Il marxismo nasce come tentativo di dare una spiegazione dei meccanismi fondamentali (l'accumulazione, lo viluppo, le crisi) della società capitalistica, alternativa a quella fornita dagli economisti liberali. Per questo nella tradizione politica del movimento operaio, prima socialista e poi comunisti, la costante analisi dell'andamento dell'economia capitalistica era considerato fondamentale. Oggi non è più così. Basta scorrere anche velocemente la stampa o i siti della sinistra che ancora si richiama al marxismo e al comunismo, per accorgersi di come questo aspetto fondamentale dell'agire politico sia largamente se non totalmente trascurato a favore di una politique politicienne condotta sui media. Insomma, anche in campo rivoluzionario, la politica spettacolo la fa da padrona. Per questo sono da segnalare libri come quello di cui oggi presentiamo un estratto dell'introduzione. Un libro importante per comprendere le dinamiche profonde di ciò che vediamo ogni giorno accadere e che tocca la vita di tutti,ma di cui sfuggono le cause autentiche.
G.A.
Il capitalismo è crisi. Considerazioni e verifiche sulla caduta del saggio medio del profitto
Il libro che pubblichiamo è una raccolta di scritti apparsi nel corso degli anni sulla nostra rivista teorica “Prometeo”. Alcuni di essi sono stati rivisti qui e là, al fine di precisare e meglio definire qualche passo che, nella radazione originaria, poteva dare adito – agli occhi di critici più o meno prevenuti – a interpretazioni non del tutto coerenti con la critica marxiana dell'economia politica. Ma gli interventi in tal senso sono stati davvero minimi, anche per i saggi più in là nel tempo, che hanno conservato il loro interesse e la loro efficacia teorico-politica nel mettere a nudo i meccanismi del modo di produzione capitalistico e lo sbocco inevitabile a cui conducono, ossia la crisi, con gli effetti per niente collaterali che essa produce. Effetti sulla classe proletaria, sui rapporti interimperialistici, sull'ambiente, cioè sull'accelerazione impressa alla rapina delle risorse naturali e alle devastazioni che ne conseguono. Effetti drammatici e che promettono di aggravarsi mano a mano che la crisi, al contrario di quanto affermano economisti “di regime” e governanti di ogni colore, non si risolve e detta l'agenda dei governi, di miliardi di esseri umani e del Pianeta in generale.
Il fatto che la crisi imponga alla borghesia le proprie spietate necessità, non significa scadere in un ottuso determinismo, in cui la dialettica delle altre forze materiali – prodotti e agenti dalla e nella società – sia cancellata da un economicismo di matrice secondinternazionalista: al contrario, e gli scritti qui raccolti lo dimostrano. Significa “solo” guardare la realtà così com'è, individuare, auspicabilmente con meno errori possibile, il terreno che esprime il mondo in cui viviamo, determinato – questo sì – dai suoi rapporti di sfruttamento, di dominio e di oppressione. Si tratta di una determinazione storica, cioè prodotta dagli esseri umani collocati appunto in precisi rapporti di classe, che quindi può essere cambiata, fatta saltare per aria con tanta più efficacia quanto più si hanno chiari gli elementi che costituiscono la base materiale della determinazione stessa ossia le leggi del capitale. Leggi sociali, certo, ma pur sempre leggi, che indicano la direzione, dal punto di vista economico, a cui questo sistema di produzione – e conseguentemente di distribuzione – va incontro. Tra queste leggi, il ruolo di protagonista è interpretato da quella che Marx, oltre un secolo e mezzo fa, aveva già individuato chiaramente, benché allora solo in Gran Bretagna e parzialmente in pochi altri paesi, il capitalismo avesse spiegato le ali: la caduta tendenziale del saggio medio di profitto. Nel suo “laboratorio” rivoluzionario infatti scriveva:
«Questa è, sotto ogni rispetto, la legge più importante della moderna economia politica e la più essenziale per comprendere i rapporti più difficili. Dal punto di vista storico è la legge più importante. È una legge, che ad onta della sua semplicità, non è stata finora mai compresa e tanto meno espressa consapevolmente».
Questo, la sua scarsa o nulla comprensione, era vero non solo ai tempi in cui Marx affilava le armi della critica rivoluzionaria stendendo i suoi appunti, ma lo è per tutta la storia del movimento operaio e comunista, fino ai nostri giorni, come si vede, per esempio, da uno dei saggi qui radunati. Persino una grande rivoluzionaria come Rosa Luxemburg aveva frainteso aspetti fondamentali della critica marxiana, ritenendo erroneamente che “la legge più importante” cominciasse a operare “catastroficamente” solo in presenza della saturazione dei mercati costituiti da “terze persone” (né capitalisti né operai), cioè mercati extracapitalistici. In pratica, contro l'impostazione di Marx aveva spostato l'origine della crisi dalla produzione alla distribuzione, cioè al consumo. Errore non nuovo e destinato, come vedremo, a lunga vita; ma almeno la Luxemburg partiva da un obiettivo corretto, più che mai condivisibile, vale a dire mostrare come il capitale vada verso il crollo non per fattori esterni, ma per le contraddizioni impresse nel suo codice genetico.
Si potrebbe qui aprire una parentesi sulla discussione, un tempo molto accesa, se in Marx sia presente una visione “crollista” del processo di accumulazione capitalistico, discussione che non ha risvolti accademici – anche se molti intellettuali a questo hanno voluto ridurla – ma direttamente politici, rivoluzionari, purché il “crollo” non venga inteso in termini meccanicisti. Ancora una volta, i fattori economici sono uno dei due aspetti della questione: fondamentali, certo, ma senza l'altro elemento non meno importante, la lotta di classe, il crollo del capitalismo, il superamento della società borghese possono essere sempre rimandati a data da destinarsi. Lenin metteva in guarda sul fatto che, in sé, il capitalismo può sempre avere una via d'uscita, sia essa la guerra imperialista, l'aumento dello sfruttamento operaio o tutte e due le cose insieme. In breve, che senza l'intervento cosciente del proletariato rivoluzionario e della sua avanguardia politica (il partito), la società borghese può tirarsi fuori anche dalle crisi economiche più devastanti a spese del proletariato, dei diseredati e, oggi, dell'ambiente, cioè dei prerequisiti biologici della vita.. Nella nostra epoca, si sta concretamente profilando il rischio che l'incapacità finora dimostrata dalla nostra classe di essere all'altezza dello scontro con una borghesia sempre più aggressiva, porti all'ipotesi quanto mai drammatica della “comune rovina delle classi in lotta”, adombrata da Marx e da Engels nel “Manifesto del Partito Comunista”: la guerra generalizzata e la catastrofe ambientale sono possibilità tutt'altro che campate per aria.
Possibilità, non un destino già segnato, ma che non lo sia dipende appunto dallo svolgimento della lotta di classe, fortemente influenzato, per non dire condizionato, dal modo e dall'intensità con cui si esprimono quelle contraddizioni di cui si è parlato più indietro. In quest'ottica si deve dunque collocare la questione del crollo del capitalismo, sulla scorta di Marx stesso:
«Queste contraddizioni conducono, naturalmente, a esplosioni, cataclismi, crisi, in cui una momentanea sospensione di ogni lavoro e la distruzione di una gran parte del capitale, lo riportano violentemente al punto in cui esso può continuare ad andare avanti impiegando pienamente le sue capacità produttive senza suicidarsi. Inoltre, queste catastrofi regolarmente ricorrenti conducono alla loro ripetizione su più larga scala, e infine al crollo violento del capitale».
Crollo violento, non automatico: da nessuna parte Marx lascia intendere che ci sia un automatismo, anzi, indica con precisione le misure (cioè le controtendenze) messe in atto dalla borghesia per rallentare il più a lungo possibile il cammino obbligato verso l'inceppamento del processo economico-produttivo. Nella sostanza, in più di centocinquant'anni sono le stesse e i saggi di questa raccolta lo documentano, seguendo sistematicamente l'andamento della crisi, apertasi nei primi anni '70 con la fine del più intenso ciclo di “prosperità” economica della storia del capitalismo, incominciato dopo la seconda guerra mondiale. Non una di quelle misure individuate da Marx (3) è stata trascurata dai rappresentanti del capitale e dai loro “commessi”, vale a dire dai governi che, a dispetto del nome impresso alla fase attuale, cioè “neoliberismo”, hanno continuato come prima a “intromettersi” nella gestione dell'economia, seppure con modalità diverse rispetto alla fase “statalista”.