Raffaele K. Salinari
Fuliggine immaginale
Miti. Dalla
«Selva oscura» alla danza dionisiaca degli spazzacamini di Mary
Poppins fino a Jules Verne
Chi non ricorda la mitica
danza degli spazzacamini con il volto cosparso di fuliggine su per i
tetti di una Londra notturna ed immobile? È una delle scene più
poetiche e spettacolari di quel capolavoro disneyiano che è Mary
Poppins. Certo, ad uno sguardo superficiale, può essere vista solo
come una spericolata bravata di uomini con la faccia dipinta di nero
a causa del loro mestiere; eppure qualcosa di molto antico traspare
da quei volti capitanati dallo spensierato, ed al tempo stesso,
profondissimo Bert, il deuteragonista perfetto della fata.
LA FORESTA INESPLORATA
Ricordiamo l’inizio
della scena: di fronte ai due fratelli con la faccia dipinta di
fuliggine che si sono persi sui tetti, volendo imitare gli
spazzacamini, ecco letteralmente schizzare fuori da un camino Mary
Poppins e subito dopo Bert. Il volto della eccentrica governante è,
come sempre, quello di una sfinge: il sorriso sottile vela le sue
reali intenzioni. Ma qui giunge l’invito pronunciato da Bert ai
ragazzi: «Questa è quella che si può definire una circostanza
davvero eccezionale», riferendosi a ciò che lui chiama la «foresta
vergine» composta dalla moltitudine di oscuri camini illuminati da
una pallida luna piena appena velata dalle nubi. Propone dunque ai
ragazzi di esplorarla, naturalmente con il permesso di Mary Poppins.
Lei ci pensa un momento…ed ecco il gesto chiave: trae fuori
dall’inesauribile borsa un portacipria e, con tocco impeccabile, si
cosparge il naso di fuliggine.
E allora cerchiamo le analogie
poetiche di questa scena, partendo da quella che, ovviamente, è la
«selva oscura» dantesca. Mary Poppins è la storia del passaggio
dei due ragazzi da una infanzia vissuta inconsapevolmente, tra una
madre impegnata politicamente ma distratta, e un padre totalmente
preso dal suo materialistico lavoro di bancario, dai suoi «metalli»,
alla piena consapevolezza dello stupore infantile. Il film tratta,
infatti, di uno svelamento del fantastico e del magico che sempre si
cela in ogni aspetto dell’esistenza, per chi lo sa vedere.
Il
parallelismo con la «selva oscura» è sottile ma chiaro: seguendo
lo stesso diagramma trasmutativo, possiamo immaginare la «selva»
dantesca come un analogo alla foresta dei neri camini, ed il giardino
del paradiso, come percepiranno la distesa delle ciminiere i ragazzi
dopo la danza degli spazzacamini, come lo stesso luogo, con la
differenza formale che l’oscurità della prima è solo (solo!) la
luce potenziale che illumina la seconda, colta qui finalmente in atto
dal Poeta e dai ragazzi dopo la loro rettificazione. Non a caso, nel
film, Mary Poppins, prima di far vivere ai fratelli, i neofiti dello
stupore, la loro esperienza, li fa mettere letteralmente in riga.
Senza quella postura del corpo, che corrisponde ad una
predisposizione dell’anima, lo sguardo non avrebbe colto la
meravigliosa trasmutazione. La pedagogia immaginale di Mary Poppins è
dunque la stessa che esprime la celebre affermazione di W. Blake
secondo cui «una volta le porte della percezione purificate, tutto
apparirà agli uomini come esso è: infinito», sembra fargli eco lo
spazzacamino Bart che potrebbe citare questa di M. Jouhandeau:
«L’inferno è della stessa essenza del paradiso. Lo stesso fuoco
che qui è luce, là arde».
L’invito di Bart ad
esplorare questa «selva oscura» di camini, nasce allora dalla
necessità, anche attraverso la frenetica, dionisiaca, danza degli
spazzacamini, di far spaziare lo sguardo dei ragazzi sull’oscurità
della selva, di renderlo uno sguardo mobile, al fine di evitare la
maledizione della sua fissità, propria, in certe tradizioni
mistiche, di quello dell’Antagonista. Ecco, infatti, che «due
occhi fissi sull’oscurità immobile» sono quelli diabolici. A
questo proposito possiamo notare come nel sufismo iranico si dice che
«Satana si fa gioco di qualsiasi minaccia. Ciò che lo spaventa è
vedere una luce nel tuo cuore». E forse per non rischiare di vedere
questa luce, egli non chiude mai gli occhi. Un’immagine
dall’analoga simbologia è quella espressa dall’«occhio di
Sauron» l’Oscuro Signore di Mordor nel Signore degli anelli di J.
R. R. Tolkien. Anche W. Benjamin, nei suoi Passages, descrive le
vetrine dei negozi come tanti occhi di Medusa che tengono infine
pietrificato lo sguardo del viandante sulle loro merci,
immobilizzando la percezione in questa innaturale e alienante
fissità.
LA TEOGONIA ORFICA
Ora, non a caso,
abbiamo usato all’inizio l’aggettivo «mitico» per definire la
scena del film che poi culminerà con la danza dionisiaca degli
spazzacamini. Nelle cosmogonie orfico-dionisiache, infatti, l’umanità
viene forgiata da Zeus condensando l’oscuro fumo, la fuliggine,
della folgorazione dei Titani che avevano divorato il corpo di
Dioniso; da questo la scintilla divina dell’uomo ed al tempo stesso
il suo essere creato secondo un principio alchemico di condensazione
(coagula) dopo una dissoluzione (solve).
K. Kerényi chiarisce
come nelle cosmogonie orfiche non si dica semplicemente che dalla
cenere dei Titani abbia avuto origine la stirpe umana. «Il nostro
corpo è dionisiaco», scrive il mitografo Olimpiodoro, che aggiunge:
«Siamo pur sempre una parte di lui, perché siamo nati dalla
fuliggine dei Titani che avevano mangiato della sua carne».
Fuliggine e cenere non sono la stessa cosa: il termine scelto dal
mitografo è, infatti, aithale, che nell’alchimia tardo-antica
significa, non a caso, «vapore sublimato».
Se questo mito non
avesse delle strette connessioni con i misteri orfico-dionisiaci,
forse sarebbe bastata l’immagine della nascita dalle loro ceneri,
in greco spodos. Ma, ci ricorda sempre Kerényi, il procedimento più
complesso attraverso la condensazione dei vapori in materia – la
fuliggine dei Titani – si rivela la sintesi magistrale di un autore
che volle racchiudere nella sua immagine tutti gli elementi di questa
creazione. I Titani, infatti, scomparvero nel Tartaro, il vapore del
loro corpo si trasformò in fuliggine, e questa nella materia di cui
è fatta l’umanità. Così risultano uniti due dati: l’antico
mito dei Titani e un altro dato culturale: la valenza simbolica di
una sostanza che restò quale residuo di un fuoco. Nella fuliggine si
nasconde dunque della sostanza dionisiaca, che si trasmette negli
uomini di generazione in generazione. In tal modo al dio viene ancora
conferita sostanzialità materiale. Ecco che, allora, la danza degli
spazzacamini, certo titanici nel loro lavoro, ed anche dionisiaci
nelle loro spericolate acrobazie sui tetti di Londra, in quella
«selva oscura» di camini che per i due ragazzi affascinati è già
diventata il Giardino del Paradiso, diventa un rinnovamento
dell’antico mito, come lo è il piccolo gesto che ci vede osservare
rapiti la fuliggine che da ogni camino ci colora le mani.
LE INDIE NERE
All’opposto polare,
dunque analogico, di Mary Poppins, si situa un romanzo di J. Verne.
Se nel film, infatti, tutta l’azione si svolge in alto, qui si
svolgerà in basso. La fuliggine come tema centrale lo ritroviamo
dunque anche in uno dei maggiori romanzieri contemporanei,
«iniziatore ed iniziato», come recita il titolo del libro che
Michel Lamy a ha dedicato a Jules Verne. La relazione con la
fuliggine come simbolo della conoscenza, o forse per meglio dire
dell’avventura nel luogo della fuliggine per eccellenza, la miniera
di carbone, come percorso di autorealizzazione, la troviamo espressa
esplicitamente in un racconto, forse meno famoso di Ventimila leghe
sotto i mari o del Giro del Mondo in 80 giorni, (il cui protagonista
però si chiama Phileas Fogg, cioè Amico della Nebbia) benché di
una profondità – è il caso di dirlo – simbolica e psicologica
densissime, che questo intreccio sviluppa in maniera compiuta: si
tratta delle Indie Nere.
In sintesi il romanzo narra del
ritrovamento, da parte di una famiglia di minatori, i Ford, di un
vero e proprio ambiente sotterraneo, con tanto di lago interno, dove
gli abitanti del villaggio scozzese che era nato nei pressi
dell’antica miniera di carbone – apparentemente esaurita – si
insedieranno costruendone uno nuovo nelle viscere della terra:
Coal-city, cioè la città del carbone.
Simon Ford, il patriarca
della famiglia, infatti, non aveva mai voluto ammettere che il
giacimento fosse esaurito, continuando la sua instancabile ricerca di
nuove vene. Ma prima della scoperta cruciale c’era già qualcosa di
misterioso nella miniera: diverse volte Harry, suo figlio, aveva
sentito rumori, visto bagliori luminescenti mentre esplorava le
gallerie oramai abbandonate. «Potrebbe esserci un genio della
miniera?» si chiede ad un certo punto, introducendo così un sentore
di sovrannaturale e misterioso. Certo è che mentre la famiglia Ford
continua la sua esplorazione alla ricerca di nuove vene carbonifere,
si verificano esplosioni dolose che provocano crolli nelle vecchie
gallerie. Ad un certo punto, mentre Harry è impegnato nel dedalo dei
cunicoli, si sente un battito d’ali e la sua lampada si capovolge,
si spezza, lasciandolo così intrappolato nell’oscurità totale;
inoltre, anche a tentoni, è impossibile uscirne: il passaggio è
stato bloccato.
Oltretutto è impossibile scendere a salvarlo,
poiché le scale sono state bruciate. Dopo molti tentativi, uno
strano bagliore saltellante guiderà i soccorritori dove si trova
Harry. Rinchiuso per dieci giorni nelle viscere della terra
sopravvive, con altri membri della famiglia, solo in virtù di un
essere misterioso che a volte porta loro da mangiare e da bere, senza
mai essere visto. Anche dopo la scoperta della grande caverna
sotterranea, Harry rimane ossessionato dal pensiero dell’essere
sconosciuto che lo ha salvato. Un giorno, individuando un pozzo
naturale che si addentrava più in profondità nella miniera, gli par
di sentire un gemito e un battito d’ali. Seguendo il suo istinto
trova una giovane ragazza. Harry decide di portarla con sé, ma viene
attaccato da un uccello. La catastrofe viene evitata e la giovane
Nell, così si chiama la donna, sarà adottata dai Ford; era stata
lei a salvare Harry fornendogli abbastanza cibo ed acqua e dirigendo
gli aiuti. A poco a poco, Nell impara a vivere normalmente, lei che
non ha mai visto la luce del giorno. Harry e la giovane ragazza si
amano, ma il giovane non vuole legarsi prima che ella sappia cosa
potrebbe offrirgli la terra alla luce del sole.
Un giorno Nell è
considerata pronta e per lei inizia la grande avventura: vedrà
l’esterno. Qui siamo di fronte ad una riproposizione dell’uscita
progressiva dalla caverna platonica: per due giorni, infatti,
visiterà l’ingresso e poi, solo allora, uscirà.
Ed ecco entrare
direttamente in gioco il misterioso personaggio che tanto ha cercato
di impedire l’entrata dei Ford nel mondo sotterraneo: pochi giorni
prima del matrimonio tra i due ragazzi, arrivano lettere con minaccia
di morte per tutte le persone di Coal city firmate Silfax. È il nome
di un «penitente»: si chiamavano così i minatori che aveva il
compito, spesso mortale, di rilevare le sacche di grisù e di farle
scoppiare con esplosioni più o meno controllate. Erano detti
«penitenti» poiché indossavano una sorta di saio che li faceva
sembrare dei monaci in pellegrinaggio nelle viscere della terra. Con
il volto perennemente colorato dalla fuliggine, gli occhi fissi
nell’oscurità, questo abitante del sottosuolo rappresenta infine
l’Avversario che vuole impedire a Nell di tornare alla luce.
Ecco, ora,
l’interpretazione che Michel Lamy darà di questo racconto. Non a
caso il capitolo si chiama: «Visita Interiora Terrae Rectificando
Invenies Occultum Lapidem, ovvero la mistica ricerca delle Indie
Nere».
«Il romanzo di Jules
Verne è la storia di un uomo alla ricerca della sua anima, di quella
parte divina che ciascuno di noi deve scoprire nel profondo, dentro
di sé, attraverso delle prove, di qualcuno che deve liberare dalla
matrice della materia la perla nascosta . Questa ricerca deve essere
condotta con determinazione: ‘Corriamo al centro del globo, se
necessario, per strappargli l’ultimo pezzo di carbone’, dice
Simon Ford. Il richiamo della sua anima, Harry lo sentirà
profondamente: ‘Era irresistibilmente attratto dalla speranza di
trovare l’essere misterioso, il cui intervento lo aveva salvato.
Cosa cercherà dunque in se stesso? La malinconia lo prende, non
smette mai di sognare la sua anima, che Nell personifica in questa
avventura».
LA PERLA NERA
Nell è quindi la
personalizzazione di quest’anima impregnata di fuliggine, l’anima
di un minatore, che Harry cercherà di risvegliare in lui. E infatti,
non è forse Nell quella priva di luce solare, priva della luce
finché Harry non la porta in superficie? Il suo stesso nome non è
costituito dalla N di negazione e da Hel: il sole in lingua celtica,
proprio come Helios tra i greci? Ma è anche legato all’Inferno
Celtico e all’Hel islandese dell’Edda che designano l’Ade.
Quando la trova tutto il suo volto è colorato di fuliggine, privato
della luce. Nell porta dentro di sé l’ambiguità del passaggio
attraverso la morte: è figlia della notte e del regno delle tenebre
– come i Titani imprigionati nel Tartaro – (Hell), ma è anche
promessa di luce (l’Hel celtico).
Anche Harry, come Mary
Poppins ed il suo assistente Bart, è investito di poteri magici
perché, ci fa notare Michel Lamy, è il figlio di Simon e Madge,
nomi con cui dobbiamo riconoscere Simon Mago, mentre Madge è anche
la «comare», nome dato alle streghe specializzate nell’uso delle
erbe, che saluta sempre i turisti con i suoi migliori «auguri»
(wishes), termine molto vicino a quello che designa le witches
(streghe), ed anche i prognostici.
La ricerca quindi non
sarà facile. Harry dovrà fare la sua discesa agli inferi, il suo
tuffo nel fondo della fuligginosa miniera, cioè nel profondo di se
stesso. Infine, come i bambini affidati a Mary Poppins, percepisce la
manifestazione della sua anima solo perché è disponibile, vigile,
avendo preferito prima interiorizzare (stare nel fondo), nel regno
della fuliggine, e poi tornare a vivere superficialmente (in
superficie). Anche i ragazzi faranno lo stesso percorso, prima
saliranno sul tetto per scendere nella loro interiorità mercé
l’ammirazione degli spazzacamini, poi torneranno in casa, alla vita
in basso, portando con loro nuove visioni: nel mondo analogico della
fiaba, ciò che è in alto è come ciò che è in basso, ma questo,
in realtà, vale sempre, da sempre ed in ogni luogo.
Il Manifesto/Alias – 7
agosto 2021