterno amico, reperibile al seguente link La Missione Chrysler Mangosteen ed il lago dei misteri | Storia minuta .

Anche questo un motivo in più per nutrire seri dubbi sull'attendibilità di quanto raccontato da Corvo nel suo libro. Unica eccezione, il racconto dettagliato di come l'OSS, nella persona del capitano Emilio "Mim" Daddario, riuscì nei giorni dell'insurrezione dell'aprile 1945 a raggiungere e mettere poi in salvo a Roma il generale Graziani, massimo responsabile delle Forze armate della RSI, nonché feroce criminale di guerra durante la conquista dell'Etiopia, sottraendolo alla giustizia partigiana che gli avrebbe riservato il destino di Mussolini e dei gerarchi fucilati a Dongo.


Max Corvo
La campagna d'Italia dei servizi segreti americani 1943-1945
Libreria Editrice Goriziana
Gorizia 2006

Per una storia della Massoneria nell'Italia repubblicana

 


Giorgio Amico

Per una storia della Massoneria nell'Italia repubblicana


La bibliografia sulla storia della Massoneria italiana è vastissima, ma, a parte una molteplicità di libelli antimassonici di valore scarso o nullo apparsi a partire dallo scandalo P2, non esiste a tutt'oggi un'opera sulla Massoneria negli anni della Repubblica che ne ricostruisca con rigore storico percorsi e personaggi inseriti nei concreti snodi storici di questi ottant'anni. Esistono certo contributi di valore, non molti in verità, ma come parte, spesso molto limitata, di opere di portata più complessiva. Il resto è o un tentativo di riciclare in salsa “democratico-antifascista” il tema sempre efficace del complotto pluto-giudaico-massonico, depurato almeno formalmente dai toni antisemiti, oppure si riduce sull'altro versante ad operazioni agiografiche se non apertamente nostalgiche dei bei tempi in cui c'era “Lui” (Gelli, non Mussolini. Sia chiaro!) e la Massoneria contava ancora qualcosa. Quello, di cui presentiamo di seguito un paragrafo, fa parte del tentativo di scrivere questa storia che manca, partendo dai primi fermenti di ricostituzione del 1943 per arrivare all'oggi, utilizzando criteri rigorosamente storici nell'analisi della documentazione esistente, a partire proprio dai centoventidue volumi degli Atti della Commissione P2. Il centro della nostra ricerca verterà, come è naturale, sulla autentica Massoneria, quella definita “regolare” e cioè internazionalmente riconosciuta, e dunque in larga parte sul Grande Oriente d'Italia. Tratteremo comunque, quando necessario, anche della fungaia di Gran Logge e Supremi Consigli farlocche o “spurie”, per usare il termine massonico, prive di ogni legittimità e talvolta finalizzate alla gestione di operazioni politico-economiche disinvolte se non addirittura espressione del rapporto con ambienti e personaggi del crimine organizzato. Un fenomeno non piccolo che ha riguardato, e riguarda anche oggi, centinaia di gruppi spesso di fatto inesistenti ma dai nomi altisonanti e che per un “profano”, quando ne legge sui giornali, rappresentano comunque la Massoneria. In questa confusione risiede il dramma della Massoneria italiana che non è esente comunque da responsabilità. Insomma, anche in Massoneria, maledire il destino cinico e baro porta poco lontano. Meglio fare i conti senza timori con la propria storia. E in questa prospettiva che abbiamo scelto fra il materiale in bozza un paragrafo che tratta della scelta, sciagurata, di tacere sulle deviazioni della Loggia P2, quando più necessario e urgente, oltre che massonicamente corretto, sarebbe stato fare pulizia al proprio interno. Buona lettura.


1976. La scelta del silenzio

Alla metà degli anni Settanta il Grande Oriente è sulla difensiva. Sui principali organi di stampa nazionali si intensificano gli articoli che chiedono chiarezza sulla Loggia P2, associata a eventi torbidi che vanno dal fiancheggiamento del terrorismo stragista neofascista ai rapporti con l'anonima sequestri messa in piedi a Roma dal malavitoso italo-francese Albert Bergamelli che, arrestato il 29 marzo 1976, aveva dichiarato agli inquirenti di godere della protezione di una “grande famiglia”. Le accuse sono pesanti, gli articoli si moltiplicano, soprattutto su organi non privi di autorevolezza come i settimanali “L'espresso” e “Panorama”, punti di riferimento di un segmento importante dell'opinione pubblica, laico e riformista, difficilmente rappresentabili come espressione del tradizionale antimassonismo clericale né di quello più recente di matrice comunista o fascista.

Il manifesto del Grande Oriente in occasione della ricorrenza del XX Settembre, testimonia nel 1976 dell'imbarazzo del Gran Maestro, Lino Salvini, firmatario di un proclama interamente teso alla difesa dell'Ordine:

«Italiani! L'anniversario dell'unità d'Italia trova, quest'anno, il nostro paese travagliato da incertezze sociali, politiche ed economiche. I Liberi Muratori partecipano, in silenzio, alla soluzione di queste incertezze sempre riaffermando i supremi principi di libertà e di difesa della personalità umana. Una velenosa campagna giornalistica ha tentato di ritardare quest'opera con assurde calunnie e monotone argomentazioni attribuendo all'Istituzione, per fini più o meno manifesti, fatti che le sono estranei. La Massoneria accoglie nelle sue fila uomini di tutte le razze, di tutte le religioni, di tutte le tendenze politiche e ne compie il magico affratellamento. Essa non risponde degli eventuali errori che, separatamente, qualcuno può commettere, come, direttamente, non partecipa alle azioni di quei fratelli che, uscendo allo scoperto, a costo di personali sacrifici, danno corpo ai suoi insegnamenti e sanno costruire la storia. Il 20 settembre resta patrimonio di questa realtà e di tali sacrifici».

Una difesa debole, destinata più a ricompattare una base, non poco scossa da ciò che sta accadendo, che non agli “Italiani”. Un manifesto dai toni retorici che evita accuratamente di confrontarsi con gli interrogativi che tanti iniziano a porsi, compresi alcuni autorevoli esponenti del GOI immediatamente definiti dalla stampa “massoni democratici”. Un tirarsi fuori, accennando ad “eventuali errori” da parte di non meglio precisate entità, che non solo non serve a far chiarezza, ma crea nuove domande. In particolare quell'avverbio “separatamente” fa pensare a realtà fuori controllo, a intrighi di persone o gruppi che di fatto agiscono in totale autonomia rispetto all'Istituzione. Ma se è davvero così, cosa si aspetta allora, questa è la domanda sottintesa a molti degli articoli apparsi in quel periodo sulla stampa, a fare pulizia, citando nomi e fatti e facendo finalmente chiarezza? Proprio quello che Salvini, prigioniero, come si è visto di una rete di ricatti e minacce, non può fare.

Negli stessi giorni il numero di settembre della “Rivista Massonica” pubblica un lungo editoriale del direttore Giordano Gamberini, dal significativo titolo “La scomunica del XX secolo”, nel quale l'ex Gran Maestro nonché principale mentore di Licio Gelli, sottolinea il livore antimassonico di un filone di pensiero che va da Trotsky all'Enciclopedia Sovietica, alla Terza Internazionale per soffermarsi poi a lungo sul comunismo francese. Nel modo di esprimersi allusivo e ambiguo che lo contraddistingue, lo “spiritualista” Gamberini lascia in questo modo intendere che la campagna giornalistica riguardante la Massoneria sia frutto di ambienti legati a un settore preciso del mondo politico italiano, quel Partito comunista, mai esplicitamente nominato,  che vedrebbe nella Massoneria il principale ostacolo alla sua ascesa al potere. Da qui il tentativo di delegittimazione in atto. 

"L'avversario - scrive Gamberini - ha abbandonato i riguardi per i suoi ingenui fiancheggiatori dalla firma facile e ci aggredisce quasi più senza infingimenti.  Meglio così.  L'attacco che ci viene sferrato  libererà le nostre colonne dai falsi fratelli  e libererà i fratelli veri dalla illusione di una possibile neutralità, di una «terza via»",

Un linguaggio violento, da guerra fredda, non a caso Gamberini fa un esplicito riferimento, quasi a suggerire un parallelo, con il momento cruciale delle elezioni politiche del 1948, volta a rassicurare i Fratelli americani su ciò che sta accadendo nella Massoneria italiana e a richiedere il loro sostegno in nome dell'anticomunismo. Ricordiamo sempre che siamo negli anni del compromesso storico, della possibile apertura ai comunisti da parte della DC di Aldo Moro. Una ipotesi che terrorizza non solo la parte più conservatrice della borghesia italiana, ma ben più potenti e sotterranei ambienti politico-militari atlantici e non solo. Una fase destinata a chiudersi con il rapimento e l'assassinio dell'esponente politico democristiano. Un esito reso possibile o almeno facilitato dalla fallimentare azione investigativa degli organi di sicurezza, civili e militari, i cui capi risulteranno poi pressoché senza eccezione presenti nella lista dei membri della P2 sequestrata nel 1982 a Castiglion Fibocchi.

Una ambiguità, quella dei principali esponenti massonici, destinata a continuare per culminare infine in un trafiletto della “Rivista Massonica”, non firmato e dunque attribuibile a Gamberini, in cui si afferma:

«Di fronte alla sempre più evidente organizzata e sistematica persecuzione di cui siamo fatti bersaglio da alcuni anni, ammaestrati dall'esperienza antica e recente sull'impossibilità di ottenere un'adeguata protezione contro la calunnia e la diffamazione, affermiamo che d'ora innanzi rinunceremo a censire le menzogne quasi giornaliere escogitate dai nostri nemici, a smentirle o a contraddirle, così come d'ora innanzi prevediamo che ci asterremo da ogni ulteriore tentativo di avvalerci di quelle guarentige che i fondatori della Patria intesero assicurare a tutti, in virtù di una legge uguale per tutti». (Rivista Massonica, n. 10, dicembre 1977, pag. 578.)

Ed in effetti, visto l'atteggiamento impacciato, esitante, reticente e goffo degli ex Gran Maestri Salvini, Gamberini e Battelli durante le audizioni della Commissione P2, si capisce come fosse ben chiaro a chi aveva a lungo tollerato se non addirittura coperto l'opera disgregatrice di Gelli, che ogni tentativo di querela nei confronti della stampa si sarebbe inevitabilmente trasformato in un immediato autogol, facendo diventare materiale giudiziario quel fiume inarrestabile di documenti e testimonianze che continuava ad apparire a cadenza settimanale. Cosa che poi comunque accadrà durante i lavori della Commissione Parlamentare di inchiesta sulla P2, producendo gli effetti che tutti conosciamo. Da qui la scelta di rinchiudersi in un silenzio vittimistico, ammantato di sdegno. Alla faccia, verrebbe da dire, di quella “Luce” ricercata dai nuovi Fratelli quando bussano alla porta del Tempio per essere accolti fra le colonne della Bellezza (la Verità) e della Forza (la Giustizia).