sabato 20 marzo 2021

Haggadah di Pesach

 


Mi è capitato due volte di celebrare il séder secondo il rituale descritto nell'Haggadàh. La prima volta in modo semplificato in una comunità monastica cattolica che celebrava la Pasqua secondo l'uso ebraico, la seconda volta con il banchetto eseguito in maniera ortodossa. In entrambi i casi è stata una esperienza estremamente coinvolgente dove il cibo diventa strumento di comunità, non simbolica come nella Messa cattolica, ma materiale considerato anche che si svolge nelle case senza la presenza di un officiante esterno. È l'intera famiglia, riunita attorno alla tavola, a praticarlo e gli anziani e i bambini hanno un ruolo centrale. Perché il séder celebra e rinnova la memoria di ciò che rese gli ebrei comunità e dunque va trasmesso di generazione in generazione a ricordare da dove si viene e ciò che unisce. Quella che presentiamo è probabilmente l'edizione più bella disponibile in Italia, anche per le splendide tavole di Lele Luzzati.

G.A.


Haggadah di Pesach

L'Haggadàh è il testo usato per il séder, la cena rituale solitamente tenuta in casa le prime due sere di Pésach. La parola Haggadàh significa “racconto” e si rifà al comandamento nell'Esodo 13:8 “e racconterai a tuo figlio” della liberazione dalla schiavitù. Uno dei doveri di Pésach è quello di tramandare il racconto dell'Esodo da una generazione all'altra.

Questa narrazione deve avvenire, secondo i rabbini, mentre la cena di Pésach, che comprende la matzàh e le erbe amare, è messa in tavola davanti a noi. Il testo odierno dell'Haggadàh è derivato da un midràsh molto antico, di cui alcuni elementi risalgono al primo o secondo secolo a.e.v.

L'Haggadàh si è evoluta e sviluppata nei secoli fino a quando l'invenzione della stampa ha interrotto questo processo, portando ad una standardizzazione del testo. L'Haggadàh è stata uno dei libri ebraici più frequentemente stampati; i collezionisti di rare Haggadòt posseggono migliaia di edizioni.

È anche il classico della letteratura ebraica che è stato più ampiamente illustrato, sia nei manoscritti miniati sia nella gran varietà delle edizioni a stampa, antiche o recenti. Mentre la recitazione alla lettera del testo dell'Haggadàh divenne la norma in molte famiglie tradizionali, il testo serve, idealmente, anche come un punto di partenza per la discussione intorno alla tavola del séder.

Affinché il comandamento del “raccontare” sia adempiuto, è necessario che anche i bambini vengano inclusi nella conversazione in modo tale che il ricordo della persecuzione, dell'esilio e della liberazione diventi importante e pieno di significato per loro.


Haggadah di Pesach
Introduzione: Elio Toaff
Illustrazioni: Emanuele Luzzati
Giuntina
35 euro


venerdì 19 marzo 2021

Novità in libreria: Lucio Magri

 


Novità il libreria. Il libro di Simone Oggionni, con prefazione di Luciana Castellina e post-prefazione di Famiano Crucianelli per le Edizioni Efesto. Per Magri, scomparso nel novembre del 2011, l’innovazione teorica e politica non voleva dire ricominciare da zero dopo l’89.

Aldo Garzia

Lucio Mgri, sulle tracce di un comunista anomalo

Dieci anni sono il tempo giusto per rielaborare un lutto e iniziare a occuparsi di chi non c’è più. Raccontare Lucio Magri (1932-2011) è l’obiettivo del libro di Simone Oggionni appena arrivato in libreria e sui siti (Lucio Magri, Edizioni Efesto, pp. 358, euro 15, 00).

È un bene che l’autore di questo primo lavoro di ricostruzione biografica sia un trentenne: ha conosciuto Magri negli ultimi anni e ha scritto sulla base della rilettura di molteplici testi e saggi, oltre che di relazioni a convegni. Ciò vuol dire che un accumulo di esperienze ed elaborazioni non è andato perduto. Efficace, poi, la scelta dell’editore di mettere in copertina la lettera che Jean-Paul Sartre scrisse nel 1962 a un giovane Magri per invitarlo a collaborare alla rivista Les Temps Modernes. Il filosofo francese era rimasto positivamente impressionato dall’intervento di Magri a un convegno dell’Istituto Gramsci in cui aveva tratteggiato le novità del neocapitalismo non solo italiano che si muoveva verso gli anni del boom economico.

ALTRETTANTO EFFICACE la scelta del sottotitolo che racchiude il lascito politico di Magri: «Non post-comunista, ma neo-comunista». Negli ultimi anni della sua vita, soprattutto con il libro Il sarto di Ulm (il Saggiatore), lui era infatti impegnato non solo a riconsiderare la storia del comunismo italiano ma a ritrovare le ragioni per la riaffermazione di un’identità a fronte di tutte le questioni che ponevano il 1989 e la fine del «socialismo reale».

La costante magriana – lo spiega bene questo libro – è stata mettere sempre a rapporto un patrimonio politico/culturale con le novità economiche/sociali. L’innovazione teorica e politica come assillo, dunque, rifiutando tuttavia l’azzeramento da cui bisognerebbe ricominciare da zero.

Oggionni ci consegna per intero in questa monografia l’originalità del personaggio Magri, che nel 1969 diresse la rivista il manifesto con Rossana Rossanda dando vita all’omonimo gruppo politico insieme a Luigi Pintor, Aldo Natoli, Eliseo Milani, Luciana Castellina, Filippo Maone, Valentino Parlato e tanti altri. Il mensile il manifesto apparve subito non come un gruppo di anti-revisionisti difensori dell’ortodossia che si stava tradendo, bensì come chi – sull’onda dei movimenti del 1968-1969 – proponeva il rapporto tra storia del movimento operaio e nuove soggettività di quel periodo in modo da operare il necessario rinnovamento di cultura e azione politica. L’anomalia del manifesto rispetto alle altre formazioni della nuova sinistra stava proprio in tale origine interna-esterna al Partito comunista.

A QUESTA ANOMALIA manifestina si aggiungeva l’originale pensiero di Magri: iniziale formazione cattolica nella Bergamo dei fermenti di papa Giovanni XXIII e del Concilio, l’adesione al Pci nel 1957, le precoci letture degli esponenti della Scuola di Francoforte (da Adorno a Marcuse), di John Kenneth Galbraith, Jacques Maritain, Augusto Del Noce, Franco Rodano, György Lukacs, molto Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti. Sono autori che danno all’accostamento di Magri al marxismo un sapore particolare: il rifiuto dell’economicismo, le critiche puntuali del capitalismo maturo e della società di massa, della società dei consumi che erano estranee a una cultura marxista tradizionale e allo storicismo del gruppo dirigente del Pci.

Per Magri, grazie alla varietà dei suoi riferimenti teorici, la politica era dunque progetto, competizione di valori, aspirazione a nuovi modelli di organizzazione sociale, analisi di fase. Da qui la sua opposizione al «compromesso storico», che invece di lavorare al superamento e alla scomposizione dell’unità politica dei cattolici nella Dc, finiva per consolidare proprio quell’unico contenitore rendendo immobile una componente importante della società italiana. Il Pdup, il partito di cui fu segretario, racchiudeva tutte queste ispirazioni mai minoritarie in una esperienza collettiva.

Il libro di Oggionni, con prefazione di Luciana Castellina e post-prefazione di Famiano Crucianelli, contiene inoltre un inedito: si tratta della relazione che Magri tenne a Marzabotto nel giugno 2010 sulla storia e le prospettive dei comunisti italiani. A partire dal suo volume Il sarto di Ulm, è una disamina appassionata delle questioni che si erano aperte a partire dal 1989: contiene il consiglio a tenere lo sguardo costantemente in alto, rivolto «a un futuro lontano e a una storia straordinaria». Lui era intanto tornato nel Pci nel 1984, uscendo dal Pds nel 1991 non rinunciando alla ricerca e all’azione politica.

Per concludere, Magri ha insegnato alle generazioni che hanno partecipato alla vita del Manifesto, del Pdup e in generale della sinistra, un’idea peculiare della politica: occorre avere un pensiero critico sulla fase storica che si vive e sulla memoria del passato unendoli in un progetto sociale che deve prefigurare una alternativa al capitalismo nell’economia e pure nei valori individuali, collettivi. La sinistra che ci serve, anche ai nostri giorni, è quella capace di una rilettura critica della propria storia e di una moderna critica al capitalismo.

Il Manifesto – 3 marzo 2021

mercoledì 17 marzo 2021

La scomparsa dei riti e la solitudine narcisistica dell'uomo contemporaneo

 

Byung-Chul Han, nato a Seul, docente di Filosofia e Studi Culturali alla Universität der Künste di Berlino, è considerato uno dei più interessanti filosofi contemporanei. La sua riflessione verte principalmente sulla perdita del senso di comunità che ha come principale conseguenza l'isolamento narcisistico del singolo. Il qui e ora diventa l'unica dimensione possibile del vivere, così come la ricerca incessante di nuovi stimoli. Il tutto finalizzato alla produzione di sempre nuovi bisogni e dunque di nuove merci consumabili. Il consumo compulsivo diventa fonte di un benessere illusorio perché destinato a produrre sempre nuovi desideri. L'insoddisfazione, la solitudine interiore, la perdita di significato del vivere, un narcisismo estremo diventano gli elementi fondanti dell'esistenza. L'uscita da questa condizione estrema di alienazione consiste per il filosofo nella riscoperta del simbolo e del rito come elementi costitutivi centrali di ogni comunità. Byung-Chul Han ci addita questo percorso in un libro, non facile, ma affascinante ed estremamente ricco di stimoli. Ne proponiamo una sintesi delle prime pagine.

G.A.


Byung-Chul Han

La scomparsa dei riti


I riti sono azioni simboliche. Tramandano e rappresentano quei valori e quegli ordinamenti che sorreggono una comunità. Creano una comunità senza comunicazione, mentre oggi domina una comunicazione senza comunità. A costituire i riti è la percezione simbolica. Il simbolo (dal greco symbolon) indica originariamente il segno di riconoscimento tra ospiti (tessera hospitalis). L’ospite spezza a metà una tavoletta d’argilla e ne dà un pezzo all’altra persona in segno di ospitalità. In tal modo il simbolo serve per il riconoscimento. (...)

Il riconoscere vede il permanente nel fuggevole. La percezione simbolica, intesa come riconoscimento, percepisce ciò che dura: il mondo viene liberato dalla propria contingenza e ottiene un che di permanente. Oggi il mondo è assai povero di simboli: i dati e le informazioni non possiedono alcuna forza simbolica, per cui non consentono il riconoscimento. Nel vuoto simbolico si perdono quelle immagini e quelle metafore capaci di dare fondamento al senso e alla comunità, stabilizzando la vita. L’esperienza della durata si attenua, mentre la contingenza aumenta radicalmente. I riti si lasciano definire nei termini di tecniche simboliche dell’accasamento: essi trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa, fanno del mondo un posto affidabile. Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio. Rendono il tempo abitabile, anzi lo rendono calpestabile come una casa. Riordinano il tempo, lo aggiustano. (...)

Oggi al tempo manca una struttura stabile. Non è una casa, bensí un flusso incostante: si riduce a una mera sequenza di presente episodico, precipita in avanti. Nulla gli offre un sostegno, e il tempo che precipita in avanti non è abitabile. I riti stabilizzano la vita.(...) L’odierna coazione a produrre sottrae alle cose la loro resistenza: essa distrugge consapevolmente la durata allo scopo di produrre di piú, di costringere a un maggior consumo. L’indugiare, d’altro canto, presuppone cose che durano; se le cose vengono solo usate e consumate, ecco che indugiare diventa impossibile. E dal momento che la stessa coazione a produrre destabilizza la vita smontando ciò che dura nella vita, essa distrugge anche la resistenza della vita, sebbene quest’ultima si allunghi. (...)

Le pratiche rituali fanno sí che ci rapportiamo armoniosamente non solo con le altre persone, ma anche con le cose: (...)

Oggi non consumiamo solo le cose, bensí anche le emozioni di cui si fanno portatrici. Le cose non si possono consumare senza fine, le emozioni sí. Cosí esse aprono un nuovo, infinito campo di consumo. L’emotivizzazione della merce e l’estetizzazione che l’accompagna sono sottoposte alla coazione a produrre; devono aumentare il consumo e la produzione. Cosí facendo, l’estetico si fa colonizzare dall’economico. Le emozioni sono piú fuggevoli delle cose, per cui non stabilizzano la vita. Inoltre, nel consumare un’emozione non ci si rapporta alle cose, ma solo a se stessi. Si cerca un’autenticità emotiva. In tal modo il consumo dell’emozione rafforza l’autoreferenzialità narcisistica. Il rapporto con il mondo, che le cose dovrebbero garantire, si perde sempre piú. Anche i valori fungono oggi da oggetto del consumo individuale, diventano a loro volta merce. Valori come la giustizia, l’umanità o la sostenibilità vengono sfruttati economicamente. “Cambiare il mondo bevendo tè”: ecco lo slogan di un’impresa di commercio equosolidale. Cambiare il mondo mediante il consumo – ovvero: la fine della rivoluzione. Di vegan esistono anche scarpe e vestiti, e chissà, forse arriveranno persino gli smartphone. Il neoliberismo sfrutta la morale da vari aspetti. I valori morali vengono consumati quali tratto distintivo. Vengono registrati sull’ego-account, il che accresce l’autostima. Essi fanno aumentare un narcisistico rispetto di sé. Tramite i valori non si fa riferimento alla comunità, bensí al proprio ego. Con il simbolo, con la tessera hospitalis, gli ospiti sigillano il loro legame. La parola symbolon è inserita nel medesimo orizzonte di significato della relazione, della totalità e della salvezza. Secondo il mito che Aristofane racconta nel Simposio di Platone, originariamente l’uomo era una creatura sferica con due volti e quattro gambe. Visto che era troppo esuberante, Zeus lo tagliò in due per indebolirlo. Da allora l’uomo è un symbolon che si strugge per l’altra metà, per una totalità salvifica. Cosí, in greco “mettere insieme” si dice symballein. I riti sono, in questa accezione, anche una pratica simbolica, una pratica del symballein, in quanto riuniscono le persone e creano un legame, una totalità, una comunità. Oggi il simbolico inteso come medium della comunità scompare a vista d’occhio. La desimbolizzazione e la deritualizzazione si presuppongono a vicenda. (…)

La scomparsa dei simboli rimanda alla crescente atomizzazione della società. Al contempo, la società diventa sempre piú narcisistica.(...)

Nell’epoca attuale la percezione simbolica scompare sempre piú a favore di una percezione seriale incapace di esperire la durata. La percezione seriale, quale presa di coscienza avanzata del nuovo, non indugia. Anzi, si affretta da un’informazione all’altra, da un evento all’altro, da una sensazione all’altra senza mai giungere a una conclusione. Oggi le serie sono cosí amate probabilmente perché corrispondono all’abitudine della percezione seriale che, sul piano del consumo mediale, conduce al binge watching, al guardare fino a cadere in coma. Mentre la percezione simbolica è intensiva, la percezione seriale è estensiva, e per via della sua estensità porta con sé un’attenzione piatta. L’intensità, al giorno d’oggi, cede ovunque il passo all’estensità. La comunicazione digitale è una comunicazione estensiva: non produce relazioni, solo connessioni. Il regime neoliberale forza la percezione seriale e rafforza l’attitudine al seriale. Cancella consapevolmente la durata per costringere a un maggior consumo. Il costante update, che è arrivato a riguardare tutti gli ambiti della vita, non consente alcuna durata, alcuna conclusione. La coazione permanente a produrre conduce a un disaccasamento (Enthausung), che rende la vita piú contingente, effimera e incostante, mentre l’abitare necessita della durata. Il disturbo da deficit di attenzione scaturisce da un incremento patologico della percezione seriale. La percezione non conosce quiete, disimpara a indugiare. La profonda attenzione, in quanto tecnica culturale, si costruisce proprio a partire dalle pratiche rituali e religiose. Non è un caso che la parola religione derivi da relegere, prendere nota. Ogni pratica religiosa è un esercizio d’attenzione, e il tempio è un luogo di profonda attenzione. (…)

Nei dispositivi neoliberali come l’autenticità, l’innovazione o la creatività è insita una coercizione permanente verso il nuovo. Ma, in fin dei conti, essi producono solo variazioni dell’Eguale. Il vecchio, ciò che è stato, che permette una ripetizione appagante, viene rimosso in quanto si contrappone alla logica proliferante della produzione. Le ripetizioni tuttavia stabilizzano la vita, il loro tratto essenziale è l’accasamento. Il nuovo si appiattisce rapidamente diventando routine, è una merce che si consuma e riaccende il bisogno di nuovo. La coazione a dover respingere tutto ciò che è routine produce altra routine. Nel nuovo è quindi insita una struttura temporale che sbiadisce presto in routine, senza consentire alcuna ripetizione appagante. La coazione a produrre in quanto coazione verso il nuovo non fa perciò che incrementare il pantano della routine. Per sfuggirle, per sfuggire al vuoto, ecco che consumiamo ancora piú cose nuove, nuovi stimoli ed esperienze. È proprio il senso del vuoto a trainare la comunicazione e il consumo. Il “vivere intenso” come da pubblicità del regime neoliberista altro non è che un consumo intenso. Dinanzi all’illusione del “vivere intenso” bisogna riflettere su un’altra modalità di vita, piú intensa dell’incessante consumare e comunicare. I riti creano una comunità della risonanza capace di armonia, di un ritmo comune: I riti creano assi di risonanza consolidati in chiave socioculturale, lungo i quali sono esperibili relazioni di risonanza verticale (verso gli dei, il cosmo, il tempo, l’eternità), orizzontale (nella società civile) e diagonale (in rapporto alle cose). Senza risonanza si viene ributtati in se stessi, si viene isolati. Il crescente narcisismo si oppone all’esperienza risonante. La risonanza non è un’eco del sé, le è anzi insita la dimensione dell’Altro, essa significa armonia. La depressione nasce al punto zero della risonanza. L’odierna crisi della comunità è una crisi della risonanza: la comunicazione digitale è costituita da camere di riverbero nelle quali si sente soprattutto la propria voce mentre si parla. I like, i friend e i follower non preparano alcun terreno risonante, rafforzano solo l’eco del sé. (...)

La digitalizzazione, da questo punto di vista, indebolisce il legame comunitario poiché da essa emana un effetto decorporeizzante: la comunicazione digitale è una comunicazione decorporeizzata. Nelle azioni rituali rientrano anche i sentimenti, ma il loro soggetto non è l’individuo per sé, isolato. Nel rito funebre, il lutto rappresenta un sentimento oggettivo, collettivo, è impersonale. I sentimenti collettivi non hanno nulla a che vedere con la psicologia individuale. Nel rito funebre, è la comunità il vero soggetto del lutto: dinanzi all’esperienza della perdita, è essa stessa che se lo impone, e questi sentimenti collettivi la consolidano. La crescente atomizzazione della società riguarda anche il suo equilibrio emotivo. I sentimenti comunitari si formano sempre piú di rado. In compenso, impulsi e ardori passeggeri, caratteristici di un individuo isolato, imperversano. Al contrario degli ardori e degli istinti, i sentimenti possono essere comunitari. La comunicazione digitale è in gran parte guidata dagli impulsi, ne favorisce l’immediato sgombero. Twitter si rivela un medium degli impulsi, e la politica che si basa su di esso è una politica impulsiva: la politica è ragione e mediazione, ma la ragione, che possiede una grande intensità temporale, oggi cede sempre piú il passo a impulsi momentanei.


Byung-Chul Han
La scomparsa dei riti
Una topologia del presente
Edizioni Nottetempo, 2021
15 euro

Se la Bibbia induce in tentazione


Novità in libreria. I peccati della Bibbia di John Shelby Spong, una riflessione su come una lettura acritica e atemporale dei libri sacri possa indurre alla violenza.

Giorgio Amico

Se la Bibbia induce in tentazione

«E non indurci in tentazione» recitava la vecchia versione del Padre nostro ora modificata in «non abbandonarci alla tentazione». Ma se Dio non può indurci in tentazione, lo può fare la sua parola così come riportata nei libri sacri. E non è un problema di sole formule di preghiera.  

E' da pochi giorni nelle librerie, nella bella traduzione di Paolo Casciola che contrasta con la sciatteria sempre più diffusa nel mondo editoriale italiano , il volume I peccati della Bibbia di John Shelby Spong, vescovo episcopaliano emerito di Newark, già docente a Harvard e figura di spicco della riflessione teologica nel mondo anglosassone, conosciuto anche da noi grazie all'impegno dell'editore Roberto Massari, unico nel campo dell'editoria militante di sinistra a dedicare un'intera collana alla riflessione su temi attinenti il dato religioso.

A sgombrare il campo da possibili equivoci, chiariamo subito che il volume non tratta dei peccati frutto del comportamento umano, ma di quelli indotti da una lettura acritica e dogmatica del testo sacro.

«Per peccati della Bibbia – scrive il vescovo americano – intendo quei terribili testi che in tutta la storia cristiana sono stati citati per giustificare un comportamento che viene oggi universalmente riconosciuto come malvagio... Testo dopo testo, cercherò di disarmare le parti del racconto biblico che sono state utilizzate nella storia per offendere, denigrare, opprimere e persino uccidere. Inizierò col demolire le storie d'orrore della Bibbia. Ma la distruzione non è il mio obiettivo immediato né il mio scopo finale. Più d'ogni altra cosa intendo offrire ai credenti una nuova via d'accesso al racconto biblico, un nuovo modo di leggere e di ascoltare quest'antica narrazione».

L'autore, l'abbiamo già detto, è un vescovo episcopaliano, ma i quesiti che pone interrogano da vicino anche la Chiesa cattolica. In realtà il testo di Spong, che fa seguito ad altri cinque volumi sempre editi da Massari, non si rivolge solo ai credenti, ma a chiunque ancora individui in un comportamento etico la base dell'agire individuale e collettivo, a partire dall'agire politico. E ciò rende il libro una proposta di riflessione rivolta a tutti, credenti e no.

Esemplare il passo dedicato all'impulso che da una lettura acritica e astorica della bibbia viene all'omofobia, ancora così diffusa soprattutto nel mondo cattolico:

«L'orientamento sessuale non è una scelta morale. È qualcosa di cui la gente acquisisce consapevolezza. Pertanto non ne è moralmente colpevole. I capitoli 18 e 20 del levitico sono semplicemente sbagliati. Sono moralmente inadeguati perché si basano sull'ignoranza. Dovrebbero essere considerati, così come molte altre cose nel levitico e nel resto della Torah, come tappe dello sviluppo umano che abbiamo superato, perché la nostra educazione è andata oltre, e che perciò abbiamo abbandonato. Il fatto di citare questi testi per giustificare i nostri pregiudizi e persino la nostra violenza distrugge l'essenza stessa di ciò che i cristiani dicono di credere riguardo a Dio. Il Dio che è amore, il Dio che attraverso le parole di Gesù ha promesso una vita più ricca, la descrizione del modo in cui gli altri riconosceranno il nostro desiderio di seguire Gesù “per amore”: tutto ciò verrà profanato se vengono legittimati i capitoli 18 e 20 del Levitico. È giunto il momento per tutti i cristiani di decidere se una persona può seguire Cristo continuando a mantenere i propri pregiudizi omofobi. Io non credo che ciò sia possibile. Tutti noi, nel profondo, sappiamo che è così. La decisione da prendere non è quella di mantenere entrambe le cose, bensì di scegliere tra l'una o l'altra. Possiamo seguire Cristo oppure mantenere i nostri pregiudizi. Non è possibile alcun compromesso... Giustificare l'omofobia distruttiva di alcuni capi e membri della Chiesa al fine di “preservare l'unità della Chiesa” non è più un argomento moralmente difendibile da parte degli esponenti della gerarchia ecclesiastica. Una Chiesa unificata nei pregiudizi non può in alcun modo essere il Corpo di Cristo.»

John Shelby Spong

I peccati della Bibbia
Traduzione di Paolo Casciola
Introduzione e cura di Don Ferdinando Sudati
Massari Editore, 2021
448 pagine
22 euro


martedì 16 marzo 2021

Avanguardia operaia, una storia dimenticata

 


 «Volevamo cambiare il mondo», un volume a più voci a cura di Roberto Biorcio e Matteo Pucciarelli, per Mimesis. La storia della formazione della nuova sinistra attraverso le voci dei protagonisti

Enrico Pugliese

Avanguardia operaia, una storia dimenticata ma non solo milanese

Il libro a cura di Roberto Biorcio e Matteo Pucciarelli, Volevamo cambiare il mondo. Storia di Avanguardia Operaia (1968-1977), (Mimesis, pp. 302, euro 20) racconta la vita di questa organizzazione della nuova sinistra dalla sua nascita fino alla sua scissione e alla sostanziale confluenza della parte minoritaria nel Pdup-Manifesto. Il volume è composto da una serie di contributi che toccano tematiche o eventi specifici della vita del gruppo, con un saggio iniziale di Biorcio che ne presenta il profilo, l’evoluzione e il contributo dato alle mobilitazioni e alle lotte dell’epoca. Non si può negare un tono autocelebrativo che pervade gran parte del libro, ma questo è perdonabile tanto più che non si tratta del lavoro di storici.

AVANGUARDIA OPERAIA (Ao) nasce a Milano dove avrà il suo maggior radicamento e la sua sede nazionale. A Milano vivono inoltre i suoi dirigenti più importanti e c’è la massima concentrazione di militanti e iniziative. Ma forse è proprio questo aspetto che ha influito sulla scarsa conoscenza del gruppo alla quale il libro intende rimediare. Anche la documentazione interna è scarsa, a parte l’archivio Marco Pezzi di Bologna, tanto che nella prefazione Giovanna Moruzzi, che ha preso l’iniziativa della raccolta di interviste su cui si basa il libro, scrive: «Su Avanguardia Operaia nessuno ha scritto niente, anzi Wikipedia riferisce solo informazioni ricavate dal processo Ramelli».

Eppure si è trattato di un’organizzazione importante di livello nazionale. Basti pensare che, a parte Il manifesto e Lotta Continua, è stato l’unico gruppo della nuova sinistra ad avere, sia pure per non molti anni, un quotidiano nazionale (Il Quotidiano dei lavoratori) e che riuscì ad aggregare intorno a sé moltte realtà locali anche a Torino, Roma e soprattutto nel Mezzogiorno. Alla sua fondazione concorrono tre soggetti: militanti comunisti insoddisfatti della linea del Pci, operai di fabbriche in lotta , spezzoni del movimento degli studenti non solo universitari ma anche medi provenienti da istituti prevalentemente tecnici.

La concezione dell’organizzazione era di tipo leninista a partire dal centralismo democratico previsto dallo statuto e richiamato anche nella tessera dell’organizzazione. Ma c’è una grande differenza tra il leninismo di Ao e le organizzazioni che si autodefinivano «marxisti-leninisti»: la critica radicale allo stalinismo e il non ritenersi il nuovo partito rivoluzionario. D’altronde nel corso del tempo il rigore «leninista», proprio per effetto della crescita dell’organizzazione, era andato affievolendosi. Invece, dalla tradizione comunista Avanguardia Operaia aveva ereditato l’importanza data alla formazione dei militanti e alla «scuola quadri». Si studiava molto: i classici del marxismo e del leninismo ma anche testi più adeguati ai tempi da Gramsci ad Althusser, come nota Vincenzo Vita nel libro.

Il bel saggio di Franco Calamida, che parte dalla descrizione del clima politico alla fine degli anni ’60 quando «spirava un vento generoso» e nelle fabbriche nascevano organismi di base, è invece dedicato ai Cub e al loro ruolo nelle lotte operaie degli anni ’70. Questi erano costituiti «da gruppi di lavoratori e lavoratrici che si univano, distinti dalle strutture sindacali tradizionali, per perseguire obiettivi comuni spontaneamente o a seguito di un intervento dall’esterno della fabbrica». Determinante fu il ruolo di Ao nel realizzare le condizioni per lo sviluppo del movimento dei Cub dando ad essi un’impronta unitaria in un periodo in cui le condizioni di lavoro diventavano sempre più dure per l’intensificazione dello sfruttamento. «Era cambiata l’organizzazione del lavoro in fabbrica e il sindacato non rispondeva ai nuovi bisogni. Noi abbiamo cercato di capire se fosse possibile creare un gruppo di operai che denunciasse le condizioni di lavoro, insomma fare ciò che il sindacato non vedeva e non faceva».



A QUESTA PRIMA FASE di rapporto distante se non conflittuale con il sindacato segue una situazione nuova quando l’aspetto unitario della rappresentanza è fatto proprio dal sindacato con l’introduzione dei consigli dei delegati. Ciò portò a un’evoluzione del ruolo dei Cub che non dovevano più svolgere un’azione di supplenza nei confronti del sindacato ma essere elementi di attivazione politica cercando di influenzarne le scelte: nei Cub si discutevano le tematiche specifiche della fabbrica ma anche questioni politiche. Alla loro crescita e diffusione a Milano, Torino e Venezia corrispondeva la crescita di Avanguardia Operaia.

Al di là della crisi dell’organizzazione, alle rotture interne e ai loro esiti, cui anche nel libro è dato giustamente scarso rilievo, si può concludere tornando alla dimensione milanese della presenza di Ao. In quel territorio, il lavoro non si esauriva nei Cub e nelle fabbriche. Altrettanto importante fu l’intervento nelle lotte per la casa nelle quali erano spesso coinvolti gli stessi militanti operai. Rilevante e molto particolare fu l’impegno a livello culturale con i Circoli della Comune, centri di sperimentazione artistica, soprattutto teatrale, molto vicini al gruppo.

QUESTA CONCENTRAZIONE fu un elemento di forza dell’organizzazione che però non riuscì mai a bilanciare la generale ottica «milanocentrica» o quanto meno «nordista»: un limite che si riflette nel libro ma che fu anche proprio della dirigenza storica di Ao. Eppure l’esperienza dei Cub toccò fabbriche e situazioni anche nel Mezzogiorno, ad esempio i braccianti in Campania. E lo spirito dei Cub, di stimolo e non di alternativa ai partiti e ai sindacati, permeò l’intervento in diverse lotte sociali e proletarie. Come il movimento dei disoccupati organizzati o il Comitato degli handicappati organizzati a Napoli.

Colpisce infine nel libro la mancanza di un riferimento al bel romanzo autobiografico di Bruno Arpaia (Il passato davanti a noi) sulla sezione di Avanguardia operaia di Ottaviano, alle falde del Vesuvio.


Il manifesto – 13 marzo 2021

martedì 9 marzo 2021

L'angolo di Bastian Contrario: Stalin, Kant e il popolo bambino


L'angolo di Bastian Contrario: Stalin, Kant e il popolo bambino

Un amico nell'anniversario della morte di Stalin (5 marzo 1953) ha sviluppato su facebook una serie di considerazioni sul culto del capo e il mito del padre dei popoli. Considerazioni totalmente condivisibili perché lo stalinismo fu con il nazismo uno dei due grandi orrori del secolo scorso. E non ci sono se e ma che tengano. Lo stalinismo è stato una barbarie senza fine, ancora più ripugnante, se si pensa che, mentre i nazisti uccidevano in nome della superiorità di una razza e di una nazione, gli stalinisti lo facevano in nome dell'eguaglianza e della libertà degli uomini. Per questo, non ci stanchiamo di ripetere che la memoria non può essere a senso unico e che non si possono distinguere le vittime secondo le ideologie. I milioni di morti nel Gulag ci interrogano muti come i milioni di morti nei lager. A tutti dobbiamo la stessa risposta: "mai più".

Ma i nostalgici di Stalin, che ancora ci sono, non suscitano lo stesso sdegno di quelli di Hitler.Stalin ha vinto la guerra e i vincitori, si sa, hanno sempre ragione. Che poi quella guerra avesse anche contribuito a scatenarla, alleandosi nel 1939 con Hitler per spartirsi la Polonia, questo interessa poco. Stalin, dicono, nonostante tutto ha contribuito a sconfiggere il nazismo e a ”liberare” l'Europa.

Chiedetelo agli uomini e alle donne dell'Est, ai polacchi, agli ungheresi, ai lituani, agli estoni, agli slovacchi, che hanno avuto il tallone di ferro sovietico premuto sul collo per quasi mezzo secolo, se Stalin è stato un liberatore. Eppure qualcuno si stupisce che in quei paesi il termine stesso “comunismo” sia impronunciabile, ricordo di un periodo terribile per la storia di quei popoli.

E sono gli stessi che, giustamente, considerano impronunciabile in Italia il termine “fascismo” perché ricorda venti anni di oppressione del popolo italiano.  Ma ai popoli dell'Est questo diritto alla memoria non è riconosciuto, perché il comunismo è un'altra cosa.

Certo, il comunismo è davvero un'altra cosa. Lo sappiamo bene. Ma è in nome del comunismo che l'imperialismo sovietico nel '48 a Praga, nel '53 a Berlino Est, nel '56 a Budapest, nel '68 di nuovo a Praga e nel '80 di nuovo in Polonia ha mandato i carri armati a schiacciare la rivolta di quella classe operaia di cui si  riteneva il solo autentico rappresentante.

Eppure spesso sono intellettuali, uomini di cultura, per i quali certi concetti dovrebbero essere elementari. Primo fra tutti che non esistono dittature buone, che i mezzi non possono essere il contrario dei fini. Se, come pensavano Marx e Engels, comunismo significa rendere l'uomo finalmente uomo e non semplice mezzo di produzione,  allora i carri armati, la polizia segreta e i campi di lavoro cosa c'entrano?

A questi intellettuali, a questi uomini di cultura, che ci guardano straniti quando diciamo queste cose e immediatamente iniziano a snocciolare i più vari “si va bene, però...”, ricordiamo quanto scriveva nel 1793 Kant a proposito della “felicità” donata dall'alto dal sovrano “padre del suo popolo”. E in questo, e non solo, Stalin è stato l'ultimo degli zar, sicuramente il più spietato.

«Nessuno mi può costringere a essere felice a modo suo (come egli si immagina il benessere degli altri esseri umani), ma a ognuno è permesso cercare la felicità per la via che a lui stesso pare buona, se solo non infrange la libertà altrui (cioè questo diritto dell'altro) di perseguire un fine simile, che possa consistere insieme con la libertà di ognuno secondo una possibile legge universale.

Un governo, che fosse istituito sul principio della benevolenza nei confronti del popolo come quella di un padre nei confronti dei suoi figli, cioè un governo paterno (imperium paternale), ove dunque i sudditi, come figli minorenni, che non sanno distinguere che cosa per loro sia veramente utile o dannoso, sono necessitati a comportarsi in modo meramente passivo, per attendere solo dal giudizio del capo dello stato come debbano essere felici, e solo dalla sua benevolenza, che egli anche lo voglia, è il più grande dispotismo pensabile.»

lunedì 8 marzo 2021

Buon 8 marzo, giornata di lotta non festa. Pane e rose!

 


Buon 8 marzo, giornata di lotta non festa.

Vogliamo il pane, ma anche le rose cantavano le operaie tessili di Lawrence (USA) nel 1912. La storia è nota, meno noto che fossero in maggioranza giovani emigrate italiane.



Mentre marciamo e marciamo nella bellezza del giorno,

un milione di cucine annerite, mille lucernari di fabbriche grige,

sono inondate da tutto il fulgore che un sole improvviso dischiude,

per chi ci ascolta cantiamo: "Pane e rose! Pane e rose!"

Mentre marciamo e marciamo, noi ci battiamo anche per gli uomini,

perché sono figli di donna, e noi le loro madri.

Le nostre esistenze non saranno sfruttamento

dalla nascita sino alla tomba.

I cuori patiscono la fame come i corpi,

dateci il pane, ma dateci anche le rose!

Mentre marciamo e marciamo, innumerevoli donne morte,

piangono, attraverso il nostro canto,

il loro antico lamento per il pane.

Il loro spirito stremato conobbe poca arte,

poca bellezza e poco amore.

Si, è per il pane che combattiamo,

ma noi combattiamo anche per le rose!

Mentre marciamo e marciamo, noi portiamo giorni grandiosi.

La riscossa delle donne significa la riscossa dell'umanità.

Non più chi si massacra di lavoro e chi ozia,

i tanti che soccombono alla fatica e i pochi che riposano,

ma la condivisione delle glorie della vita: pane e rose!

Pane e rose!


Orto, la passione della tradizione

 

    Mirò, Orto con asino

Coltivare un orto un tempo per molte famiglie contadine dell'entroterra era una necessità, quasi uno strumento di sopravvivenza. Oggi, come dimostra questo intervento di un caro amico apparso su un giornale che esce a Piana Crixia, può significare mantenere una tradizione , fare cultura, ma anche un modo per restare umani in un mondo dove tutto è ormai ridotto a livello di spettacolo massmediatico. Un'ultima parola sull'importanza fondamentale dei piccoli notiziari locali che cercano di mantenere insieme una comunità e il senso di appartenenza ad un luogo e a una storia che è fatta prima di tutto di persone, uomini e donne che lì sono vissute e vivono. Perché la memoria è preziosa e non va dispersa.


Luigi Sormano

Orto, la passione della tradizione


Con l’approssimarsi della fine dell’inverno ed il ritorno delle belle stagioni arriva anche il momento di riprendere l’attività negli orti. Per noi che abitiamo nelle campagne e discendiamo da generazioni di contadini la coltivazione di un appezzamento di terreno, piccolo o grande che sia, ad orto è quasi un atavico obbligo. Detto da uno come me, che appartengo alla esigua schiera di quelli che l’orto non lo coltivano, la cosa ha quasi il sapore di bestemmia, ma per la maggior parte delle altre persone questa specie di obbligo morale trova poi consequenzialità nell’impegno che profondono nel curare, a volte in modo quasi maniacale, l’orto di famiglia.

Non nascondo che a volte mi faccio prendere da una specie di senso di colpa e sono tentato di cedere alla tentazione di rientrare a far parte della congrega degli ortolani, poi però, regolarmente, la razionalità torna a prevalere e lascio perdere, seppur sovente con un sottile senso di rimpianto. Ho ceduto le armi, pardon la zappa, da ortolano da ormai oltre vent’anni, allorquando cambiai casa e lasciai il Pontevecchio dove mi prendevo cura di un bel terreno adibito, appunto, ad orto. Le condizioni erano ottimali, il terreno pianeggiante e fertile, anche per le abbondanti concimazioni, leggermente sabbioso e morbido, con acqua in abbondanza, un vero spasso che mi facilitava il compito, avevo addirittura un piccolo trattorino completo di aratro e fresa con il quale mi divertivo senza faticare. Nella nuova casa dove mi trasferii ed ancora dimoro, pur essendoci una grande quantità di terreno, lo stesso non era molto adatto, più argilloso, compatto e pietroso, insomma decisamente più ostile del precedente, questo avrebbe significato più tempo, maggior fatica e meno risultati, ragione per la quale, considerando anche che, in allora essendo Sindaco il tempo a mia disposizione si era drasticamente ridotto, mi rassegnai a rinunciare ed a dedicarmi soltanto alla cura dei miei alberi da frutta, del prato e delle altre piante che vi dimorano.

Rimane un sapore dolciastro di rimpianto, la nostalgia di grufolare nel terreno assaporandone gli odori e le sensazioni. Oggi, per quasi tutti coloro che lo coltivano, l’orto è un vezzo, un hobby, un modo sano ed anche divertente di impegnare energie e tempo, argomento di discussioni e terreno di sottili sfide non dichiarate ma sempre aleggianti, motivo di orgoglio ma anche di sotterranea gelosia ed invidia. Nessuno tiene più un orto per mera necessità economica, può rappresentare un piccolo aiuto a risparmiare sulle verdure ma ha certamente perso la funzione di elemento strutturalmente importantissimo, per l’economia di una famiglia, che rivestiva ai tempi dei nostri nonni e padri allorquando rappresentava una risorsa dalla quale non si poteva prescindere. Adesso è prevalente piuttosto il desiderio di consumare un prodotto sicuramente più genuino, un qualcosa sul quale si è esercitato il controllo in tutte le fasi della crescita dalla nascita alla raccolta, il tutto condensato in un assunto che è un po' la parola d’ordine dei cultori dell’orto: “almeno so cosa mangio”.

Ben diversa, come ricordato, la storia ai tempi dei padri e dei nonni, che peraltro ha ancora visto protagonisti tutti quelli della mia generazione sino a giovinezza inoltrata, lasciandoci una memoria fondamentale della nostra cultura contadina che a saperla leggere diventa storia di civiltà. L’orto era strumento di nutrizione perché di lì arrivava la maggior parte di tutto quello che si mangiava, ma anche d’economia, seppur minuscola, perché fonte di qualche piccola entrata per la vendita di qualche prodotto. Tutte le famiglie che vivevano in campagna avevano l’orto, era imprescindibile, il suo ciclo di vita non conosceva praticamente pause, la sua cura, articolata nelle diverse attività si snodava per tutto l’anno, l’impegno che richiedeva era continuativo e costante. Non impegnava soltanto gli uomini, anche le donne sovente partecipavano, e non solo per la preparazione e lavorazione dei prodotti che poi venivano conservati per le stagioni che sarebbero seguite, ma anche per le coltivazioni vere e proprie. Non dimentichiamo d'altronde che l’agricoltura nasce al femminile, nelle civiltà primordiali l’uomo si occupava della caccia e furono le donne che iniziarono a curare e coltivare la terra ponendo le basi per quella che sarebbe diventata l’attività che avrebbe dato agli esseri umani la possibilità di sopravvivere e svilupparsi nei millenni. Ma questo per cortesia non ricordiamolo alla Signora Boldrini altrimenti sai che rompimento di marroni metterebbe in campo.

L’orto non era un pezzo di terra qualunque, era un tempio, regolato da comportamenti quasi rituali ed in qualche misura anche scaramantici che ne sancivano una sacralità che lo elevavano al di sopra degli altri terreni. Come tutti quelli della mia età ho ben scolpito nella memoria cosa si faceva nell’’orto e come lo si faceva, una traccia profonda, incancellabile. L’orto che avevamo era collocato nella parte più bassa della frazione, al di fuori dell’abitato, là dove il terreno scende alla quota del fiume e diventa pianeggiante, era la zona dove tutti quella della frazione dei Pera avevano il loro orto, terra adatta, scura, friabile, residuo delle esondazioni delle acque della Bormida, costeggiava un piccolo torrente che nel pieno dell’estate era di norma in secca, mentre ora lo è quasi per la maggior parte dell’anno, facilmente innaffiabile per la presenza di numerosi pozzi d’acqua sorgiva. Già, perché il primo presupposto per un orto è che ci sia la disponibilità di acqua sufficiente per supportare la crescita e sopravvivenza delle piante durante tutto il ciclo del loro sviluppo.

Gli orti erano sistemati uno di fianco all’altro, c’era quello dei miei zii, poi il nostro, a seguire quello della famiglia Lovesio Francesco poi quello di Lovesio Alberto ed infine, ma un po' più staccato, separato da qualche lingua di terreno, quello di Lovesio Giovanni. Quattro i pozzi, uno per noi e gli zii ed uno ciascuno per gli altri, pozzi non profondi, tre quattro metri al massimo, molto larghi e ricchissimi di acqua tutta sorgiva. Il sistema di prelevamento e sollevamento dell’acqua per irrigare era assicurato da una “bricula”, termine del nostro dialetto per identificare lo “shaduf”, attrezzatura utilizzata già dagli egizi ma della quale non esiste un termine italiano codificato. Il sistema è semplicissimo ma ingegnoso, un tronco d’albero molto robusto alto mediamente due metri e mezzo, veniva piantato in verticale a circa un paio di metri dal margine del pozzo, alla sommità veniva divaricato lasciando tra i due bracci una luce di una trentina di centimetri nella quale, tramite un piolo di legno inserito orizzontalmente, era collocato a sbalzo un lungo palo, più sottile ovviamente della colonna verticale. All’estremità del palo che sbalzava in alto, sino ad arrivare con la sua verticale all’interno del pozzo, era fissata una corta catena o corda che all’altro capo veniva assicurata ad una pertica che pendeva sino a circa un metro da terra. Mentre all’estremità della pertica era fissato un gancio ad U l’estremità del palo che toccava terra veniva contrappesato fissando una pietra del peso di un grande secchio d’acqua. A questo punto era funzionante un sistema efficiente ed efficacissimo, la tecnicalità s’imparava per esperienza, ben saldi sulle gambe ci si piazzava sul bordo del pozzo, dove in quel punto di solito si metteva una grande pietra piatta e ruvida per evitare pericolosi slittamenti, s’inseriva un secchio nel gancio e con la forza delle braccia si tirava la pertica verso il basso del pozzo vincendo la forza del contrappeso. Quando il secchio arrivava a lambire il pelo dell’acqua si spostava lateralmente, con un piccolo movimento la pertica e subito dopo, in direzione opposta e nel senso dell’apertura del gancio, si operava uno strappo che contemporaneamente inclinava secchio, lo faceva immergere riempendolo e lo riportava alla superficie, a quel punto si allentava completamente la forza sulla pertica, pur mantenendone il controllo, ed il contrappeso tirava verso l’alto il secchio facendo scorrere la superficie levigata della pertica tra le mani senza sforzo. Prima che il palo contrappesato andasse a toccare terra dalla parte opposta al secchio, le braccia riprendevano il governo del meccanismo rallentando la corsa e vuotando il secchio.

L’operazione a descriverla sembra complicatissima ma in realtà, acquisiti i corretti automatismi, il tutto si svolgeva in pochi secondi e senza nessun problema. La manovra che richiedeva maggior attenzione ed abilità era quella dello strappo che faceva immergere il secchio e lo trascinava appena sotto il filo dell’acqua per riempirlo e poi farlo riemergere. Il secchio inclinato andava tenuto in tensione dalla forza di trascinamento in modo che il manico fosse pressato contro la gola del gancio ad U e ne venisse impedito lo sganciamento che avrebbe liberato il secchio causandone l’affondamento in fondo al pozzo. Non dico che non successe mai, capitava, specialmente nella fase d’apprendimento, le cause potevano essere una profondità eccessiva dell’immersione o una scarsa velocità nella fase subacquea ma sempre con lo stesso risultato. L’eventuale recupero non era comunque molto complicato, esisteva un attrezzo specifico “i granfi”, costituito da un serie di braccetti armati di numerosi gancetti a forma di amo, veniva fissato sul gancio della pertica e calato sul secchio che in qualche punto veniva agganciato e poi riportato in superficie. Il “perdere” il secchio generava comunque sempre qualche rossore da una parte e sorrisi sottilmente ironici dall’altra, un fallo in azione. Immagino una domanda scontata: ma se il problema era lo sgancio, perché non fissare, anche con un semplice fildiferro, il secchio al gancio? Bella domanda con due risposte, la prima molto razionale: si sarebbe perso troppo tempo, ogni volta il secchio si sarebbe dovuto legare e poi sciogliere per portare l’acqua dove serviva e successivamente rilegare ecc. Una perdita di tempo intollerabile per gente abituata a lavorare sodo. La seconda è più complessa, infatti l’acqua che veniva trasportata con i secchi dopo l’estrazione era solo la parte più piccola di quella che veniva utilizzata, la maggior parte veniva distribuita con un sistema d’irrigazione efficiente e pratico. Dalla colonna della “bricula” partiva un bel solco nel terreno, largo e ben arginato che correva al margine di tutto l’orto sino al suo limite, da questo solco, che aveva la funzione di dorsale partivano verticalmente tutti gli altri solchi che avevano la vera funzione irrigante e ai lati dei quali crescevano le piantine dei pomodori, peperoni, melanzane, sedani, cavoli, e tutti gli altri ortaggi coltivati a solco.

Bene, come funzionava il tutto? Premesso che all’inizio della dorsale, sotto la “bricula” veniva posto un canale di legno ottenuto svuotando la metà in verticale di un tronco d’albero che aveva la funzione di accelerare il flusso dell’acqua e facilitarne lo scorrimento, una persona si piazzava al pozzo ed incominciava ad estrarre acqua con la tecnica che abbiamo visto, ma quando il secchio arrivava fuori dal pozzo non veniva sganciato ma velocemente traslato, manovrando la pertica, sul bordo del troco svuotato facendolo poi inclinare e svuotare con un solo movimento. Questa operazione veniva eseguita in successione continua in modo molto rapido e questo consentiva di generare un abbondante e continuo flusso d’acqua che scorreva nella dorsale e veniva, partendo dall’ultimo solco d’irrigazione convogliato dove serviva. Visto che il secchio non si sarebbe sganciato per tutta la durata dell’operazione allora, ritornando alla domanda, perché non legarlo? All’inizio me lo chiesi anch’io, poi capii. Sarebbe stata l’ammissione di una difficoltà nello svolgere il lavoro, un dichiararsi meno sicuri ed abili. Come chiedere ad un vecchio acrobata di un circo di legarsi ad una fune di sicurezza. Orgoglio contadino, ecco perché a nessuno venne mai in mente di legare il secchio.

L’acqua all’orto veniva data di sera, al tramonto, ci si armava di secchio, zappa, a volte rastrello se si pensava servisse, e si partiva, i ragazzini erano in pantaloncini corti, gli adulti arrotolavano i calzoni sino al ginocchio, le donne al massimo fermavano le lunghe gonne, raccolte sotto il ginocchio, con qualche molletta da stendere, un grembiule che serviva per raccoglie la verdura completava l’abbigliamento. Via le scarpe, sarebbero state una zavorra infangata e fastidiosa, rigorosamente scalzi, sento ancora la sensazione di camminare sul terreno umido e morbido, a volte, durante l’irrigazione, si doveva correre nel solco pieno d’acqua per tamponare l’ingresso di qualche galleria che le talpe, attratte dal terreno morbido ed umido, scavavano nel terreno, con la testa della zappa si pressava il terreno sulla bocca della galleria e l’acqua riprendeva il cammino al quale era destinata. In quell’occasione si camminava nella fanghiglia, i piedi affondavano anche sino alle caviglie, il terreno vischioso e viscido lo sentivi penetrare attraverso le fessure tra le dita per poi riallargarsi sul dorso del piede, ma non era una sensazione spiacevole, anzi lo percepivi quasi come un qualcosa che ti metteva in una specie d’intimità con la terra, ti faceva sentire a tuo agio.

Mi rendo conto d’essermi troppo dilungato, era nelle mie intenzioni raccontare come in allora si coltivava, con vanga, zappa, rastrello, come di concimava, raccoglieva e conservava, come si svolgevano i lavori ed in quali tempi. Dalla preparazione delle sementi, alle piantine, alla semina a tutto il resto, troppe cose e non posso rubare troppo spazio al giornalino., Magari un’altra volta.

(Da: Piana Notizie. Passa parola!)


domenica 7 marzo 2021

Ricordo di Lino Meriggi

 


Ciao, Lino,

fratello mio,

camminare con te sui sentieri della vita è stato un privilegio. Mi hai insegnato che non esistono percorsi impossibili per chi abbia cuore puro e coraggio; che ci sono sempre, basta volerlo, le parole giuste per arrivare al cuore di un giovane. E volerlo significa prima di tutto essere coerenti, con sé stessi e con gli altri. Non si può predicare quello che non si vive, né chiedere agli altri di fare quello che noi per primi non siamo disposti a fare.

La tua coerenza mi mancherà, come le tue risate e le serate passate insieme con Vilma e Graziella a parlare di scuola e di politica, di figli e nipoti, ma soprattutto di scoutismo, la cosa che ci ha legato di più e che mi ha fatto capire che persona straordinaria fossi. Dovessi cercare una parola per definirti, la prima che mi verrebbe sarebbe accoglienza. La tua porta era sempre aperta e Graziella sempre disposta ad aggiungere un piatto in tavola. E questo perché fratellanza per te non era una parola, ma una scelta di vita che ha dato senso e significato a tutto quello che hai fatto, da insegnante e da capo scout.

Buona strada, fratello mio. Cammina tranquillo sul sentiero che hai appena intrapreso verso quegli alti monti lontani di cui parla la più bella delle canzoni che cantavamo attorno al fuoco.

Tuo fratello Giorgio

venerdì 5 marzo 2021

Kronstadt 1921-2021

 


100 ANNI FA, L’ULTIMA RIVOLUZIONE COMUNISTA DELLA STORIA: KRONŠTADT (marzo 1921) [1ª parte]

di Roberto Massari

La Terza rivoluzione russa (Kronštadt)

«1917-1919 Гг. Β здании Морcкого офицерского cобрания помещался и работал первый Совет рабочих, матросских и солдатских депутатов (B zdanii Morskogo ofitserskogo sobranija pomeščalsja i rabotal pervyj Sovet rabočich, matrosskich i soldatskich deputatov) [Anni 1917-1919. Nell’edificio dell’assemblea degli ufficiali della Marina ebbe la sede e lavorò il primo Soviet dei deputati operai, marinai e soldati]»

(epigrafe da me fotografata a Kronštadt nel 2014)

Era un giorno luminoso di primavera e mi aggiravo per le vie di Kronštadt nello stato d’animo del pellegrino che, percorsa la via Francigena, è finalmente arrivato alla tomba in cui s’illude che sia sepolto l’Apostolo Pietro. Ero in pellegrinaggio anch’io e m’illudevo o piuttosto speravo di trovare in quell’estrema insenatura del mar Baltico una scheggia di memoria della grande epopea lì vissuta nel 1921, novantatré anni prima. Sicché, quando giunsi alla palazzina un po’ malridotta in cui si era riunito il più combattivo e il più democratico soviet della storia, dovetti cedere all’emozione. Ma durò poco. Appena lessi l’epigrafe sul muro esterno mi trovai d’un tratto nella situazione opposta rispetto al pellegrino romeo: a lui volevano far credere che nella tomba sacra del cristianesimo la «cosa» c’era; a me invece volevano far credere che in quella tomba un po’ meno sacra del comunismo-leninismo la «cosa» non c’era mai stata.

Sulla lapide di granito, infatti, era inciso che il Soviet si era lì riunito dal 1917 al 1919. Se ne sarebbe dovuto dedurre, quindi, che dopo quella data esso fosse scomparso, volatilizzato nella storia.

Se si cancella in tal modo un biennio decisivo nella vita del Soviet di Kronštadt, tutto diventa più facile: nel 1921 lì non c’era stata alcuna rivolta dei lavoratori da domare, nessun soviet dei deputati operai, marinai e soldati da distruggere, nessuna opposizione alla dittatura bolscevica da decimare, nessun inizio di una nuova terza rivoluzione. Al massimo vi sarà stato un tentativo di putsch della controrivoluzione bianca.

Eppure i muri di quell’edificio avrebbero potuto raccontare tutt’altra storia. E lì a un tratto mi parve quasi di riascoltarla, con il vocìo e il trambusto provenienti dall’interno, da quella prima euforica assemblea in cui a Kronštadt si cominciò a mettere in pratica la democrazia diretta, per realizzare il sogno di una società egualitaria, più giusta e libera. Tutto prese il via nei saloni di quell’edificio che all’epoca avrà certamente avuto ancora una sua aristocratica bellezza: cominciò il primo marzo 1917, il giorno che vide l’elezione del «Comitato di Kronštadt del Movimento nazionale» (poi più semplicemente Comitato del Movimento) a base soprattutto militare; proseguì il giorno dopo con la nascita dell’Assemblea dei delegati dell’esercito e della marina. Al terzo giorno i due organismi si riunirono e per farlo scelsero come sede proprio il palazzo dell’Assemblea navale, ex circolo degli ufficiali di Kronštadt davanti al quale mi ero fermato. Il 5 marzo nasceva il Soviet dei delegati operai, mentre il 6 si istituiva la milizia cittadina e l’assemblea costitutiva del Soviet dava mandato per formare anche il Soviet dei soldati e marinai (con delegati di fanteria, artiglieria, genio, amministrativi e ovviamente marinai).

In pochi giorni le istituzioni della vecchia Russia zarista erano scomparse, mentre i rappresentanti locali del Governo provvisorio venivano a loro volta privati di ogni autorità e destituiti dalle loro cariche, anche se per lo più furono le cariche a scomparire prima dei funzionari. Nella prima settimana di marzo, Kronštadt aveva realizzato in pochi giorni il proprio Febbraio, dando avvio anche lì alla Seconda rivoluzione russa; ma in modo così rapido che il prezzo in vite umane pagato dalla vecchia guardia zarista finì con l’essere tutto sommato modesto, per i tempi che correvano: furono uccisi una cinquantina di ufficiali e una trentina fra poliziotti e spie, nessuna vittima tra i civili. 

(dal libro Lenin e l’Antirivoluzione russa, 2018, p. 368)

lunedì 1 marzo 2021

Ragionando di Guerra fredda

 


Anche questa breve storia della Guerra fredda fa parte del libro collettaneo sulla storia della seconda metà del Novecento, ancora in via di elaborazione.

Giorgio Amico

Ragionando di Guerra fredda

La principale conseguenza della Seconda guerra mondiale fu la radicale ridefinizione degli equilibri mondiali che risultavano ora incentrati sull'emergere, rispetto alla pluralità di potenze antecedenti la guerra, di due grandi nazioni con ambizioni di supremazia mondiale: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Nasceva un sistema di relazioni internazionali di tipo bipolare destinato a durare fino al crollo del sistema sovietico nel 1991.

Si trattava in realtà di un bipolarismo atipico sbilanciato a favore degli Stati Uniti, fortemente rafforzati dalla guerra sia sul piano economico - nel 1945 gli USA da soli contavano per la metà della produzione industriale e per 3/4 dei capitali mondiali investiti- che su quello militare grazie al possesso dell'arma nucleare i cui terrificanti poteri distruttivi erano stati testati contro il Giappone.

Proprio per questa oggettiva supremazia nel 1945 gli Stati Uniti ipotizzavano la continuazione se non dell'alleanza con l'URSS, che con la sconfitta della Germania nazista non aveva più motivazione, almeno di un clima di distensione e di cooperazione.

Le aspettative di Stalin

Analoga, secondo i più recenti studi, era l'aspettativa di Stalin. L'Unione Sovietica, benché vincitrice, usciva dalla guerra con gravissimi danni materiali nella parte europea e gravissime perdite umana calcolabili fra i 17 e i 20 milioni di morti. Il problema centrale della politica staliniana era dunque quello della ricostruzione del sistema produttivo, il rilancio dell'economia e, fatto nuovo rispetto all'anteguerra, il consolidamento del controllo sull'Europa dell'Est occupata dalle truppe sovietiche. Un'area vastissima che dai vecchi confini dell'URSS, ora spostati in avanti, arrivava fino a Berlino e a Vienna.

In estrema sintesi, le due superpotenze parevano avere alla fine del 1945 un convergente interesse al mantenimento dello status quo e dunque di rapporti non conflittuali. Il che spiega, nel caso italiano e francese, l'atteggiamento cauto di Stalin verso una Resistenza che doveva avere solo carattere antifascista e non travalicare, come parte del movimento comunista auspicava, in una lotta finalizzata alla presa del potere e alla trasformazione rivoluzionaria della società. Coerentemente con la natura ideologica del potere sovietico e con il suo ruolo di leader indiscusso del movimento comunista mondiale Stalin non rinunciava però ai proclami sul rfforzameno dell'URSS e dei partiti comunisti sia come baluardo nei confronti della possibile risorgenza in Europa di un nazionalismo tedesco che come premessa della vittoria del socialismo sull'imperialismo considerata come un portato inevitabile della storia. Così come non veniva nascosto l'obiettivo di dotarsi a propria volta di armi nucleari per colmare il gap strategico con gli Stati Uniti. Tutto questo faceva si che, nonostante la politica di cauto realismo della dirigenza sovietica, l'URSS incominciasse ad essere percepita in Occidente come una potenziale minaccia, fautrice di una politica aggressiva ed espansionistica. Insomma, come è stato ben messo in luce dalla ricerca storica soprattutto degli ultimi anni, la stessa configurazione bipolare degli assetti internazionali tendeva ad acuire l’antagonismo tra USA e URSS e la sensazione condivisa da entrambe le potenze di essere in presenza di una minaccia.

La politica di Truman

Il risultato immediato fu un radicale cambio di prospettiva nella politica americana. Il successore di Roosevelt alla presidenza degli Stati Uniti, Harry Truman, che aveva vinto le elezioni promettendo una maggiore fermezza verso l'espansionismo russo, denunciò la politica sovietica in Europa orientale come un tentativo di assimilazione forzata di quei paesi al sistema politico-economico russo. Definitivamente archiviata la solidarietà antifascista degli anni della guerra al nazismo, si sviluppò una narrazione che contrapponeva a un minaccioso totalitarismo sovietico (l'orso russo), un occidente libero e democratico che andava difeso ad ogni costo. Il primo risultato fu il congelamento della situazione creatasi in Germania, non dando seguito a quanto deciso nella conferenza di Potsdam nel luglio-agosto 1945 che prevedeva la ricostituzione di una Germania neutrale e smilitarizzata. La parte occidentale della Germania diventò per l'amministrazione Truman l'avamposto estremo dell'Occidente, da integrare, anche militarmente, nel sistema politico ed economico euro-atlantico in via di costituzione. Proprio quello che per Stalin era il peggio incubo, il risorgere di una potenza tedesca nel cuore dell'Europa, diventava già nel 1946 una possibilità reale. Nel febbraio del 1946, nel suo primo importante discorso pubblico dopo la fine della guerra, Stalin riaffermò la validità della tesi che il capitalismo portava inevitabilmente alla guerra e che dunque l'Unione Sovietica doveva mantenersi pronta a reagire ad ogni tipo di eventualità ed evitare quanto accaduto nel 1940 con l'attacco a sorpresa nazista. La risposta fu il discorso di Winston Churchill a Fulton, con l'affermazione, destinata a grande celebrità, che una “cortina di ferro” era discesa sul continente europeo tra la parte orientale, vittima di un brutale totalitarismo, e quella occidentale la cui libertà andava ad ogni costo salvaguardata. Era l'inizio della guerra fredda.

La guerra fredda e la politica del contenimento

Pochi giorni prima Truman aveva accolto in pieno la tesi di George Kennan, importante funzionario all'ambasciata di Mosca e ascoltato analista, che quella dell’Unione Sovietica era una politica espansionistica che non lasciava margini di mediazione. L'unica risposta possibile da parte degli stati Uniti e dell'Occidente era quella del “contenimento”, puntando sulla manifesta superiorità militare e sul monopolio nucleare. Secondo Kennan l'URSS usava spregiudicatamente i partiti comunisti in Occidente per raggiungere i suoi fini. Ne derivava la convinzione che anche la possibile avanzata per via democratica delle sinistre in Italia o in Francia facesse parte di questa guerra non dichiarata e che di conseguenza andasse fermata con ogni mezzo. Ne seguì una pesante opera di intervento nella politica interna francese e italiana, tramite una serie di operazione coperte gestite dalla CIA, appena costituita proprio come centro operativo della politica del contenimento, che culminò poi nelle elezioni italiane del 1948 quando non si escluse da parte americana neppure l'ipotesi di un aperto intervento militare in caso di vittoria delle sinistre.

La cristallizzazione degli assetti internazionali cominciò quindi a materializzarsi già nel corso del 1947. La guerra fredda diventava la normalità della situazione politica internazionale, presentata da ciascuna delle due potenze come una politica difensiva contro l'aggressività dell'altro.

Conseguentemente sia gli Stati Uniti che l'Unione Sovietica si dedicarono al rafforzamento del proprio campo di influenza sia sul piano economico che su quello militare. Forti della loro straordinaria potenza economica gli Stati Uniti proposero un gigantesco piano di ricostruzione dell'economia europea, aperto inizialmente anche all'URSS e ai paesi dell'Est, ma a condizioni tali che di fatto ne impedivano l'accettazione da parte di questi ultimi. Il progetto, conosciuto poi come Piano Marshall, era finalizzato a integrare le economie e i mercati europei in una rete di mutue relazioni sotto controllo americano. Il risultato fu duplice e ambivalente. Sul piano economico la liberalizzazione degli scambi e un gigantesco travaso di capitali nell'area euroatlantica permise il superamento dei danni della guerra e l'avvio di una straordinaria espansione economica destinata a durare fino alla crisi petrolifera di metà anni Settanta. Sul piano politico il Piano Marshall portò l'URSS ad arroccarsi nella propria area di influenza, limitandone ulteriormente i già ridotti spazi di libertà e integrando le economie dell'Europa Orientale nel sistema di pianificazione sovietico.

Il piano Marhall

Per Stalin il Piano Marshall, come la “dottrina Truman” del contenimento, aveva un oggettivo carattere offensivo. Ne derivò la cosiddetta “dottrina dei due campi” elaborata da Andrej Ždanov secondo la quale il mondo andava ormai considerato diviso in due campi: quello imperialista e militarista egemonizzato dagli Stati Uniti e quello socialista e pacifista guidato dall’Unione Sovietica. La “dottrina dei due campi” diventò base dell'azione dei partiti comunisti di tutto il mondo e il fondamento dal settembre 1947 del Cominform, l'organizzazione di collegamento del partito comunista dell’URSS con i partiti “fratelli” dei paesi dell’Europa orientale, dell’Italia e della Francia. La nascita del Cominform, spinse ancora di più l'Italia, sede del più grande partito comunista dell'Occidente, e dove nello stesso periodo la sinistra era stata estromessa dal governo, nelle braccia degli Stati Uniti. Da allora fino almeno a tutti gli anni Settanta la politica italiana fu concepita esclusivamente in chiave atlantica, con l'obiettivo apertamente dichiarato del contenimento dell'espansione del Partito comunista. L'italia divenne una democrazia bloccata, processo non privo di effetti profondamente distorsivi dello stesso quadro democratico come testimoniano il progettato golpe del 1964, la strategia dalla tensione e delle stragi e le dinamiche legate alla Loggia P2 di Licio Gelli.

Il processo di consolidamento del blocco occidentale si estese presto dal piano economico a quello militare. Contemporaneamente al Piano Marshall (1948-1952) nell’aprile del 1949 venne dato il via alla cosiddetta alleanza atlantica (NATO) tra Stati Uniti e Canada da un lato e i principali paesi dell'Europa occidentale tra cui l’Italia. La riposta sovietica fu la formazione del COMECON e del Patto di Varsavia.

La guerra fredda diventa mondiale

Nel corso del 1949 la guerra fredda ebbe una ulteriore accelerazione. L'Unione Sovietica fece esplodere la sua prima bomba atomica, annullando così il potenziale deterrente nucleare americano, e i comunisti cinesi, guidati da Mao Zedong trionfarono nella guerra civile iniziata dopo la sconfitta giapponese del 1945, dando vita alla Repubblica Popolare Cinese. Di colpo il campo socialista raddoppiava di estensione, venendo a coprire buona parte di due continenti, l'Europa e l'Asia. La guerra fredda da fenomeno europeo diventava realtà mondiale. Gli Stati Uniti estesero la politica del “contenimento” all'Asia. La principale conseguenza sarebbe stata nel 1950 la guerra di Corea e poi agli inizi degli anni Sessanta quella del Vietnam. Infine, dopo la vittoria nel 1959 della rivoluzione cubana, anche l'America Latina da sempre considerata il “cortile di casa” degli USA, divenne materia di contesa. In Brasile nel 1964 e poi in Cile nel 1973 e in Argentina nel 1976 e ancora in America Centrale, in nome del contenimento della minaccia comunista, l'impero mise in campo tutta la sua potenza per bloccare l'evoluzione democratica di quei paesi. E proprio di questo tratteranno i contributi di questa sezione.