martedì 31 agosto 2021

Se Platone cavalca con Billy the Kid

 


Giorgio Amico

Se Platone cavalca con Billy the Kid

È da poco in libreria l'ultimo lavoro di Diego Gabutti. Un'opera fantasmagorica che attraversa come una sorta di sfrenato Helzapoppin l'immaginario collettivo dell'Occidente da Platone ai Supereroi del fumetto contemporaneo.

Come si legge nella quarta di copertina: «Una lunga cavalcata, magari con cappa e spada, tra pellicole d’antan, romanzi d’appendice, fumetti, pettegolezzi e retroscena della storia dello spettacolo, della letteratura, del giornalismo: ecco quali sono le maschere e i pugnali che gli uomini e le donne di Diego Gabutti indossano e impugnano con leggerezza e maestria, per lasciare, non si sa quanto consapevolmente, un segno indelebile nell’immaginario collettivo. Mata Hari, Billy the Kid, Nero Wolfe e Platone, proprio come nel titolo, si alternano tra le pagine veloci e sornione, in un caleidoscopio che strizza mille occhi a chi, smaliziato ma ancora sognatore, si lascerà incantare dalle malìe di una scrittura af fascinante tanto quanto le storie e i personaggi che racconta».

Ma chi è Diego Gabutti? Già collaboratore del Giornale, del Giorno, del Tempo e dell’Indipendente, di Sette-Corriere della Sera, corsivista e recensore d’Italia Oggi, è l’autore di Un’avventura di Amadeo Bordiga (Longanesi 1982 e Milieu 2019); di C’era una volta in America sul cinema di Sergio Leone (Rizzoli 1984 e Milieu 2015); di Pandemonium (Longanesi 2005); di Cospiratori e poeti (Neri Pozza 2018); di Cavalieri pallidi cavalieri neri sul cinema di Clint Eastwood (Milieu 2018); di Il grande Sly sul cinema di Sylvester Stallone (Milieu 2021). Con Rubbettino, nel 2003, ha pubblicato Millennium. Da Erik il Rosso al cyberspazio, e nel 2020 Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch. Ma soprattutto, mi si permetta una notazione personale, un amico carissimo.

Gli spunti interessanti sarebbero moltissimi in un libro così ricco di stimoli. Tanto per permetterne un assaggino ho scelto il capitolo dedicato all'intrepido sceriffo Wyatt Earp perché tratta di un tema caro alla mia infanzia trascorsa tra la scoperta della Coca Cola, grande oggetto del desiderio in quei primi anni '50 in cui ancora si andava a gazosa,  fumetti (Tex Willer era appena nato) e film visti, non senza qualche taglio, perché la storia dei “baci rubati” non è un'invenzione di Giuseppe Tornatore, in sale parrocchiali tristissime ma che avevano per noi bambini il fascino impalpabile dei sogni.

Wyatt Earp

Tra gli eroi intramontabili della cultura pop americana (insieme all’ultimo dei mohicani, a Huck Finn, al giovane Holden e agli Xmen) c’è anche questo sceriffo vestito di nero che cammina a passo

lento lungo i portici di legno di Dodge City e Tombstone con i pollici infilati nel cinturone che regge la pistola (un’enorme Colt a canna lunga, roba da far arrossire un freudiano ortodosso).

Wyatt Earp è l’icona della legge e dell’ordine nel selvaggio west, che proprio per la sua natura di mondo senza stato, di società anarchica, violenta e romantica, è insieme un mondo immaginario, come i borghi medievali delle fiabe, e una potente raffigurazione dell’utopia. In una parola: Hollywood. È stata Hollywood a trasformare, attraverso il cinema e la televisione, Wyatt Earp e gli altri eroi del west in archetipi. Come le locandine magniloquenti del Buffalo Bill’s Wild West Show, come il gazzettiere che intervista il vecchio senatore nell’Uomo che uccise Liberty Valance e rinuncia a pubblicare i suoi appunti, Hollywood non filma la verità ma la leggenda. Cioè una verità extrasize, su scala kolossal, in cinerama.

John Ford raccontava che Earp, ai tempi del cinema muto, bazzicava gli studios cercando di vendere la storia della propria vita a qualche produttore, come si può leggere nella prefazione di Tullio Kezich a una classica biografia di Wyatt Earp, Lo sceriffo di ferro, del giornalista Stuart N. Lake, al quale l'ex sceriffo concesse una fantasiosa intervista nel 1928, un anno prima di morire.

Earp, all’epoca, aveva ottantunanni. Dallo scontro all'OK Corral di Tombstone, Arizona, quando insieme a due suoi fratelli e all’ex dentista e giocatore d’azzardo Doc Holliday, aveva sbaragliato la gang dei Clanton, erano passati quasi cinquant'anni. Ford avrebbe poi davvero girato un film sulla sua vita: Sfida infernale, del 1946, tratto da un grande romanzo di W.R. Burnett, «Saint» Johnson, ispirato a sua volta alla biografia di Lake.

Wyatt Earp, nel canone western, è l'eroe silenzioso, da cui in futuro sarebbero discese le maschere pietrificate degli eroi di Sergio Leone: Clint Eastwood, James Coburn, Charles Bronson. Se proprio deve, Wyatt Earp parla per aforismi, che poi riecheggeranno nella letteratura alta, per esempio nelle storie di W.S. Burroughs (dove le sue battute più celebri, da «combatti o fila» a parli troppo per essere un buon pistolero», sono attribuite all'Ispettore J. Lee, l'asso della Polizia Nova). È l’idea platonica del giustiziere piuttosto che il giustiziere in persona. Non lui, ma la sua riscrittura mitologica si proietta sul grande schermo della cultura pop: la sfida all'OK Corral, poi biografie e autobiografie scarsamente attendibili, quindi un numero incalcolabile di fumetti, film e telefilm.

In un film di Blake Edwards, Intrigo a Hollywood, del 1988, Earp aveva incontrato il suo doppio fiabesco: Tom Mix, l'eroe del film western. In Black Hats, un romanzo di Max Allan collins, lo sceriffo, ormai quasi settantenne, lascia l'Arizona per Manhattan. Nella New York delle Zigfield Follies, di Damon Runyon e del proibizionismo, il vecchio giustiziere si scontra con un'altra icona dell'America senza legge: Alfonso Capone, in arte Al Capone, o Scarface, lo sfregiato. Le licenze storiche stanno alla narrativa postmoderna d'evasione come le licenze poetiche ai rimatori. Wyatt Earp contro la Mano Nera: se già è sempre stato difficile, dall'Anabasi in poi, distinguere tra storia e fiction, presto sarà impossibile.


Diego Gabutti
Maschere e pugnali
Utopisti e avventurieri da Platone a Nero Wolf
Writeup, 2021
Euro 28

domenica 29 agosto 2021

Savona. A proposito di elezioni comunali e massoneria

 



L'angolo di Bastian Contrario

Quando c'era Lui, caro lei...

A proposito di elezioni comunali e massoneria.

Non sono ancora uscite tutte le liste per le prossime elezioni comunali a Savona e già qualcuno su FB grida allo scandalo per l'eccessivo numero dei massoni che sarebbero candidati. Naturalmente ci si guarda bene dal farne i nomi anche per evitare possibili spiacevoli conseguenze legali. Ma soprattutto impedendo così a chi legge di verificare se di affermazioni veritiere si tratta o di semplici sparate da imbecilli.

Ma il problema vero è un altro: la singolare concezione della democrazia che costoro dimostrano di avere. Ovviamente ciascuno può avere della massoneria l'opinione che vuole, ma questo non tocca minimamente il diritto di ciascun cittadino (massoni compresi) di esercitare pienamente i propri diritti politici fra cui quello di potersi candidare.

A questi giganti del pensiero non farebbe male rileggersi, ammesso che l'abbiano già letta cosa di cui dubitiamo, l'articolo 3 della nostra Costituzione (redatta tra l'altro da una Assemblea Costituente in cui i massoni non erano pochi):

"Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali".

Non sarebbe poi male ricordare che la normativa sulla privacy ha rafforzato questo concetto considerando, proprio per evitare possibili discriminazioni, dati sensibili quelli relativi a:

l’origine razziale ed etnica;

l’orientamento religioso;
le opinioni filosofiche;
le opinioni politiche;
l’adesione a partiti, sindacati o associazioni religiose, filosofiche, politiche o sindacali;
i dati che rivelano lo stato di salute e la vita sessuale.

Ricordiamo anche che il fascismo in Italia non c'è più dal 1943 e con lui sono sparite anche le leggi che vietavano in quanto antinazionale la massoneria. I nostri massonofobi se ne facciano una ragione. Potranno sempre consolarsi pensando che “quando c'era Lui...”.





venerdì 27 agosto 2021

«Un paesaggio del sentimento». Nico Orengo, narratore e poeta di Liguria

 


Per avere chissà
un'altra vita,
ancora un paesaggio
del sentimento,
per lottare contro
la fine, per brillare
sul confine continuo
di due esistenze
sulle differenze.

Nico Orengo, Narcisi d'amore


Il paesaggio del sentimento di Nico Orengo (1944-2009) è quello dell’estremo Ponente ligure, un territorio circoscritto, al confine con la Francia, dove lo scrittore torinese ha trascorso la sua infanzia e dove ambienta le sue storie. È un paesaggio rappresentato con precisione e allo stesso tempo carico di forza simbolica e fiabesca, che diventa, nell’opera dell’autore, orizzonte geografico di una soggettività, di un’idea di mondo e di letteratura.

Attraverso il filo conduttore del paesaggio, il testo, richiamandosi all’approccio di Michel Collot e con un taglio critico insieme tematico, linguistico e fenomenologico, analizza l’intera produzione letteraria di Nico Orengo ponendosi come primo studio sistematico e completo a lui dedicato. 

(Presentazione editoriale)

L'autrice

Federica Lorenzi è dottoressa di ricerca dell’Université Côte d’Azur e dell’Università degli Studi di Genova, qualifiée aux fonctions de maître de conférences e membro del Centro di ricerca Laboratoire Interdisciplinaire Récits Cultures et Sociétés (LIRCES). Si occupa di letteratura italiana contemporanea, con particolare riferimento alla rappresentazione del paesaggio. È docente di lettere nella scuola secondaria di secondo grado. 


Federica Lorenzi
«Un paesaggio del sentimento».
Nico Orengo, narratore e poeta di Liguria
Minesis, 2020
28 euro

Volsci. I Comitati autonomi operai romani negli anni Settanta

 


Volsci. I Comitati autonomi operai romani negli anni Settanta

A partire dalla metà degli anni Settanta l'autonomia operaia costituisce uno degli attori principali nei contesti di mobilitazione collettiva, per via di una diffusa presenza nelle principali aree metropolitane del Paese e nelle lotte condotte nei più importanti contesti industriali (Fiat, Pirelli, Alfa Romeo, Eni, ecc.) e sulle tematiche sociali più disparate. Questo volume ricostruisce la storia dei Comitati autonomi operai di via dei Volsci a Roma. Formatisi da alcuni embrioni di intervento costituitisi a partire dal 1971 nel settore lavorativo dei servizi (Enel, Policlinico Umberto I, Sip), i Comitati Autonomi Operai disegnano una traiettoria politica che attraversa tutto il decennio Settanta (concludendosi poi ufficialmente nel 1994), con uno spazio di assoluto rilievo fra le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria e un ruolo centrale in alcuni degli avvenimenti cardine della storia politico-sociale di quegli anni.

(Presentazione editoriale)

L'autore

Salvatore Corasaniti nasce a Catanzaro il 6 settembre 1985. Trasferitosi a Roma per gli studi universitari, si laurea in Storia medievale, moderna e contemporanea nel 2007 e in Storia contemporanea nel 2011. Nel 2018 consegue il titolo di dottorato in Scienze storiche, antropologiche e storico-religiose. Al centro dei suoi interessi i fenomeni legati alla conflittualità politico-sociale negli anni Settanta e Ottanta, in particolare nel contesto capitolino. Collabora dal 2017 con la rivista «Zapruder», di cui è redattore. È fra gli animatori del progetto dell’Archivio dei movimenti di Roma. Attualmente insegna Storia e Filosofia presso il liceo artistico «Enzo Rossi» di Roma.


Salvatore Corasaniti
Volsci. I Comitati autonomi operai romani negli anni Settanta (1971-1980)
Le Monnier, 2021
25 euro


Raffaele K. Salinari, Fuliggine immaginale

 




Raffaele K. Salinari

Fuliggine immaginale

Miti. Dalla «Selva oscura» alla danza dionisiaca degli spazzacamini di Mary Poppins fino a Jules Verne

Chi non ricorda la mitica danza degli spazzacamini con il volto cosparso di fuliggine su per i tetti di una Londra notturna ed immobile? È una delle scene più poetiche e spettacolari di quel capolavoro disneyiano che è Mary Poppins. Certo, ad uno sguardo superficiale, può essere vista solo come una spericolata bravata di uomini con la faccia dipinta di nero a causa del loro mestiere; eppure qualcosa di molto antico traspare da quei volti capitanati dallo spensierato, ed al tempo stesso, profondissimo Bert, il deuteragonista perfetto della fata.

LA FORESTA INESPLORATA

Ricordiamo l’inizio della scena: di fronte ai due fratelli con la faccia dipinta di fuliggine che si sono persi sui tetti, volendo imitare gli spazzacamini, ecco letteralmente schizzare fuori da un camino Mary Poppins e subito dopo Bert. Il volto della eccentrica governante è, come sempre, quello di una sfinge: il sorriso sottile vela le sue reali intenzioni. Ma qui giunge l’invito pronunciato da Bert ai ragazzi: «Questa è quella che si può definire una circostanza davvero eccezionale», riferendosi a ciò che lui chiama la «foresta vergine» composta dalla moltitudine di oscuri camini illuminati da una pallida luna piena appena velata dalle nubi. Propone dunque ai ragazzi di esplorarla, naturalmente con il permesso di Mary Poppins. Lei ci pensa un momento…ed ecco il gesto chiave: trae fuori dall’inesauribile borsa un portacipria e, con tocco impeccabile, si cosparge il naso di fuliggine.
E allora cerchiamo le analogie poetiche di questa scena, partendo da quella che, ovviamente, è la «selva oscura» dantesca. Mary Poppins è la storia del passaggio dei due ragazzi da una infanzia vissuta inconsapevolmente, tra una madre impegnata politicamente ma distratta, e un padre totalmente preso dal suo materialistico lavoro di bancario, dai suoi «metalli», alla piena consapevolezza dello stupore infantile. Il film tratta, infatti, di uno svelamento del fantastico e del magico che sempre si cela in ogni aspetto dell’esistenza, per chi lo sa vedere.
Il parallelismo con la «selva oscura» è sottile ma chiaro: seguendo lo stesso diagramma trasmutativo, possiamo immaginare la «selva» dantesca come un analogo alla foresta dei neri camini, ed il giardino del paradiso, come percepiranno la distesa delle ciminiere i ragazzi dopo la danza degli spazzacamini, come lo stesso luogo, con la differenza formale che l’oscurità della prima è solo (solo!) la luce potenziale che illumina la seconda, colta qui finalmente in atto dal Poeta e dai ragazzi dopo la loro rettificazione. Non a caso, nel film, Mary Poppins, prima di far vivere ai fratelli, i neofiti dello stupore, la loro esperienza, li fa mettere letteralmente in riga. Senza quella postura del corpo, che corrisponde ad una predisposizione dell’anima, lo sguardo non avrebbe colto la meravigliosa trasmutazione. La pedagogia immaginale di Mary Poppins è dunque la stessa che esprime la celebre affermazione di W. Blake secondo cui «una volta le porte della percezione purificate, tutto apparirà agli uomini come esso è: infinito», sembra fargli eco lo spazzacamino Bart che potrebbe citare questa di M. Jouhandeau: «L’inferno è della stessa essenza del paradiso. Lo stesso fuoco che qui è luce, là arde».

L’invito di Bart ad esplorare questa «selva oscura» di camini, nasce allora dalla necessità, anche attraverso la frenetica, dionisiaca, danza degli spazzacamini, di far spaziare lo sguardo dei ragazzi sull’oscurità della selva, di renderlo uno sguardo mobile, al fine di evitare la maledizione della sua fissità, propria, in certe tradizioni mistiche, di quello dell’Antagonista. Ecco, infatti, che «due occhi fissi sull’oscurità immobile» sono quelli diabolici. A questo proposito possiamo notare come nel sufismo iranico si dice che «Satana si fa gioco di qualsiasi minaccia. Ciò che lo spaventa è vedere una luce nel tuo cuore». E forse per non rischiare di vedere questa luce, egli non chiude mai gli occhi. Un’immagine dall’analoga simbologia è quella espressa dall’«occhio di Sauron» l’Oscuro Signore di Mordor nel Signore degli anelli di J. R. R. Tolkien. Anche W. Benjamin, nei suoi Passages, descrive le vetrine dei negozi come tanti occhi di Medusa che tengono infine pietrificato lo sguardo del viandante sulle loro merci, immobilizzando la percezione in questa innaturale e alienante fissità.

LA TEOGONIA ORFICA

Ora, non a caso, abbiamo usato all’inizio l’aggettivo «mitico» per definire la scena del film che poi culminerà con la danza dionisiaca degli spazzacamini. Nelle cosmogonie orfico-dionisiache, infatti, l’umanità viene forgiata da Zeus condensando l’oscuro fumo, la fuliggine, della folgorazione dei Titani che avevano divorato il corpo di Dioniso; da questo la scintilla divina dell’uomo ed al tempo stesso il suo essere creato secondo un principio alchemico di condensazione (coagula) dopo una dissoluzione (solve).
K. Kerényi chiarisce come nelle cosmogonie orfiche non si dica semplicemente che dalla cenere dei Titani abbia avuto origine la stirpe umana. «Il nostro corpo è dionisiaco», scrive il mitografo Olimpiodoro, che aggiunge: «Siamo pur sempre una parte di lui, perché siamo nati dalla fuliggine dei Titani che avevano mangiato della sua carne». Fuliggine e cenere non sono la stessa cosa: il termine scelto dal mitografo è, infatti, aithale, che nell’alchimia tardo-antica significa, non a caso, «vapore sublimato».
Se questo mito non avesse delle strette connessioni con i misteri orfico-dionisiaci, forse sarebbe bastata l’immagine della nascita dalle loro ceneri, in greco spodos. Ma, ci ricorda sempre Kerényi, il procedimento più complesso attraverso la condensazione dei vapori in materia – la fuliggine dei Titani – si rivela la sintesi magistrale di un autore che volle racchiudere nella sua immagine tutti gli elementi di questa creazione. I Titani, infatti, scomparvero nel Tartaro, il vapore del loro corpo si trasformò in fuliggine, e questa nella materia di cui è fatta l’umanità. Così risultano uniti due dati: l’antico mito dei Titani e un altro dato culturale: la valenza simbolica di una sostanza che restò quale residuo di un fuoco. Nella fuliggine si nasconde dunque della sostanza dionisiaca, che si trasmette negli uomini di generazione in generazione. In tal modo al dio viene ancora conferita sostanzialità materiale. Ecco che, allora, la danza degli spazzacamini, certo titanici nel loro lavoro, ed anche dionisiaci nelle loro spericolate acrobazie sui tetti di Londra, in quella «selva oscura» di camini che per i due ragazzi affascinati è già diventata il Giardino del Paradiso, diventa un rinnovamento dell’antico mito, come lo è il piccolo gesto che ci vede osservare rapiti la fuliggine che da ogni camino ci colora le mani.

LE INDIE NERE

All’opposto polare, dunque analogico, di Mary Poppins, si situa un romanzo di J. Verne. Se nel film, infatti, tutta l’azione si svolge in alto, qui si svolgerà in basso. La fuliggine come tema centrale lo ritroviamo dunque anche in uno dei maggiori romanzieri contemporanei, «iniziatore ed iniziato», come recita il titolo del libro che Michel Lamy a ha dedicato a Jules Verne. La relazione con la fuliggine come simbolo della conoscenza, o forse per meglio dire dell’avventura nel luogo della fuliggine per eccellenza, la miniera di carbone, come percorso di autorealizzazione, la troviamo espressa esplicitamente in un racconto, forse meno famoso di Ventimila leghe sotto i mari o del Giro del Mondo in 80 giorni, (il cui protagonista però si chiama Phileas Fogg, cioè Amico della Nebbia) benché di una profondità – è il caso di dirlo – simbolica e psicologica densissime, che questo intreccio sviluppa in maniera compiuta: si tratta delle Indie Nere.
In sintesi il romanzo narra del ritrovamento, da parte di una famiglia di minatori, i Ford, di un vero e proprio ambiente sotterraneo, con tanto di lago interno, dove gli abitanti del villaggio scozzese che era nato nei pressi dell’antica miniera di carbone – apparentemente esaurita – si insedieranno costruendone uno nuovo nelle viscere della terra: Coal-city, cioè la città del carbone.
Simon Ford, il patriarca della famiglia, infatti, non aveva mai voluto ammettere che il giacimento fosse esaurito, continuando la sua instancabile ricerca di nuove vene. Ma prima della scoperta cruciale c’era già qualcosa di misterioso nella miniera: diverse volte Harry, suo figlio, aveva sentito rumori, visto bagliori luminescenti mentre esplorava le gallerie oramai abbandonate. «Potrebbe esserci un genio della miniera?» si chiede ad un certo punto, introducendo così un sentore di sovrannaturale e misterioso. Certo è che mentre la famiglia Ford continua la sua esplorazione alla ricerca di nuove vene carbonifere, si verificano esplosioni dolose che provocano crolli nelle vecchie gallerie. Ad un certo punto, mentre Harry è impegnato nel dedalo dei cunicoli, si sente un battito d’ali e la sua lampada si capovolge, si spezza, lasciandolo così intrappolato nell’oscurità totale; inoltre, anche a tentoni, è impossibile uscirne: il passaggio è stato bloccato.
Oltretutto è impossibile scendere a salvarlo, poiché le scale sono state bruciate. Dopo molti tentativi, uno strano bagliore saltellante guiderà i soccorritori dove si trova Harry. Rinchiuso per dieci giorni nelle viscere della terra sopravvive, con altri membri della famiglia, solo in virtù di un essere misterioso che a volte porta loro da mangiare e da bere, senza mai essere visto. Anche dopo la scoperta della grande caverna sotterranea, Harry rimane ossessionato dal pensiero dell’essere sconosciuto che lo ha salvato. Un giorno, individuando un pozzo naturale che si addentrava più in profondità nella miniera, gli par di sentire un gemito e un battito d’ali. Seguendo il suo istinto trova una giovane ragazza. Harry decide di portarla con sé, ma viene attaccato da un uccello. La catastrofe viene evitata e la giovane Nell, così si chiama la donna, sarà adottata dai Ford; era stata lei a salvare Harry fornendogli abbastanza cibo ed acqua e dirigendo gli aiuti. A poco a poco, Nell impara a vivere normalmente, lei che non ha mai visto la luce del giorno. Harry e la giovane ragazza si amano, ma il giovane non vuole legarsi prima che ella sappia cosa potrebbe offrirgli la terra alla luce del sole.

Un giorno Nell è considerata pronta e per lei inizia la grande avventura: vedrà l’esterno. Qui siamo di fronte ad una riproposizione dell’uscita progressiva dalla caverna platonica: per due giorni, infatti, visiterà l’ingresso e poi, solo allora, uscirà.

Ed ecco entrare direttamente in gioco il misterioso personaggio che tanto ha cercato di impedire l’entrata dei Ford nel mondo sotterraneo: pochi giorni prima del matrimonio tra i due ragazzi, arrivano lettere con minaccia di morte per tutte le persone di Coal city firmate Silfax. È il nome di un «penitente»: si chiamavano così i minatori che aveva il compito, spesso mortale, di rilevare le sacche di grisù e di farle scoppiare con esplosioni più o meno controllate. Erano detti «penitenti» poiché indossavano una sorta di saio che li faceva sembrare dei monaci in pellegrinaggio nelle viscere della terra. Con il volto perennemente colorato dalla fuliggine, gli occhi fissi nell’oscurità, questo abitante del sottosuolo rappresenta infine l’Avversario che vuole impedire a Nell di tornare alla luce.

Ecco, ora, l’interpretazione che Michel Lamy darà di questo racconto. Non a caso il capitolo si chiama: «Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem, ovvero la mistica ricerca delle Indie Nere».

«Il romanzo di Jules Verne è la storia di un uomo alla ricerca della sua anima, di quella parte divina che ciascuno di noi deve scoprire nel profondo, dentro di sé, attraverso delle prove, di qualcuno che deve liberare dalla matrice della materia la perla nascosta . Questa ricerca deve essere condotta con determinazione: ‘Corriamo al centro del globo, se necessario, per strappargli l’ultimo pezzo di carbone’, dice Simon Ford. Il richiamo della sua anima, Harry lo sentirà profondamente: ‘Era irresistibilmente attratto dalla speranza di trovare l’essere misterioso, il cui intervento lo aveva salvato. Cosa cercherà dunque in se stesso? La malinconia lo prende, non smette mai di sognare la sua anima, che Nell personifica in questa avventura».

LA PERLA NERA

Nell è quindi la personalizzazione di quest’anima impregnata di fuliggine, l’anima di un minatore, che Harry cercherà di risvegliare in lui. E infatti, non è forse Nell quella priva di luce solare, priva della luce finché Harry non la porta in superficie? Il suo stesso nome non è costituito dalla N di negazione e da Hel: il sole in lingua celtica, proprio come Helios tra i greci? Ma è anche legato all’Inferno Celtico e all’Hel islandese dell’Edda che designano l’Ade. Quando la trova tutto il suo volto è colorato di fuliggine, privato della luce. Nell porta dentro di sé l’ambiguità del passaggio attraverso la morte: è figlia della notte e del regno delle tenebre – come i Titani imprigionati nel Tartaro – (Hell), ma è anche promessa di luce (l’Hel celtico).

Anche Harry, come Mary Poppins ed il suo assistente Bart, è investito di poteri magici perché, ci fa notare Michel Lamy, è il figlio di Simon e Madge, nomi con cui dobbiamo riconoscere Simon Mago, mentre Madge è anche la «comare», nome dato alle streghe specializzate nell’uso delle erbe, che saluta sempre i turisti con i suoi migliori «auguri» (wishes), termine molto vicino a quello che designa le witches (streghe), ed anche i prognostici.

La ricerca quindi non sarà facile. Harry dovrà fare la sua discesa agli inferi, il suo tuffo nel fondo della fuligginosa miniera, cioè nel profondo di se stesso. Infine, come i bambini affidati a Mary Poppins, percepisce la manifestazione della sua anima solo perché è disponibile, vigile, avendo preferito prima interiorizzare (stare nel fondo), nel regno della fuliggine, e poi tornare a vivere superficialmente (in superficie). Anche i ragazzi faranno lo stesso percorso, prima saliranno sul tetto per scendere nella loro interiorità mercé l’ammirazione degli spazzacamini, poi torneranno in casa, alla vita in basso, portando con loro nuove visioni: nel mondo analogico della fiaba, ciò che è in alto è come ciò che è in basso, ma questo, in realtà, vale sempre, da sempre ed in ogni luogo.

Il Manifesto/Alias – 7 agosto 2021

martedì 24 agosto 2021

Dante e la lingua d'oc

 

per ingrandire cliccare sull'immagine

domenica 22 agosto 2021

Narratori della leggera. Danilo Montaldi e la letteratura dei marginali

 


Narratori della leggera

Vagabondi, prostitute, ladri. Gente che vive di espedienti, a tempo pieno o in alternanza a periodi di lavoro più o meno “normale”. Abitatori di margini al contempo fisici – come le rive del Po su cui costruiscono baracche e inventano modi di vita – e sociali, non essendo inquadrabili in alcuna classe, benché ovviamente più vicini al proletariato o sottoproletariato. Sono i rappresentanti della leggera, ai quali il grande sociologo cremonese Danilo Montaldi chiese di scrivere o di dettare le proprie vite. Adottando il metodo pionieristico della “conricerca”, Montaldi rivelò all’Italia un’immagine di sé complessa e stratificata, mostrando un paese in travagliato cammino dalla civiltà contadina a quella industriale, il tutto visto dalla specola “bassa” di cinque geniali semicolti che raccontavano senza freni le proprie straordinarie esistenze. Ne nacque un libro divenuto in qualche modo leggendario negli anni Sessanta e Settanta: Le autobiografie della leggera. 


Questo saggio ne ripercorre le origini, ne analizza il contenuto (con una particolare attenzione ai fenomeni narrativi e linguistici) e traccia un quadro del suo impatto sulla cultura italiana, tra incomprensioni ed entusiasmi, da Pasolini a Gianni Celati. L’analisi evidenzia anche come, nel laboratorio mentale dell’eterodosso Montaldi, le arti della parola fossero insieme strumento di conoscenza e di trasformazione del mondo.

(dalla quarta di copertina)


Fabrizio Bondi
Narratori della leggera
Danilo Montaldi e la letteratura dei marginali
Carocci editore, Roma 2020
14 euro

sabato 21 agosto 2021

“La sinistra” di Sergio Dalmasso. Un libro da leggere

 














Giorgio Amico

La sinistra” di Sergio Dalmasso. Un libro da leggere

Non sono molti i ricercatori che ancora si ostinano (meritoriamente) a lavorare sulla storia del movimento operaio della seconda metà del Novecento. Un lavoro controcorrente, ma necessario per sfatare quella pesante leggenda nera su presunti “anni di piombo” in cui ogni forma di dissenso viene ormai direttamente o indirettamente assimilata al terrorismo. I più interessanti, almeno per me, sono i “non accademici” proprio perché ancora mantengono un approccio “politico” e non banalmente sociologico o culturale a quella stagione. Politico ovviamente nel senso più autentico del termine, non certo un appiattimento nostalgico del tipo”come eravamo” su quei personaggi e quei fatti, ma piuttosto la volontà di farne risaltare l'autentica natura che appunto fu di aperta contestazione dell'ordine sociale esistente e di ripensamento delle esperienze del movimento operaio ufficiale, partiti e sindacati, che ormai mostrava i segni di una crisi che si sarebbe presto rivelata, come testimonia lo stato attuale della sinistra, irreversibile. Un tentativo esauritosi velocemente, ma di tutto rispetto soprattutto se confrontato ai balbettii inconcludenti della sinistra attuale che si dichiara ancora alternativa, ma non sa andare oltre i richiami moralistici alle esternazioni di Papa Bergoglio contro le ingiustizie sociali o nei casi peggiori mettersi a rimorchio dei No vax e persino dei Talebani. Una sinistra prigioniera di un eterno presente e di un analfabetismo politico che davvero fa impressione.

Non si può quindi che segnalare con estremo piacere “”La Sinistra. Una stagione troppo breve”, l'ultimo lavoro di Sergio Dalmasso, da decenni impegnato, lo ricordiamo fra l'altro redattore della bella rivista “Per il sessantotto”, nella ricostruzione attenta delle voci più interessanti di quella “altra sinistra”, alternativa ai grandi partiti ufficiali. Una realtà fatta di organizzazioni, riviste e personaggi che rischiano oggi di essere dimenticati o trascurati proprio da chi ogni giorno proclama la necessità di un rilancio di un sinistra autentica ancora capace di riflettere sul presente in un rapporto autentico con la classe.

Nel suo libro, agile, ma estremamente attento ai dettagli, Dalmasso ricostruisce la genesi e la storia di una rivista che tra il 1966 e la fine del 1967 più di ogni altre seppe documentare cosa stava incubando nelle viscere di un neocapitalismo che pareva aver risolto le sue contraddizioni a partire dal conflitto capitale-lavoro. E lo fece non limitandosi ad un'Italia dove si manifestavano i primi importanti segnali di una ripresa di combattività operaia e soprattutto di un crescente disagio giovanile che iniziava a trasformarsi in protesta organizzata, ma offrendo ogni mese una analisi attenta di ciò che di significativo avveniva nel mondo: dalle guerriglie latinoamericane, alla rivolta dei neri negli Stati Uniti, alla Rivoluzione culturale cinese, alla guerra del Vietnam. Articoli ovviamente non esenti da critiche, “La Sinistra” contribuì molto al diffondersi di quella mitologia terzomondista fonte poi di errori anche gravi, tipo l'esaltazione acritica della lotta armata come pianta trapiantabile a piacere in ogni clima che avrebbe poi generato una deriva tragica. Ma cosa molto più importante per quella generazione, la mia, che si apriva allora alla politica, “La sinistra” rappresentò una boccata d'aria fresca e una vera e propria iniziazione ad una militanza rivoluzionaria che nell'internazionalismo, ovvero in una visione globale della lotta di classe a livello planetario, trovava il suo principale fondamento. Grazie a “La sinistra” iniziammo a sentirci parte di un movimento di lotta che travalicava i confini nazionali. E questo per chi militava in piccole organizzazioni o ancor più piccoli collettivi locali, non poteva che essere motivo di speranza e stimolo a continuare senza timori ad avanzare sul cammino intrapreso.

“La sinistra” prepara il '68 e per questo muore proprio nel momento in cui le armi della critica si stavano trasformando con una rapidità travolgente in pratica di massa. “Ben scavato, vecchia talpa” verrebbe da dire riprendendo una celebre frase del padre di tutti i futuri cattivi maestri.


Sergio Dalmasso
La sinistra. Una storia troppo breve
Edizioni Punto Rosso
Milano, 2021
13 euro