A settant'anni dalle
eccidio delle Fosse Ardeatine pubblichiamo larghi stralci di un
articolo sulle stragi “dimenticate” apparso sulll'ultimo numero
del giornale dell'ANPI, I resistenti.
Giorgio Amico
Stragi naziste: la
mappa mancante
“Sembra incredibile, ma
a settant’anni dai fatti, nonostante le centinaia di pubblicazioni,
le mostre, le ricerche locali condotte dagli Istituti per il
movimento di Liberazione, le commissioni d’inchiesta parlamentari,
le commissioni internazionali, i processi, le inchieste
giornalistiche... ebbene, nonostante tutto questo, non esiste ancora
una mappa precisa delle stragi compiute dai nazisti contro i civili
italiani tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945. Gli episodi
maggiori sono arcinoti, dalla rappresaglia delle Fosse Ardeatine del
marzo 1944 agli eccidi di Monte Sole e Marzabotto, tra il 29
settembre e il 4 ottobre 1944, che con oltre 1.800 vittime, tra cui
centinaia di bambini e donne, rimane l’episodio più cruento di
questo tipo in tutta la guerra europea. Ma dalle maglie tessute dagli
storici mancano tanti fatti minori, avvenuti per esempio al Sud.”
Scrive così Paolo
Pezzino, professore di storia contemporanea presso l'Università di
Pisa, nel volume Le stragi nazifasciste del 1943-1945 tra memoria,
responsabilità e riparazione, curato dall'ANPI nazionale e che
prende spunto dal Convegno che l’Associazione ha tenuto, in una
sala del Senato, il 29 gennaio 2013.
Un convegno pensato
proprio per far conoscere una realtà finora trascurata e presentare
un ambizioso progetto di ricerca, da svolgersi in due anni a cura
dell'ANPI e dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di
liberazione in Italia (Insmli), finalizzato alla realizzazione di un
''atlante delle stragi nazifasciste'' compiute in Italia tra il 1943
e il 1945.
Gli “armadi della
vergogna” e l'insabbiamento delle responsabilità giudiziarie (e
politiche)
Emblematica di questa
situazione di mancato impegno è la questione dei cosiddetti “armadi
della vergogna”. Il primo ritrovato casualmente nel corso di altre
indagini nel 1994 nei locali del Tribunale Militare di Roma e
contenente 695 fascicoli e un Registro generale
riportante 2274 notizie di reato, relative a crimini di guerra
commessi sul territorio italiano durante l'occupazione nazifascista.
Il secondo scoperto nel
2004 a Bologna nei sotterranei del Comando regionale dei carabinieri
dell’Emilia-Romagna e riguardante 163 episodi avvenuti in regione
che, solo nella provincia di Bologna, causarono 422 vittime.
Nei fascicoli vengono
descritti luoghi, date, nomi dei morti e dei presunti colpevoli.
Materiali occultati ai giudici con il risultato di rendere
impossibile l'accertamento delle responsabilità.
Lo
scandalo derivato dai fatti del 1994 portò prima allo svolgimento di
un'indagine conoscitiva da parte della Commissione Giustizia della
Camera dei Deputati (2001) e poi all'istituzione di una
Commissione parlamentare d'inchiesta (2003-2006).
Un'indagine di ampio
respiro che permise la raccolta di circa 80 mila documenti, ma a cui
non seguì alcun intervento concreto. La commissione produsse due
documenti conclusivi che non furono mai discussi a causa soprattutto
di un centrodestra tutto teso a minimizzare quanto accaduto e a
negare l'esistenza di precise responsabilità da parte dei massimi
vertici politici e militari dell'epoca a partire da Giulio Andreotti,
per molti anni ministro della difesa e dunque personaggio centrale
nella vicenda.
Un nulla di fatto
sconcertante se solo si considera come dai materiali raccolti fossero
emerse indicazioni precise che permettevano di fare luce sui
retroscena di questa gigantesca operazione di insabbiamento e sulle
responsabilità politiche che l'avevano resa possibile. Indicazioni
raccolte e sistematizzate nella relazione di minoranza che permettono
di delineare una pista “atlantica” e una dei “Servizi”.
Come nelle inchieste
sulle stragi nere degli anni '70 l'indagine parlamentare rivelava
l'esistenza di complicità e connivenze con ambienti che ritroveremo
coinvolti, tanto per citare il caso più eclatante, nella rete NATO
Stay Behind (Gladio) e ai quali occorreva garantire protezioni e
coperture in cambio della loro partecipazione a progetti eversivi di
contenimento (in particolare in Italia, ma anche nel resto d'Europa)
della crescita delle sinistre e del movimento operaio.
Il tutto ambientato nel
contesto internazionale della guerra fredda che dettava la “ragion
di Stato” per cui a partire dalla fine degli anni Quaranta le
indagini e i processi contro i responsabili delle stragi andavano
fermate per mantenere buoni rapporti con una Germania che stava
assumendo un ruolo centrale nei piani politico-militari NATO di
contenimento dell'URSS. Un elemento considerato centrale già nel
2001 dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati:
“Dalla breve indagine –
si legge nella relazione finale – che la Commissione Giustizia ha
svolto è emersa con tutta evidenza che l'inerzia in ordine
all'accertamento dei crimini nazifascisti sia stata determinata dalla
'ragion di Stato', le cui radici in massima parte devono essere
rintracciate nelle linee di politiche internazionali che hanno
guidato i Paesi del blocco occidentale durante la guerra fredda”.
Una volontà di omissione
e di copertura di stragi e responsabili che vanno ben oltre quanto
accaduto in Italia e comprendono anche le stragi di militari italiani
nel settembre 1943 conseguenti all'armistizio e alla fine delle
ostilità contro gli alleati.
La strage di Leopoli e
la ricerca di Nuto Revelli
Nell'ambito della
sistemazione dell'archivio di Nuto Revelli nel decennale della morte
sono emersi numerosi materiali inediti (in larga parte appunti e
lettere) relativi al massacro di almeno duemila soldati italiani da
parte dei tedeschi a Leopoli, in Ucraina, dopo l'8 settembre '43.
Dell'eccidio avevano parlato agenzie e giornali dell'Urss, ripresi
nel 1960 dalla stampa italiana.
Anche in questo caso agli
articoli non era seguito nulla e solo nel 1987 l'allora ministro
della Difesa Giovanni Spadolini aveva istituito una commissione con
il compito di fare luce sull'accaduto. Nuto Revelli, chiamato a far
parte della commissione, aveva con Lucio Ceva e a Mario Rigoni Stern
scritto il testo della relazione di minoranza, in assoluto dissenso
con le conclusioni della maggioranza che nel 1988 aveva concluso i
lavori ignorando totalmente le testimonianze e negando addirittura
che a Leopoli, fosse avvenuta una strage. Anche qui troviamo ragioni
di Stato, pressioni internazionali e "armadi della vergogna".
Le vicende della
commissione amareggiarono profondamente Nuto Revelli. Tanto che un
anno dopo, partecipando a un programma culturale della Rai,
confidava a Mario Isnenghi: «Tu sai quanto quell'esperienza mi bruci
ancora. Mi è stato rinfacciato non una ma cinquanta volte che mi
manca il distacco storico, e che sarei quindi uno storico un po'
così, sui generis. Io invece sostengo che proprio coloro che mi
incolpavano di non avere distacco storico, erano troppo distaccati:
erano lontani dagli avvenimenti di guerra addirittura da angosciarmi,
da spaventarmi ».
Accusato di essere
prevenuto, di essere, come si direbbe oggi, “ideologico”, Nuto
rispondeva nei suoi appunti rilevando come da parte della commissione
si fosse sopravvaluta la documentazione ufficiale, le relazioni
omissive dei comandi militari. “Io ho un'altra visione della storia
(anche se non sono uno storico): la storia vissuta dal basso, una
storia della quale sappiano poco o nulla. Manca una tradizione
culturale in questo senso”.
La concezione di Nuto
della storia dal basso partiva da un'amara riflessione: «Le
dichiarazioni dei soldati non contano nulla, per cui magari vengono
mandate al macero». Concludeva i suoi appunti così: «Sia ben
chiaro! Una cosa è il disastro dell'Armir, ed un'altra è il dopo
disastro, con delle frange dimenticate o disperse. E un'altra cosa
ancora è l'8 settembre ed il dopo 8 settembre 40 anni dopo».
La “pista jugoslava”
e i crimini taciuti dei comandi italiani
Nella relazione di
minoranza della commissione parlamentare sugli “armadi della
vergogna” veniva anche considerata tra le motivazioni
dell'atteggiamento omertoso tenuto dalle autorità politico-militari
la cosiddetta “pista jugoslava”, secondo cui si sarebbe
rinunciato a perseguire i criminali di guerra tedeschi per salvare i
criminali di guerra italiani autori di stragi non meno efferate in
Albania, Jugoslavia, Grecia. Oltre alle pressioni internazionali, che
pure ci furono e forti, giocò dunque nell'occultamento sistematico
della verità la volontà di chiudere definitivamente una pagina di
storia che coinvolgeva direttamente nei crimini del fascismo le
nostre Forze Armate. Meglio tacere sulle colpe altrui e favorire la
diffusione del falso mito degli “italiani, brava gente”,
piuttosto che esigere (e fare) chiarezza, rischiando che l'Italia
potesse a sua volta essere chiamata in giudizio per i crimini
commessi nei Balcani negli anni 1940-43.
Una
ipotesi che ha avuto di recente nuove conferme. Di recente è stata
resa pubblica la relazione finora riservata di una Commissione
istituita il 6 maggio del 1946 dal ministero della Guerra per
«accertare le responsabilità nelle quali potessero essere incorsi i
comandanti o i gregari italiani nei territori d’oltre confine
occupati dalle forze armate italiane nell’ultima guerra».
Nella relazione, datata
30 giugno 1951, pur con molti distinguo si ammetteva l'esistenza di
responsabilità degli alti comandi italiani nella repressione feroce
del movimento partigiano nei Balcani.
«L’annientamento di
interi villaggi, le rappresaglie più spietate, furono opera di
gruppi etnici e religiosi in lotta fra loro (…) Tuttavia non può
disconoscersi che gli ordini e le disposizioni dati da alcuni
comandanti militari e da qualche autorità civile e i giudizi sommari
di qualche tribunale straordinario apparissero improntati ad un
rigore eccessivo».
Non ne
seguì nulla. Della questione non si parlò più. Gli atti
dell'inchiesta finirono sepolti nell'ennesimo armadio della vergogna
per riapparire solo oggi, a distanza di 62 anni. A confermare che
l'impegno costante per la difesa della memoria rappresenta un fronte
centrale della difesa della democrazia nell'Italia di oggi.