Raffaele K. Salinari
L’occhiolino e la benda nera:
dall’alchimia alla veggenza
«Birra e salciccia…»,
la parola d’ordine segreta con la quale Totò doveva farsi
riconoscere in Totò sceicco per l’arruolamento nella
Legione straniera, viene fatta seguire da un occhiolino bilaterale,
segno di un significato intelligibile solo a chi ne conosce il
codice. Senso nascosto che, ovviamente, non viene decifrato da Carlo
Crocchiolo, giovane ed ebete garzone della bettola portuale, che si
limita stolidamente a riferire lo strano comportamento del cliente,
interpretato dal padrone come una semplice richiesta di raddoppio
della porzione di… birra e salciccia. Qualche decennio dopo, dalla
tolda della sua nave spaziale Arcadia, fatta di antimateria oscura,
un altro gentiluomo di fortuna, Capitan Harlock, guarda il cosmo
attraverso il suo unico occhio scoperto, l’altro essendo occultato
da una benda nera.
L’occhio di Satana
Ora ci si potrebbe
chiedere da dove nasce il gesto di fare l’occhiolino, e che
connessioni ci sono tra questo e la benda sull’occhio, propria non
solo di Capitan Harlock ma di una intera genealogia di pirati e
avventurieri, basti pensare a Jena Plissken, (chi non ricorda la
famosa battuta: «chiamami Jena»…) di 1997 Fuga da New York o
a Nick Fury dello S.H.I.E.L.D. o al John Wayne de Il
Grinta. In realtà, sia il gesto ammiccante sia la benda sull’occhio,
hanno ascendenze mitologiche articolate e precise che si ritrovano in
diverse culture con archetipi sostanzialmente analoghi.
Il punto di scaturigine
comune di questa momentanea o parziale cecità, a prima vista (è il
caso di dirlo) è paradossalmente quello della veggenza. Qui come
veggenza si intende la capacità di vedere l’essenza immutabile
delle cose e dunque poter anche anticipare gli avvenimenti
(preveggenza). Ecco dunque che questo vedere risiede nella capacità
di percepire non con la vista sensoriale, ma con lo «sguardo
dell’anima». Ad indicare questa visionarietà simbolica Platone
usa il termine «ópsis», che vuol dire a un tempo «occhio e
sguardo», in altre parole il «vedere agente»; e così,
attraverso l’ópsis, ciò che è immerso nell’oscurità
diventa esperibile sotto forma di simbolo.
E allora, per capire le
radici della veggenza e dei suoi simboli, tra i quali l’occhiolino
e la benda mistica sull’occhio, dobbiamo partire dal suo opposto,
cioè da una visione ad occhi perennemente spalancati: dalla fissità
dello sguardo. Ecco, allora, come «due occhi fissi sull’oscurità
immobile» vengono considerati, ad esempio nel sufismo iranico,
quelli dell’Antagonista, privati per questa loro caratteristica del
conforto dei «profondi soffi dell’eternità». A questo proposito
è interessante notare come in questa tendenza dell’esoterismo
islamico si dice che «Satana si fa gioco di qualsiasi minaccia. Ciò
che lo spaventa è vedere una luce nel tuo cuore». E forse per non
rischiare di vedere questa luce, che si manifesta solo ad occhi
chiusi, come ogni fotismo spirituale, egli non chiude mai gli occhi,
come opportunamente ci ricorda Henry Corbin nei suoi studi sull’uomo
di luce nel sufismo iranico.
Un’immagine fantasy
dall’analoga simbologia è quella espressa dall’«occhio di
Sauron» l’Oscuro Signore di Mordor nel Signore degli
anelli di J. R. R. Tolkien che Saruman, durante una discussione
con Gandalf, descrive come «sempre spalancato, senza palpebre,
avvolto nelle fiamme». Lo vediamo dunque sulla sommità del monte
che incessantemente scruta il territorio alla ricerca dell’Unico
Anello del dominio, quello che verrà poi distrutto a Monte Fato da
Frodo insieme a Gollum, l’hobbit che si è progressivamente
trasmutato in un demone accecato dal suo potere. Saranno i suoi
compagni della Compagnia dell’Anello, che ingaggeranno una impari
battaglia con le forze del male proprio per distrarre l’occhio
dalla sua ricerca inesausta. Quando il destino dell’anello sarà
compiuto, disciolto nelle fiamme del vulcano, anche l’occhio
malefico si spegnerà e con lui tutti gli esseri malvagi creati dalla
sua necrocrazia.
La veggenza
L’assunto è quindi
quello che la luce delle cose si coglie meglio ad occhi chiusi; una
metafora che in fondo possiamo esperire nel quotidiano quando
fissiamo direttamente il sole: se sfidiamo la sua luminosità, di
quella visione ad occhi nudi non rimane che una macchia oscura.
L’essenza della sapienza è dunque «invisibile alla vista», come
dice il Piccolo Principe; ed è proprio questo mistero gnoseologico,
la tensione verso un potenziale svelamento e la sua esperienza, che
fondano l’arcano della benda (velamento) e dell’occhiolino
(chiusura dell’occhio), come vedremo: chi si avventura, seppure per
un momento all’interno di questo buiore momentaneo ed autoindotto,
dicono gli antichi, ritrova ed esprime un significato nascosto o,
come intuisce Goethe, ci si sofferma quando la chiarezza esaurisce le
proprie risposte; basti pensare a quante volte si chiudono gli occhi
per riprendere il dominio di sé.
«C’è una grande
differenza, se mi spingo dalla chiarezza verso l’oscurità oppure
dall’oscurità verso la chiarezza; se, quando la chiarezza non mi
promette più nulla, tendo ad avvolgermi con una certa oscurità o
se, convinto che il chiaro si basa su un fondamento profondo
difficile da esplorare, mi adopero tuttavia per trarre il possibile
anche da questo fondamento, ancorché difficilmente esprimibile».
Analogamente, evitare che
l’accecamento insito nelle forme del divenire potesse impedire la
percezione della loro comune essenza, era lo scopo e la
caratteristica dei veggenti dell’antichità classica: nella
Tragedia greca, infatti, troviamo in Edipo e Tiresia le figure
emblematiche dell’uomo immerso nell’oscurità del sensibile per
poter riacquistare la visione dell’intelligibile. Anche Omero, «il
più saggio tra i greci» secondo Eraclito, sarà cieco. Veggenza
(óran to afanés) significa, dunque, letteralmente, «vedere
l’oscurità»: non semplicemente vedere nell’oscurità ma
coglierne l’essenza stessa; e questa è sapienza, perché in essa
si coglie il limite estremo ed ineludibile, ma allo stesso tempo
glorioso, dell’esistenza umana: la morte. La visione nell’oscurità
si sovrappone così a quella della sapienza, è la sapienza stessa
ma, come per Edipo e la Sfinge, svela il suo enigma solo ad uno
sguardo che ha come intento la verità sull’essere ultimo del
veggente.
Il fabbro alchimista
A questo punto
possiamo introdurre, per così dire, l’archetipo dell’individuo
con le benda sull’occhio, che non è un pirata, bensì una figura
oramai pressoché scomparsa: il fabbro che protegge l’occhio con
una benda nera. In alcune culture ancora fortemente tradizionali,
nelle quali cioè tutti i gesti quotidiani sono la rammemorazione di
quelli compiuti in origine dagli antenati fondatori, com’è o
dovrebbe essere proprio di ogni civiltà che abbia ancora un qualche
senso spirituale, la figura del fabbro è centrale. Chi opera sui
metalli, infatti, opera sul corpo stesso della terra, cioè degli
elementi dei quali è formato lo stesso corpo umano. Dunque nelle
pietre, nei metalli, nella loro composizione e scomposizione, è
racchiuso il segreto della vita, una serie di arcani trasmutatori che
mostrano il continuo trapasso da una forma ad un’altra; chi
possiede questi segreti, come gli alchimisti, comprende i fondamenti
dell’esistenza perché, semplicemente, la accompagna, la assiste,
la cura, trasmuta con le cose.
Per vedere configurate
concretamente queste visioni ci si può ancora spingere, con molta
umiltà, alla soglia di una fucina Dogon.
Qui vedremo ancora il
fabbro ergersi dinanzi all’incudine come fosse un officiante di
fronte ad un altare, e di fatti lo è, poiché il fuoco che gli
divampa dietro, nella forgia, alimentato dai quattro elementi: aria,
acqua, terra e fuoco, è il risultato di una attenzione costante alle
loro intime relazioni. Per creare il fuoco, inoltre, egli ha dovuto
scegliere il legno adatto, e dunque incantare l’anima delle piante
con melopee lente e tortuose, come le loro radici. Poi, una volta
accesi i carboni, è stata l’aria ad alimentarli, pompata dai
mantici, mentre solo l’acqua ha potuto temprare la terra
metallifera, come se il fuoco incandescente della fusione fosse stato
imprigionato, mercé il suo potere fluido, nel metallo stesso.
E dunque, quando il
fabbro ritrae incandescente il ferro e lo depone sull’incudine,
egli deve rapidamente dare forma al quel fuoco con i suoi battiti
ritmati, mentre il metallo sprigiona scintille, come piccole comete,
ricordando comuni origini celesti. Da questo l’antico nome greco
delle stelle (sideros) e dell’arte metallurgica (siderurgia). Ecco
che dunque egli porta sull’occhio una benda nera, a protezione. Ma
questa benda, oggi sostituita dagli occhiali a lenti di un blu
profondo, oltremarino, che mantengono per certi versi intatto lo
stesso fascino arcano della benda nera, non serve solo da protezione,
ma da lente attraverso cui vedere l’anima dei metalli. Dall’altra
parte, alla polarità opposta, troviamo gli occhiali totalmente neri,
da iettatore appunto, che Pirandello descrive come componente
fondamentale della sua vestizione nella Patente; anche qui
l’interpretazione di Totò è superlativa. Estrema propaggine di
questa genealogia delle lenti è certamente il fascino che ancora
esercita il monocolo o caramella, che di fatto per essere portato
costringe l’occhio ad una potenziale occhiolino permanente.
L’occhio che guarda al divino è dunque benevolo, mentre è funesto
quello che guarda invidiosamente il mondo o semplicemente che ad esso
guardi (in videns).
Tornando a Capitan
Harlock e alla sua benda nera, non dimentichiamo che egli è il solo
a poter governare l’Arcadia, la cui costruzione è un arcano di
segreti orami perduti per l’umanità; costituita da materia oscura,
dunque corrispondente alla prima fase dell’Opera alchemica, l’Opera
al nero, essa è soprattutto animata da uno spirito che la dirige e
si fa dirigere da lui perché entrambi sono mossi dagli stessi ideali
di giustizia. Ancora una volta, l’operatore opera la materia
operata tanto quanto essa opera sull’operatore.
L’occhiolino divino
L’occhiolino ha
origini apotropaiche ancora più lontane nel tempo, risalenti alle
prime civiltà organizzate, come quella egizia. Qui troviamo l’Occhio
di Horus, l’Occhio divino, la fiamma del quale annienta il Male
chiudendosi e riaprendosi sul mondo; e l’occhiolino non è forse
ancora oggi un gesto apotropaico? Non serve a stabilire un legame
occulto tra chi lo agisce e chi lo osserva?
Nell’antico Egitto, ma
anche nelle mitologie Vichinghe ed Irlandesi arcaiche, troviamo
dunque l’originale dell’occhiolino come gesto che, al tempo
stesso, vuole riprodurre la collera del dio o la sua magnanimità.
Anche nell’induismo vive l’idea cosmogonica che Brama apre e
chiude gli occhi su un universo sempre differente. D’Altronde,
sintetizza Borges nella sua Storia dell’eternità: «Se
l’occhio del Signore si distraesse un solo secondo da questa mia
mano destra che scrive, essa ricadrebbe dal nulla, come fulminata da
un fuoco senza luce».
In tutte queste mitologie
troviamo dunque il gesto, non solo espresso singolarmente, ma
inserito nel complesso di gesticolazioni magiche attraverso le quali
si voleva diventare l’icona stessa del dio che apre o chiude
l’occhio dispiegando il suo terribile potere. Nell’Egils saga
ad esempio, ci ricorda Elémire Zolla, si narra di un eroe vichingo
che stronca il coraggio e lo spirito combattivo della corte inglese
facendo l’occhiolino in modo impressionante: «E come si sedette,
aggrottò fin contro la gota l’un ciglio e l’altro lo sollevò
sino alla radice dei capelli… fu come se gli si martellassero nel
cranio tutti i capelli a uno a uno. Avresti giurato che da ciascuno
sprizzava una scintilla. Un occhio strizzò a cruna di ago e l’altro
slargò come la bocca di un’urna. Snudò le gengive su fino
all’orecchio, ripiegò indietro le labbra fino ai denti sotto
l’orecchio mostrando il fondo della gola. Gli si alzò sopra la
testa l’alone degli eroi».
Forse anche il potere
spaventevole di ciclopi derivava dal loro essere monocoli. Ulisse
acceca Polifemo non solo per salvarsi, ma anche per decretare la fine
di quel mondo titanico, che traguardava le cose verso l’orizzonte,
a beneficio dello sguardo totalmente umano, e limitato, sul mondo.
Anche Odino, per restare
nella mitografia nordica, è monocolo, o meglio fa sempre
l’occhiolino dato che la storia racconta come egli avesse ceduto un
occhio in pegno «schiacciandolo perennemente sotto le ciglia», dato
che un dio non può essere orbato, per attingere con esso alla Fonte
interiore della conoscenza che è ispirazione e mania: al gigante
Mimir, che è presente anche nelle bevande fermentate. E quando si
beve qualcosa di particolarmente apprezzato, non si strizzano forse
gli occhi alla bevanda stessa?
L’Occhio divino è
anche centrale nell’iconografia cristiana, come in quella Libero
Muratoria che campeggia anche sulla moneta da un dollaro. L’Occhio
onniveggente è il suo simbolo stesso. I saggi taoisti, a questo
proposito, come gli asceti indiani, si esercitano nell’unificazione
dei due occhi alla radice del naso, oppure rovesciandoli indietro per
raggiungere il «campo di cinabro», la pietra da cui si estrae il
mercurio, simbolo paracelsiano dell’anima.
Per concludere attiriamo
l’attenzione su un altro gesto che con l’occhiolino e la benda
nera è profondamente imparentato: lo stropicciarsi gli occhi. Anche
in questo si cela, per chi ne fosse consapevole, una possibilità di
trasmutazione interiore. È ciò di cui ci parla l’ermetista Giulio
Camillo Delminio nell’Idea del theatro, recentemente ristampato da
Adelphi con le splendide tavole originali. Ebbene, il nostro sostiene
che: «Quel raggio di fuoco che dentro di noi risponde all’occhio,
il quale noi assai sovente fregandoci alcun degli occhi col dito
vediamo internamente in similitudine di fiamma in rota, per la qual
rota fiammeggiante spesse volte avviene che noi svegliati,
discerniamo le cose».
E così, in conclusione,
gesti che un tempo erano carichi di significato, oggi ridotti
all’ombra di se stessi, e noi con essi, possono, mercé queste
brevi rammemorazioni, tornare almeno a donarci una piccolo scintilla
della loro antica funzione, con l’augurio che la luce della
sapienza possa raggiungerci sempre mentre facciamo l’occhiolino.
Il Manifesto/Alias – 18 settembre
2021